MAD MAX + Markonee + Mad Hatter Bologna
3 Aprile 2008 - Sottotetto
Stavolta siamo al
delirio!!! Non avrei mai potuto nemmeno immaginare
una cosa del genere ad un concerto: il pubblico
che anziché aumentare in prossimità
dello show della “main attraction”,
progressivamente diminuisce di numero… Da
non credere!!! Eppure Michael Voss ed i suoi Mad
Max hanno offerto uno spettacolo di sano hard rock
più che dignitoso. Peccato che a godercelo
fossimo rimasti in una quindicina… Ho avuto
modo di avvicinare Michael sia prima che dopo lo
spettacolo, cogliendone la imbarazzata tensione
per lo scarso afflusso di pubblico già mentre
si esibivano i Mad Hatter, una band locale di adolescenti
in età scolastica senza grosse pretese, ma
con un consistente stuolo di compagni e conoscenti
al seguito, andati però via al termine della
performance dei propri amici. Il vero happening
della serata, almeno per questi gasati giovanissimi!
Nel frattempo Voss mi chiedeva preoccupato quanto
pubblico avessero richiamato gli House of Lords
poche sere prima e, sentendo parlare di un centinaio
di presenze, aveva reagito con un fischio di disappunto,
probabilmente facendo mentalmente un veloce calcolo
proporzionale, rapportato alla levatura dei due
nomi a raffronto. Dopo lo show ho visto un artista
molto avvilito, al pari degli altri membri della
band, al di là dei sorrisi forzati di circostanza,
degli elogi di conforto e degli amichevoli saluti
di commiato. Cosa dire? Non ci sono parole per questa
situazione, né mi ritengo qualificato a poter
fare processi.
Ha ragione da vendere
il ben più autorevole Pino Scotto quando
lamenta una assoluta mancanza di cultura rock nel
nostro Paese. Ma ancora più inconcepibile
ed ingiustificabile è la disertazione di
questi eventi anche da parte dei tanti musicisti
locali, a cui non credo farebbe male qualche lezione
di professionalità da parte di artisti di
esperienza e di successo, perlomeno in passato.
Tanto per la cronaca, nella circostanza il batterista
ufficiale Axel Kruse, impegnato con la sua band
principale Jaded Heart, è stato rimpiazzato
da Jos Zoomer che, per chi non lo sapesse, a metà
anni ‘80 è stato protagonista di alcune
cult releases firmate da Adrian Vandemberg! Nemmeno
se questi personaggi si esibissero qui da noi tutti
i giorni!!! ...Lo stesso organizzatore di BRC dimostra
di aver imparato ad accettare con una certa rassegnazione
questo stato di cose e, personalmente, gli auguro
di continuare a trovare forza e motivazioni per
coltivare questo suo coraggioso progetto e continuare
a portare in Italia eventi oramai per pochi estimatori.
Parimenti auguro a Michael Voss, sebbene egli non
sia mai stato uno dei miei idoli e, francamente,
ammetto di averlo sempre considerato nulla più
che un onesto mestierante dell’ hard rock,
di ritrovare il sorriso nel corso di queste date
italiane, e di ritornare in patria con un ricordo
non così nefasto del nostro Paese. La cosa
paradossale è che italiana è una della
maggiori labels specializzate nel settore dell’
hard rock melodico. Vista la scarsa presa di questi
eventi, molti dei quali di loro artisti, verrebbe
da chiedersi quanto siano soddisfatti delle proprie
strategie promozionali e del supporto (???) da parte
di tutti quei media italiani che rimpinguano di
promos…
Tornando alla serata,
e detto del godibile show dei Mad Max, articolato
su una scaletta…ridotta per l’occasione
e composta da una decina di brani tra cui diverse
outtakes dall’ ultimo, onesto, lavoro, senza
però alcuna rivisitazione della brillante
discografia dei Casanova, resta da spendere due
parole per i consueti opener Markonee. Repertorio
decisamente rinnovato rispetto alle precedenti esibizioni,
e quasi totalmente incentrato su pezzi nuovi, che
andranno a costituire l’ ossatura del prossimo
album, che mi auguro non si faccia attendere troppo.
Anche la loro chiusura è stata anticipata,
a riprova del fatto che non aleggiava troppo entusiasmo
l’ altra sera al Sottotetto. Apprezzabile
l’ impatto sonoro dei brani (che hanno reso
meglio rispetto alla precedente circostanza in cui
ebbi l’ opportunità di ascoltare un
paio di inediti…) Con un decente budget, grazie
magari ad un efficace contratto, con un buon produttore
(personalmente suggerirei l’ infallibile Dennis
Ward, anche se il buon Pera mi ha fatto nomi ancor
più altisonanti, che però non mi sento
autorizzato a divulgare…) e magari con qualche
tastiera in meno (non me ne voglia l’ amico
Michael T.Ross…) è facile pronosticare
un prodotto di elevata qualità, per una band
di cui sono da sempre un estimatore dichiarato.
Alessandro Lilli
HOUSE OF LORDS + Midnite Sun Bologna
26 marzo 2008 Nuovo Sottotetto
Giustizia è
fatta! Da fine 2006, ossia da quando BRC si appoggiava
ancora fiduciosa al poco collaborante Kindergarten
di Bologna, annunciando ghiotte date di miti dell’
hard rock melodico raramente visti in precedenza
sul suolo italico, avevo già messo virtualmente
in carniere l’ opportunità di godere
dell’ esibizione di James Christian e del
suo rinnovato ensemble, che continua a fregiarsi
del glorioso e pomposo nome di House of Lords. Invece
l’ infelice epilogo del sodalizio con quel
locale, portò il buon Emiliano Nanni all’
esodo da Bologna, inaugurato proprio con il trasferimento
della data degli HOL a Pisa. Lo scrivente venne
tagliato fuori dalla possibilità di una trasferta
decisamente scomoda, e la ferita ha continuato a
bruciare fino a martedì scorso. Anzi, mi
sono rifatto con gli interessi, giacchè stavolta
James & soci portano in giro un nuovo album,
“Come to my kingdom”, semplicemente
strepitoso, e di gran lunga superiore, ad avviso
di chi scrive, al pur osannato predecessore “World
upside down” lanciato durante il tour precedente.
Un autentico ritorno ai fasti dei primi albums,
confermato anche nel corso della serata dalla proposizione
di parecchi estratti che non hanno miminamente sfigurato
al cospetto delle varie Sahara, Pleasure Palace,
I wanna be loved o Love don’ t lie.
Paradossalmente,
i momenti di “stanca” dell’ esibizione
sono proprio riconducibili agli estratti dal penultimo
album, in sé non disprezzabile, ma troppo
incline ad atmosfere stucchevoli. Forse la scelta
della scaletta ha mirato a consentire a James Christian,
visibilmente appesantito, di poter tirare un po’
il fiato di tanto in tanto. C’ è peraltro
da dire che il raffinato cantante, comunque sempre
valido a livello di estensione vocale, è
stato anche penalizzato da una resa acustica che
ha impietosamente evidenziato le pecche dell’
impianto audio del locale, ampiamente migliorabile.
Mr. Christian è finanche ricorso alla sostituzione
della cavetteria del proprio microfono, con risultati
in verità non troppo evidenti. Senza sottacere
i meriti dei restanti componenti della band, in
primis del batterista BJ Zampa, autore di funambolici
numeri da circo con le sue bacchette, sulle ritmiche
invero non troppo serrate degli House of Lords,
non posso esimermi dall’ esaltare il vero
mattatore della serata, ossia il mancino chitarrista
Jimi Bell, protagonista di una prova strepitosa
che non ha fatto minimamente rimpiangere l’
axeman storico degli HoL, Lanny Cordolla.
In pochi forse sanno che il disponibilissimo Jimi
(ma per inciso anche JC si è rivelato una
persona squisita, al punto di organizzare una degustazione
di vini a fine concerto!!!) a suo tempo se la giocò
fino all’ ultimo con Zakk Wylde per il ruolo
di axeman alle corte di Ozzy… credo che non
ci sia bisogno di aggiungere altro…Impressionanti
le scorribande al fulmicotone delle sue dita lungo
la tastiera della sei corde, per dar vita ad ispirate
cascate di note.
Quasi una ventina
i brani proposti nel corso dell’ esibizione,
abbastanza ben equilibrati tra i classici ed il
nuovo repertorio dell’ attuale lineup, ma
con una tendenziale propensione per quest’
ultimo. Ad onor del vero, mancherebbero all’
appello alcuni “must” (tipo “Metallic
blue”, giustamente agognata dal mio amico
Luigi), che ad esempio avrebbe potuto sostituire
validamente il bis fuori programma “SOS in
America”, tanto per dire…Ma c’è
di che accontentarsi in una serata comunque memorabile.
Tra i vari tasselli andati al proprio posto, la
sera del 26 marzo, non posso non menzionare la opportunità,
finalmente, di vedere in azione, prima degli House
of Lords, gli amici lombardi Midnite Sun, già
personalmente conosciuti in occasione di una sfigata
serata in quel di Fusina, Venezia, alcuni anni fa.
Sul palco il quartetto ha dato piena prova del proprio
valore, dimostrando di meritare la considerazione
ed il rispetto che la band, ed alcuni componenti
in particolare, ha saputo guadagnarsi nella scena
nazionale anche attraverso collaborazioni prestigiose.
Il mio personale augurio ai Midnite Sun è
che sappiano, con il prossimo disco, riuscire ad
affermare definitivamente il proprio nome ed a consacrarsi
come una solida realtà di un panorama hard&heavy
tricolore finalmente credibile anche oltre confine. Alessandro Lilli
Tempestt featuring Jeff Scott Soto + Dream Steel
Bologna
21 marzo 2008 Nuovo Sottotetto
Occasione tanto
ghiotta quanto criminalmente sottovalutata dai più,
quella di ammirare dal vivo il grandissimo Jeff
Scott Soto al Nuovo Sottotetto di Bologna. Verò
è che una serata contraddistinta dall’
attribuzione del ruolo di headliners ai misconosciuti
brasiliani Tempestt, comprensibilmente non è
di quelle capaci di far accorrere frotte di fans
in trasferta, però al tirare delle somme
gli assenti hanno avuto decisamente torto. L’
ex frontman dei Journey (solo per citare la sua
ultima militanza fissa), accompagnato da un insolito
stuolo di fedeli ammiratrici che credo lo abbiano
seguito nelle varie date italiane, ha offerto spettacolo
da par suo, ben supportato da una band che, se di
“raccomandati” si tratta (come è
parso di intendere), ha ampiamente dimostrato di
brillare di luce propria e di meritare a pieno titolo
gli elogi di Jeff, che di certo non ci rimette la
faccia in questa operazione di lancio promozionale
per i propri amici sudamericani, anzi…
Primo a salire sul
palco è un quintetto emiliano denominato
Dream Steel, che festeggia con l’ occasione
l’ uscita del proprio album di debutto. Al
di là del nome scelto per la band, forse
ordinario ai limiti del plagio, i giovani musicisti
dimostrano molto coraggio nell’ avventurarsi
in un heavy metal piuttosto tecnico, denotando soprattutto
nel vocalist, una buona personalità ed una
spiccata attitudine a “tenere” il palco.
Avrei qualche riserva sulla scelta dei brani eseguiti,
tra cui svariate covers, non tanto analizzando singolarmente
i vari brani, quanto valutando globalmente la scaletta
proposta, decisamente troppo eterogenea. Si va dal
power-speed alla ballad più intimista, dal
progressive metal all’ hard rock blues,fino
poi a toccare un megaclassico dei Bon Jovi! Mettiamola
così: se la performance voleva dimostrare
la versatilità musicale della band, direi
che l’ obiettivo è stato ben raggiunto,
altrimenti i ragazzi dovrebbero decisamente sviluppare
una propria attitudine musicale per offrire uno
show un po’ più lineare ed omogeneo.
Comunque bravi e da tenere d’ occhio.
I Tempestt sono un’
autentica rivelazione. Singolarmente i musicisti
sono tutti estremamente dotati, a partire dal vocalist
titolare sino all’ eclettico chitarrista Gustavo.
Una menzione speciale va al bassista Paulo Soza,
semplicemente un fuoriclasse del suo strumento che
credo poco abbia da invidiare a “Sua Maestà”
Marcel Jacobs, snocciolando diversi assoli nel corso
della serata a riprova del suo ruolo tutt’
altro che secondario nell’ economia della
band. Il batterista fa storia a sé, con quell’
espressione pulita da timido liceale, quasi affetto
da ansia da prestazione. In effetti fa anch’
egli egregiamente la sua parte, addirittura dimostrando
doti canore durante lo spettacolo, su invito da
parte di Jeff. La prima mezz’ora dello show
dei brasiliani offre vari brani estratti dal loro
recente album “Bring them out”, contraddistinti
da un sound piuttosto originale, che mescola la
melodia tipica dell’ AOR con estrose soluzioni
di natura progressive. Il tutto condito da una eccellente
tecnica strumentale.
L’ attesissimo
Jeff irrompe sul palco nel bel mezzo della cover
di Burn, e già lì sorprende l’
intesa e l’ amalgama con il vocalist BJ, assieme
al quale duetta per il resto del brano. Illuminata
la scelta di quest’ ultimo di restare sul
palco a curare i cori (cosa che non era ad esempio
accaduta in occasione del concerto dei Moonstone
Project con Glenn Hughes ospite d’ eccellenza).
Jeff si spertica ad elogiare e a dare risalto a
tutta la band, con particolare riguardo proprio
al vocalist, con il quale regalerà ancora
dei brillanti duetti nel corso della performance.
Lo show fila via che è un piacere, ed al
termine della serata mi ritroverò a domandarmi
se l’ apparizione di Jeff sia stata troppo
fugace oppure l’esibizione davvero godibile
e mai monotona. In totale ho contato nove brani,
interpretati da par suo dallo strepitoso vocalist,
non senza sorprese nella scelta della scaletta.
La carriera solista si limita alla esecuzione della
hit “Eyes of love” e di un’ anteprima
del disco in uscita nei prossimi mesi. Jeff propone
anche “Insanity desire”, il brano dei
Tempestt da lui inciso, e si limita a toccare la
carriera dei Talisman, con un paio di classici tra
cui spicca “I’ll be waiting”.
Le soprese sono la
cover di Bon Jovi di “You give love a bad
name” e, soprattutto, l’ esecuzione
di un paio di brani tratti dalla colonna sonora
del film “Rockstar”, cui il dotatissimo
cantante presta la propria preziosa ugola alternandosi
ad un altro fuoriclasse del calibro di Mike Matjevic.
E così, per una strana curiosità del
destino, dopo aver assistito a due concerti dei
Soul Doctor lamentando entrambe le volte l’
assenza in scaletta della loro “Livin’
the life”, mi capita ora di ascoltarla dalla
voce del diretto interprete! L’ altro estratto
è la cadenzata “Stand up and shout”.
Cosa dire in conclusione? Soto in gran spolvero,
istrionico e dinamico sul palco al pari di un Gary
Cherone (tanto per fornire un termine di riferimento).
Prevedibile l’ assenza di covers dei Journey,
il cui distacco non dev’ essere stato propriamente
indolore, ma lo scrivente lamenta soprattutto il
mancato accenno alla discografia degli Eyes. Ma
se tanto mi dà tanto, considerato che il
26 si replica con gli House of Lords, hai visto
mai che James Christian si ricordi di aver militato
in quella band prima dell’ avvento di Jeff,
e che gli venga in mente di proporne qualche classico??? Alessandro Lilli
Soul Doctor – Markonee – Bullet
Bologna,
Sottotetto, 20.1.2008
La data di Bologna
dei Soul Doctor ha una valenza ben maggiore del
semplice ritorno sul suolo italico di una band che
ha saputo conquistarsi la stima e la simpatia dei
fans attraverso un hard rock onesto, immediato e
suonato con il cuore. Questo appuntamento segna
un importante punto di svolta per l’ attività
della sempre gagliarda Bologna Rock City.
Dopo un anno di esilio
in giro per il nord Italia, al motto di “nemo
profeta in patria est”, il buon Emiliano torna
sui suoi passi e riprende a puntare sulla città
di Bologna come sede di eventi live.Dimenticato
l’ osceno Kindergarten, Emiliano pesca dal
cilindro una nuova location, denominata “Sottotetto”,
che, senza avere le ambizioni di capienza della
principale concert hall cittadina, Estragon, rappresenta
in realtà la dimensione ottimale per la levatura
della maggior parte degli eventi organizzati da
BRC. Le foto presenti sul sito web del locale sono
decisamente fuorvianti, e fanno probabilmente riferimento
alla vecchia sala (letteralmente mansardata).
Quello in cui ci troviamo,
una volta varcato l’uscio, è invece
un ottimo padiglione, capace di accogliere quantomeno
un migliaio di persone, con il palco abbondantemente
rialzato da terra ed un impianto audio e luci finalmente
sufficiente (e da quanto si apprende, ulteriormente
perfettibile). Logisticamente la hall presenta tutti
i comforts del caso, avendo dunque tutte le carte
in regola per diventare la nuova casa bolognese
dell’ hard rock. C’è sicuramente
molta fiducia riguardo a questa nuova collaborazione,
come dimostra un nutrito cartellone di ulteriori
eventi già programmati, che preannuncia il
prossimo passaggio a Bologna, entro la fine di aprile,
e sempre per opera di BRC, di nomi come Richie Kotzen,
Eric Martin, House of Lords, Mad Max, Jeff Scott
Soto, Jaded Heart.
Con lo spirito rinfrancato
da così tante nuove prospettive di eventi
live dai quali, nell’ anno appena conclusosi,
eravamo invece stati tagliati decisamente fuori,
ci godiamo la “prima” (almeno per chi
scrive…) del nuovo vocalist dei Markonee,
il giovane mantovano Gabriele Gozzi. Direi che i
bolognesi hanno saputo rimpiazzare adeguatamente
il defezionario Giurioli, scovando un cantante contraddistinto
da un’ ottima impostazione vocale sorretta
da una notevole estensione e, cosa molto importante,
da una impeccabile inflessione inglese, maturata
grazie ad un lungo periodo trascorso negli States.
Consta, ma stasera non c’è stato modo
di verificarlo, che Gabriele se la cavi bene anche
alle tastiere, dunque ciò apre ulteriori
prospettive alle sonorità live dei Markonee.
Il quintetto propone un paio di nuovi brani, innestandoli
nella oramai collaudata scaletta di rockers tratti
dal disco di esordio. Mi riservo un giudizio più
attento sul nuovo materiale dopo ulteriori ascolti,
anche se la prima impressione è piuttosto
divergente dall’ asserito ammorbidimento del
sound. I nuovi brani sembrano al contrario avere
un taglio più heavy rispetto ai cavalli di
battaglia dei bolognesi. Come al solito una buona
prestazione, anche se la band non può più
contare sul fattore novità, data la sua oramai
consolidata fama in ambito nazionale.
I Soul Doctor sono puntuali,
professionali e precisi sul palco come lo furono
circa un anno fa. La scaletta, invero non troppo
lunga, ricalca abbastanza fedelmente quella dell’
anno passato, con un paio di innesti dall’
album attualmente da promuovere, il settantiano
“Blood runs cold”. La formazione è
la medesima, ivi compreso il secondo chitarrista
ritmico di supporto in sede live. In questo contesto,
senza volermi più di tanto soffermare sulla
prestazione offerta dalla band, al solito impeccabile,
mi preme spendere due parole sull’ operato
dell’ axeman Chris Lyne. Il biondo chitarrista,
digiuno di esperienze di rilievo al di fuori di
questo progetto, dimostra un’ attitudine rock
veramente esemplare. Snocciola i suoi riffs ed assoli
sulla propria Gibson nera con una naturalezza ed
una perizia, oltrechè con un gusto musicale,
da annichilire tanti chitarristi che si affannano
sul proprio strumento alla ricerca di noiosi ipertecnicismi
o di improbabili funambolismi. Ed alla fin fine,
la vera anima di questi Soul Doctor, semplici e
diretti, è proprio lui, con il dovuto rispetto
per Tommy Heart e gli altri componenti della band.
La serata si chiude
con una valutazione ampiamente positiva, da cui
spero BRC possa trarre conforto per proseguire con
determinazione questo nuovo percorso intrapreso.
La location è tutto sommato comoda da raggiungere
e spaziosa. Resta solo da prendere atto che purtroppo
in Italia questo genere di eventi non riesce a catalizzare
pubblico come in altri paesi europei, ed adattarsi
a questo ridotto ordine di grandezze cercando solo,
questo sì, di potenziare ed ottimizzare l’
attività di pubblicizzazione, a livello cittadino,
degli eventi in programmazione nella nuova struttura,
ancora sconosciuta ai più. Alessandro Lilli
CRASH DIET 28
giugno - Peace And Love Festival, Borlänge
(Svezia)
Io e signora già
da un po' parlottavamo dell'ipotesi di andare in
Svezia in vacanza, e quando abbiamo visto che c'era
un festival con Crashdiet, Backyard Babies, Alice
Cooper, Hanoi Rocks e tanti altri, che capitava
a fine giugno, beh, ci siamo detti che era proprio
il caso di andare. In particolare, il nostro maggiore
interesse era la cotonatissima band del defunto
(e mai abbastanza rimpianto) Dave Lepard, specie
perchè la curiosità di vedere all'opera
il nuovo cantante era tanta.
Per una serie di disguidi
e casini vari, riusciamo a procurarci i biglietti
solo per il primo giorno, quello con Crashdiet e
Backyard Babies, ma con nostro grande disappunto
scopriamo successivamente che il festival è
articolato su otto palchi e le due band suoneranno
45 minuti a testa, con Dregen e soci che inizieranno
mentre i Crashdiet sono ancora sul palco...
In ogni modo, arriviamo
all'aeroporto di Stoccolma il 27 giugno e noleggiamo
una macchina (mi sono sentito parecchio tamarro
a guidare una Golf!), e in tre ore siamo nell'anonima
Borlänge, che scopriremo poi meritarsi il soprannome
Boring-länge, affibbiatole dagli stessi svedesi
per il semplice fatto che in questa cittadina di
40000 abitanti non c'è assolutamente nulla
di interessante per 362 giorni l'anno.
L'area del festival non è in un qualche parco
ma all'interno di Borlänge stessa, per cui
intere zone del centro vengono chiuse, e chi non
ha il braccialetto (di colori diversi a seconda
del tipo di biglietto comprato) si attacca e deve
fare lunghi giri attorno alle aree chiuse (cosa
che, nei giorni per cui non avevamo il biglietto,
abbiamo dovuto fare varie volte).
Il 28 giugno è
il giorno dei nostri cotonatissimi eroi, e alle
20.45 puntuali salgono sul palco mentre noi, in
prima fila, scopriamo che c'è una spaventosa
quantità di altrettanto cotonatissimi glamsters
svedesi letteralmente pazzi per loro, che prende
almeno le prime 4 file. Le scene di isteria collettiva
non sono solo opera di teenager innamorate (manco
fossimo ad un concerto degli Him), ma anche dei
loro coetanei penemuniti, la qual cosa ci lascia
davvero basiti. Vabbè.
Avevamo lasciato i Crashdiet smarriti per la morte
di Dave Lepard e li ritroviamo in ottima forma,
con il nuovo frontman Olliver Twisted che fa di
tutto per farsi notare: corre, salta, si dimena,
si arrampica, si lancia tra la gente, una specie
di David Lee Roth muscoloso che tra l'altro non
sfigura neanche vocalmente.
Anche l'impatto musicale non è così
penalizzato dalla mancanza della seconda chitarra,
Martin Sweet fa il suo onesto lavoro sulla sei corde,
Peter London riempie parecchio grazie al sound del
basso con una leggera distorsione, ed Eric Young
dietro le pelli pesta come suo solito; i nostri
infilano quasi tutti i brani di “Rest In Sleale”
(mancano “Tikket” e “Out Of Line”),
più un paio di nuove tracce che finiranno
sul prossimo cd, tra cui brilla "Falling Rain",
un pezzo dal ritornello clamorosamente catchy.
La band suona convinta
delle proprie possibilità e delle proprie
canzoni, è bello vedere il bassista Peter
London sorridere compiaciuto ogni volta che iniziano
un pezzo, come se dicesse a sé stesso: “Ah,
si, questa è figa, suoniamola!”. Non
posso non sorridere nel vedere la grinta di questa
band che ha saputo non perdersi d’animo e
affrontare la tragica morte del fondatore e principale
songwriter, e uscirne decisamente a testa alta.
Intorno alle 21 i nostri lasciano il palco, ma si
trattengono parecchio per salutare amici e fans
nelle prime file, specie il bassista Peter London
viene praticamente risucchiato da un mare di braccia
adoranti; vedremo mai un gruppo r'n'r nostrano osannato
in patria in questo modo? Mah, io i vari Deadend
e Paul Del Bello proprio non ce li vedo, haha! Al
massimo al Mahatma Pacino potevano succedere cose
del genere, ai tempi in cui suonava in quella boy
band boara che tutti conoscete. Comunque, gli svedesotti
annunciano che di lì a breve saranno alle
transenne a firmare autografi e a quel punto l'idea
di dover cercare su quale palco stiano suonando
i Backyard Babies, rischiano di vedere giusto qualche
minuto, viene decisamente accantonata.
E infatti, qualche minuto dopo degli strilli acuti
e delle masse di capelli cotonate che convergono
da un lato del palco ci fanno intuire che qualcuno
di loro è saltato fuori: facciamo così
conoscenza con i simpatici e disponibili Eric Young
e Peter London, che tra una foto e un autografo
ci promettono che dopo che sarà uscito l'album
verranno a suonare dalle nostre parti.
Non sto a raccontarvi
nel dettaglio le cose successe nei due giorni successivi,
passati quasi interamente nell'area del camping
in mezzo a vari cotonati svedesi, lattine di birra
tiepida, discussioni sui Gemini Five e il profumo
delle panetterie italiane, ma vi elenco una serie
di conclusioni a cui sono giunto:
- In Svezia il rock'n'roll
semplicemente ESISTE: hanno locali, band, promoter,
ma soprattutto pubblico, cotonato e acchittato per
bene! Se gli svedesi sono un decimo degli italiani,
i glammettoni svedesi sono 10 volte quelli che abbiamo
qua!
- Anche il marokkino rokkeroll era cotonato: sono
avanti, gli svedesi.
- Tipicamente nei festival quando il rapporto maschi/femmine
è 70/30, si dice che è "pieno
di gnocca". Il Peace and Love Festival si avvicina
al 50/50, ed è un caso più unico che
raro anche in Svezia.
- Nei festival svedesi la birra non si compra lì,
ognuno si porta una cassa di lattine che, visto
che tanto non c'è il sole che spacca le pietre,
non serve tenere in frigo: abbiamo scroccato da
bere alla grande per tre giorni, anche perchè
se non hai una lattina in mano ti guardano come
un perdente.
- In Svezia non hanno l'estate, hanno il “white
winter” e il “green winter”: il
sole in effetti l'abbiamo visto due volte.
- Gli svedesi parlano al cellulare mentre guidano,
sputano, buttano cicche e lattine di birra per terra,
imbrattano parecchio... ma la Svezia, nonostante
tutto è pulita. Che gli spazzini siano stakanovisti?
- Non è vero che le svedesi sono tutte bellissime,
anzi, e sono pure vestite male. Ma per trovarne
una brutta tocca cercare parecchio: hanno una media
nazionale decisamente elevata, ecco, questo assolutamente
sì.
- Stoccolma è più cara del Giappone,
che ci crediate o no.
- Gli svedesi parlano un inglese che alle orecchie
degli italiani è semplicemente chiarissimo.
- Dove lo trovate in Italia un tassinaro che nel
portarvi all'aeroporto vi fa prima da guida turistica
e poi vi fa morire dal ridere con vari aneddoti
(tipo quello del white winter e green winter), il
tutto in un inglese impeccabile?
- I glammettoni svedesi amano baciarsi in bocca,
specie donne con donne e uomini con uomini.
- I maschi svedesi non sembrano minimamente interessati
al sesso.
- Le femmine svedesi sembrano pensare abbastanza
al sesso, ma l'unica persona a cui sembravano interessate
era mia moglie! Rob’n’Roll (con l’approvazione
di Betta ‘n’ Roll)
TESLA + DIAMOND HEAD + McQUEEN 28
Giugno 2007 - SB EMPIRE Londra
I Tesla hanno suonato
al Shepherd’s Bush Empire, a Londra, per una
delle tre date Europee organizzate per sponsorizzare
l’ultimo album della band americana, Real
To Reel.
Le condizioni in cui sono arrivata a Londra sono
state estenuanti, tanto come quelle del pernottamento
a Londra (incastrata ad Hymarket a vicinissima distanza
dalla bomba del TigerTiger!) e quelle del viaggio
di ritorno (sei lunghissime ore di bus!).
Ma ne valeva assolutamente
la pena: i Tesla sono stati impeccabili nell’esecuzione
dei brani e hanno sfornato uno show r’n’r
all 110%. L’Empire era affollato di fans che
aspettavano il ritorno della band dai lontanti primi
anni 90 (a giudicare dalle magliette!).
Di supporto uno show non entusiasmante di McQueen:
diciamo la verita’, queste ragazzine ci provano
troppo a fare le metallare e cadono nel patetico/ridicolo:
troppo sforzo a imitare i loro predecessori maschili,
invece che cercare di essere naturali e spontanee
e far musica con la loro testa.
A seguire, non il tanto
acclamato “Fast Eddie” con i suoi Fastway,
ma una band di casa, Diamon
Head. A dire la verita’ non
sapevo di loro fino al secondo in cui sono saltati
sul palco. Una rispettabilissima band, ma a cui
il pubblico e’ rimasto purtroppo indifferente.
Per quanto mi riguarda,
sebbene abbia rispettato e riverito i Tesla
da anni, non avevo mai avuto l’occasione di
vederli dal vivo. Dalle prime note della canzone
di apertura, Cumin' Atcha Live, ho subito scordato
le fatiche del viaggio e un sorrisone indelebile
mi si e’ stampato in faccia per due ore. Dai
primi accordi era chiaro che la band avrebbe dato
il massimo: JK (Jeff Keith) con la sua distintiva,
magnetica voce e in perfettissima forma, ed il resto
della band ha brillato sotto la sua guida.
La riunione dei Tesla
era quasi completa qui a Sheperd’s Bush, il
solo a mancare era Tommy Skeoch, sostituito dal
virtuoso chitarrista Dave Rude, dalla Frank Hannon
Band.
Erano anni che non mi sentivo cosi trasportata ed
entusiasmata da un concerto! Credo che l’unico
momento in cui non ho cantato a squarciagola sia
stato durante la cover: "Walk Away" (James
Gang).
JK sul panco splende di luce propria: cosi carismatico
e travolgente da fare rabbrividire il pubblico ogni
volta che con il palmo della mano sfiorava i piu’
fortunati tra le prime file. Non e’ mai stato
fermo durante l’ora e mezza di concerto e
non ha mai sbagliato un nota.
Dal penultimo album
ha seguito Into The Now che ha visto per
la seconda volta il pubblico londinese lanciarsi
in irrefrenabili cori, ma niente a confronto della
successiva "Modern Day Cowboy": “Bang
Bang” ha risuonato all’infinto all’Empire,
facendo scatenare i piu’ attempati rockers
nel mosh pit: il mio vicino di pit infatti si e’
pure trasformato in surfer… ma sulle nostre
testine!
"Little Suzie",
eseguita dopo "Lazy Days, Crazy Nights",
ha conquistato il cuore delle poche ragazzine tra
il pubblico. Con grande soddisfazione JK presenta
la canzone d’amore con cui i Tesla hanno raggiunto
il primo posto nelle hits in America: "Love
Song", eseguita in modo esemplare dalla band
ed accompagnata dai vertiginosi assoli di Hannon.
Avete presente le urla dell’elettrizzato pubblico
durante la registrazione di questa canzone su Five
Man Acoustical Jam? Ecco! La situazione ricreata
qui all’Empire e’ stata esattamente
la stessa: diciasette anni dopo i Tesla hanno riprodotto
lo stesso devastante effetto.
La seconda cover tratta
da Real To Reel e’ "Rock Bottom"
(UFO). Rimane solo un’altra
cover che la band propone dal loro ultimo doppio-album
ed e' "Thank You" (Led Zeppelin)
che viene introdotta da Hannon come il capolavoro
del piu’ grande chitarrista al mondo (Mr Jimmy
Page, nel caso vi state chiedendo chi sia!!!).
A questo punto un’altra ballad, "What
U Give". Ancora una volta JK non puo’
trattenere uno spontaneo sorriso di ammirazione
per il pubblico che ha tanto atteso il ritorno dei
Tesla, e che sta godendo di ogni singolo momento
che la band concede.
“Qualcuno
si ricorda un album intitolato Bust a Nut?”
chiede Frank Hannon, per introdurre "Mama’s
Fool". Il concerto e’ ormai giunto alla
fine, e gli ultimi pezzi che i Tesla suonano sono
"Signs" e "Edison’s Medicine
(Man Out Of Time)".
I Tesla hanno poi lasciato il palco con la promessa
che presto (tra sedici mesi!) torneranno in Europa
e faranno molte piu’ date e il tour arrivera’
in molti piu’ Paesi (infatti questa volta
hanno fatto solo Inghilterra e Olanda). Quindi rispolverate
i vostri scaffali di classiconi rock anni 80 e preparatevi
a godervi una delle migliori live rock band dei
nostri tempi. Laura Delnevo
GODS OF METAL 2007 2
Giugno 2007 - Idroscalo Milano
Un “penis festival”,
questo è stato il Gods of Metal per Scott
Weiland. Lo ha detto dal palco ed è difficile
dargli torto. Tutta una questione di figa, fondamentalmente:
tanti maschietti, poche femminucce. Ma procediamo
con ordine e concentriamoci sull’acqua.
Troppo facile fare dell’umorismo macabro.
Presunto ritorno di fiamma tra Tommy Lee e Pamela
Anderson: lei che lo segue in tour, il mare dei
milanesi ultimamente è piuttosto pericoloso,
qualcuno rischia di affogare, la bagnina di Baywatch
si tuffa e salva il poveraccio di turno. Niente
di tutto ciò.
Pioggia a catinelle,
pozzanghere da vera kermesse rock, fango per tutti.
Arriviamo poco prima dell’inizio dello show
dei Thin Lizzy e per quanto riguarda i concerti
di Tigertailz e White Lion dobbiamo accontentarci
di recensioni di seconda mano e previsioni avveratesi.
Dunque, dei Tigertailz
Parato (Simone, write di SLAM!.ndc) ha
detto qualcosa tipo “ridicoli, ma bellissimi
i loro cappotti di ciniglia e le calzature da pugile”.
Nessun commento sulla musica, peccato averli persi.
La saggezza invece di Luca dei Directors a proposito
dei White Lion:
“Alla fine c’è solo Mike
Tramp, possiamo anche farne a meno”.
E vabbè.
Thin
Lizzy, orfani ahinoi di Phil Lynott,
soddisfano tutti. Partono con le sirene che annunciano
“Jailbreak” e concludono con “The
Boys Are Back In Town”, in mezzo ritornelli
killer e riff da antologia. Qualcuno arrivato in
ritardo chiede “ma l’hanno fatta ‘Whiskey
In The Jar’?”, no. Il sottoscritto si
chiede “hanno fatto ‘Hollywood’?”,
non credo. Voto: sette e mezzo.
Maledizione. Il diluvio
universale mette in moto l’ingegnosità
criminale dei bagarini: cinque euro per un sacchetto
dell’immondizia spacciato per parapioggia.
Colori rosso, blu, trasparente. Affari d’oro.
Ne compriamo uno, ma la giustizia divina fa il suo
corso. A uno di questi baluba meridionali cadono
dallo zaino due kway e, tac, prontamente li raccogliamo
da terra. Tre impermeabili al prezzo di uno, non
male.
Gli Scorpions
dettano legge, mulinelli da arena rock, assoli di
basso e batteria, bis devastanti prima di salutare
tutti. Validi i pezzi nuovi, commoventi i classici.
Niente “Wind Of Change” però:
cos’è, revisionismo? Come se il muro
di Berlino non fosse mai caduto. Come se sul Corriere
della Sera non avessero riportato le strofe della
marcia funebre della Guerra Fredda.
E veniamo ai Velvet
Revolver. Poche tette e poca figa,
il signor Weiland si lamenta. Poi improvvisamente
si riscopre compagno e fa un discorso sul rock and
roll contro l’oppressione. La classe non è
acqua: Duff McKagan ha una bella sciarpa legata
intorno al collo. Non un foulard, proprio una sciarpetta
di lana. Slash suona come Slash e tanti complimenti
all’intera band.
Nessuno rimpiange Axl Rose: “It’s So
Easy” e “Mr. Brownstone” e tutti
sono contenti. E se i Guns and Roses in passato
hanno regalato a noi sfigati la cover più
pallosa della storia della musica – “Knockin’
On Heaven’s Door” – i Velvet Revolver
si sprecano con “Wish You Were Here”.
Decisamente contemporanei questi Velvet Revolver,
fanno il loro sporco mestiere e chi può dire
qualcosa.
Non stiamo qui a discutere
sull’improbabile look di molti presenti. Non
gareggia il tipo con spandex aperto sulle cosce
e gilet di maglia metallica. Squalificata per scorrettezza
la tipa in hot pants e scarpe coi tacchi aperte
davanti e dietro: sì, per assurdo lei avrà
avuto i piedi sicuramente più asciutti dei
nostri. Scoraggiante il tipo agghindato come il
peggior Tommy Lee degli ultimi dieci anni. D’accordo,
un po’ abbiamo discusso.
Headliner, Motley
Crue. Aspettavamo nani e ballerine,
abbiamo avuto solo rock and roll. Da “Dr.
Feelgood” ad “Anarchy In The Usa”,
apice dello spettacolo quel “porco dio”
ripetuto con piacere più volte. E l’intermezzo
sexy con la giovane che chiede a Tommy Lee “ti
piace la figa?” – preziosa lezione per
tutte le suicide-sick girl nostrane.
Vincenzo è un
po’ appesantito, ma corre e canta che è
un piacere. Nikki Sixx fa Nikki Sixx, quello punk
che suona solo le corde a vuoto e tira pugni al
microfono rischiando ogni volta di beccarselo in
faccia. Lee Tommy, prima il cognome e poi il nome,
si diverte e ci diverte. Sorpresa, Mick Mars si
regge in piedi, fa i cori e non è messo così
male come pensavamo. Certo, necessita di supporto
e qualcuno che lo accompagni nel backstage –
ma tant’è.
L’anno prossimo vogliamo i Poison. Ora parliamo
brevemente di quello che non abbiamo avuto in questo
2007: un incontro del tutto casuale con Duff oppure
Vince Neil. Tipo, ci svegliamo alle due del giorno
dopo, facciamo un giro intorno agli alberghi chic
della zona e becchiamo una rock star a caso che
passeggia, ammira le bellezze culturali di questo
Paese e si dedica allo shopping estremo.
Perché a Hollywood
hanno solo tettone e soldi. Ora, potrebbero portare
le loro donne siliconate ai nostri concerti, spendere
i loro dollari in via Montenapoleone quando noi
passeggiamo incontrando solo Enrico Beruschi e Leone
Di Lernia, studiare l’architettura fascista
e applaudire i ciclisti in maglia rosa.
Il 3 giugno a Milano
c’è il giro d’Italia e gli unici
vip che incrociamo sono i due sopracitati, “orologiao
– ao, ao” che offre il caffè
e il secondo che canta “Ti si’ mangiato
la banana”. E nelle orecchie abbiamo il ritornello
di “Girls, Girls, Girls” e davanti agli
occhi c’è solo Vincenzo che alza i
pugni al cielo e fa “brum, brum”. Miguel Basetta
Moonstone Project feat. Glenn Hughes + Black
Rose 15
maggio 2007 - Estragon, Bologna
Memorabile serata all’insegna
della musica di qualità all’Estragon
di Bologna, in occasione della data del tour italiano
dei Moonstone Project, accompagnati dal Glenn “the
Voice of rock” Hughes.
L’apertura è affidata ai locali Black
Rose, che avevo già avuto
modo di vedere onstage in occasione del concerto
bolognese dei Soul Doctor. Il quintetto di Max Gazzoni
risulta decisamente più disinvolto ed a proprio
agio rispetto alla precedente apparizione, forse
anche in virtù del fatto di trovarsi calato
in un contesto molto più vicino alla propria
proposta musicale. I brani presentati dalla band
vanno ad attingere dal repertorio più incisivo
del disco di esordio “The return of the
Black Rose”, con songs tipo "Bad
News" e "Billy", e trovano un buon
riscontro nel pubblico presente, che tributa più
di una ovazione ai bolognesi. Per Max si avvera
il sogno di aprire per Glenn Hughes, ma soprattutto
si concretizza il risultato di una esperienza live
più che soddisfacente, che mi auguro possa
far confluire l’attenzione dei fans sulla
sua meritevole formazione.
Dopo una pausa forse
un tantino eccessiva, ecco finalmente apparire sul
palco gli headliners Moonstone
Project. I primi brani sono affidati
ad un line-up tutto italiano, che vede alla voce
Marco Sivo ed al basso Nik Mazzucconi. Gli occhi
sono ovviamente puntati sul mastermind del progetto,
ovvero il formidabile chitarrista Matteo “Matt”
Filippini. Anche se musicalmente i suoi punti di
riferimento possono essere diversi, l’accostamento
che mi è parso più congeniale per
attitudine scenica e gusto musicale è quello
con l’ immenso Steve Lukather,
tanto per lasciar intendere che qui non siamo di
fronte al solito guitar-hero affetto da “ansia
da prestazione”, a base di velocità
e fisicità nella performance, bensì
ad un chitarrista di razza che sente in prima persona
le emozioni create dalla propria sei corde. In altre
parole un musicista vero, capace di scrivere ed
eseguire melodie di valenza ben superiore a quella
di una semplice canzone. Colpisce molto, già
in questa prima fase dello spettacolo, l’amalgama
tra i diversi strumentisti (citiamo pure Alessandro
Del Vecchio alle tastiere e Ramon Rossi alla batteria),
che eleva l’esibizione su livelli qualitativi
altissimi, e non sempre facili da riscontrare in
un combo tutto italiano dedito all’ hard rock.
Dopo la brillante performance di alcuni estratti
dal pregevole “Time to take a stand”,
arriva l’attesissimo momento dell’apparizione
in scena della vera attrazione della serata, il
bassista/cantante Glenn Hughes. Il “mito”,
apparso in invidiabile forma fisica e molto più
rilassato rispetto a precedenti sue apparizioni
su suolo italico, ruba ovviamente la scena agli
altri strumentisti sul palco (a Marco e Nik ruba
letteralmente il posto!!!), senza tuttavia offuscarne
il ruolo. Il concerto resta infatti un’ esibizione
corale e non un “one man show”.
C’è gloria
per tutti i musicisti, a turno, attraverso competenti
assoli con i rispettivi strumenti, e l’intera
esibizione si connota più come una esperienza
musicale ad ampio respiro, che non come la banale
proposizione di un semplice set di canzoni hard
rock. Ovviamente nel corso dello spettacolo sono
individuabili classicissimi come "Mistreated",
"Gettin’ Tighter", "You keep
on moving", "Soul Mover", giusto
per citarne alcuni, oltre ad ulteriori estratti
dall’ album di Matt Filippini interpretati
da Glenn (Where do you hide the blues you got),
ma tutto il concerto sembra legato da un unico filo
conduttore: il piacere di suonare della buona musica.
Più di una volta “the Voice of rock”
delizia i presenti con alcuni solos vocali in cui
spazia dalle tonalità più basse fino
ai suoi celebri acuti, e direi che la sua estensione
vocale si dimostra perfettamente integra. Si conclude
ovviamente con la immancabile "Burn",
e la mia ultima considerazione va, ancora una volta,
ai troppi spazi vuoti di fronte ad uno spettacolo
di tale caratura.
E’ vero che il
tour dei Moonstone Project è articolato su
parecchie date nazionali, che hanno senz’altro
determinato una maggior diluizione delle presenze
tra le diverse serate. Ma se il pensiero mi torna
alle immagini mostrate anche in Rai, che documentano
alcune piazze bolognesi sistematicamente gremite
di giovani fino a notte fonda per presenziare al
… nulla, mi viene da pensare che in questa,
che rimane la città dei giovani per antonomasia,
l’indifferenza mostrata nei confronti del
passaggio di un mostro sacro della musica (non solo
rock) del calibro di Glenn Hughes, dimostra in maniera
impietosa l’avvilente stato in cui versa la
cultura (???) musicale nel nostro Paese. Alessandro Lilli
SUPERSUCKERS + PEAWEES 3
marzo 2007 - Rock Plane Pinarella di Cervia
Amo il punk rock, ma
soprattutto adoro coprirmi di ridicolo. L’obiettivo
della gita a Pinarella di Cervia è fondamentalmente
incontrare i Supersuckers in spiaggia. Palla in
rete: una volta avvistati quattro individui totalmente
fuori luogo a spasso sulla sabbia, ci avviciniamo,
lo riconosco, è lui. “Are you Eddie?”.
Sì, Spaghetti in riva al mare. Che non è
un piatto tipico locale. Seguono foto di fan abbracciati
al proprio idolo, senza stivali, senza occhiali
da sole e senza cappello da cowboy. Comunque in
posa, Eddie Spaghetti fa le corna.
Provo a ricordargli
l’intervista priva di qualsiasi senso fatta
su Bam! Magazine, ma niente, non se la ricorda.
Eddie Spaghetti, che sa sempre il fatto suo, dice
qualcosa del tipo “sarà stata sicuramente
fantastica”. Bene, siamo tutti contenti. Se
non fosse per il fatto che a Pinarella di Cervia
non c’è un cazzo da fare, nulla da
vedere, è dura riempire un pomeriggio. In
attesa dello show, al Rock Planet. Tralasciando
quindi tutto quello che è successo tra le
16 e le 22 circa, arriviamo al concerto.
Anzi no. Concluso il
soundcheck incrocio Rontrose Heatman, guitar hero
dei Supersuckers. Aggredendolo con un pietoso “I
wanna show you something” gli mostro la t-shirt
dei Black Halos. Lui ha suonato un assolo su “Alive
Without Control”, mi risponde dicendo “sì,
li conosco, grandi, stanno registrando il nuovo
disco”. E io, “yeah, and they cancelled
their European tour to tour the U.S with Social
Distortion”. Risposta di Ron: “Awesome”.
Maledetti Black Halos, caro Ron “tell Adam
they are assholes”. Seconda risposta di Ron:
“I’ll mail him”. Coprirsi di ridicolo,
appunto.
Ci sono i Peawees
di supporto, non suonano da un bel
po’ e, sì, tanta gente è davanti
al palco per loro. Spettacolo onesto, rockabilly
e biker e giovani fanciulle in prima fila sembrano
apprezzare. Un po’ di pezzi dall’ormai
preistorico “Dead End City”, qualche
cover e due nuove canzoni prese dal prossimo album
in uscita ad aprile per Wynona Records. Meritevole
di menzione “Action”, in pieno stile
Devil Dogs. E tanti complimenti
ai ragazzi.
Ora, tornando a Rontrose
Heatman: il mio chitarrista preferito dei Supersuckers
– l’altro è il possente Dan Thunderbolton,
un uomo un pedale wah wah – si è portato
in tour il figlio, età variabile tra i dieci
e i dodici anni. Il piccolo, orgoglioso di essere
il figlio di Ron e altrettanto orgoglioso di indossare
una maglietta “Motherfuckers Be Trippin”,
fa il roadie. Sistema cavi, sposta casse, asciuga
con meticolosa attenzione il palco lasciato dal
bassista dei Peawees in condizioni più o
meno disastrose. E’ sfruttamento del lavoro
minorile? Forse sì, ma lui è felice.
Orgoglioso è proprio la parola giusta. Contento
lui, contenti tutti noi.
“In the beginning
there was nothing but rock, and then someone invented
the wheel, and things just begin to roll”.
Così partono loro, Supersuckers
all’opera: “That’s
Rock and Roll”. Inizio fiacco, concerto in
salita, distruzione finale. La scaletta non soddisfa
proprio tutti, i ragazzi dietro di me continuano
a mostrare a Eddie un pacchetto di chewin gum e
un bicchiere di birra, vogliono ascoltare “Bubblegum
and Beer”, ma niente. La furia di “I
Want The Drugs” e “Dead Meat”,
il pop di “Pretty Fucked Up” e il “Supersucker
Drive By Blues”…
Che facciamo a fare
il bis se possiamo stare tranquillamente sul palco
e regalarvi altre canzoni continuando a sudare qui
davanti a voi? A che serve andare cinque minuti
nel backstage? Questi sono i Supersuckers, con Eddie
Spaghetti che mette il basso al collo di Ron e suona
un assolo sulla chitarra di quest’ultimo.
Mi risulta difficile spiegarlo a parole, perdonatemi,
guardate la foto e capirete: un numero da grande
scuola circense, mica cazzi. E poi il dito medio
in aria, le corna al cielo e “raise your beers
and let’s say cheers to the rock and roll
records ain’t sellin’ this year”.
Già, “The
Evil Powers Of Rock and Roll”, “The
greatest rock and roll band in the world”
e chi più ne ha più ne metta: i Supersuckers,
il rock and roll e ancora i Supersuckers. Let
the punks be punks so I can rock and roll…
E rido, grasse risate. Miguel Basetta