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MAD MAX + Markonee + Mad Hatter
Bologna 3 Aprile 2008 - Sottotetto

Stavolta siamo al delirio!!! Non avrei mai potuto nemmeno immaginare una cosa del genere ad un concerto: il pubblico che anziché aumentare in prossimità dello show della “main attraction”, progressivamente diminuisce di numero… Da non credere!!! Eppure Michael Voss ed i suoi Mad Max hanno offerto uno spettacolo di sano hard rock più che dignitoso. Peccato che a godercelo fossimo rimasti in una quindicina… Ho avuto modo di avvicinare Michael sia prima che dopo lo spettacolo, cogliendone la imbarazzata tensione per lo scarso afflusso di pubblico già mentre si esibivano i Mad Hatter, una band locale di adolescenti in età scolastica senza grosse pretese, ma con un consistente stuolo di compagni e conoscenti al seguito, andati però via al termine della performance dei propri amici. Il vero happening della serata, almeno per questi gasati giovanissimi! Nel frattempo Voss mi chiedeva preoccupato quanto pubblico avessero richiamato gli House of Lords poche sere prima e, sentendo parlare di un centinaio di presenze, aveva reagito con un fischio di disappunto, probabilmente facendo mentalmente un veloce calcolo proporzionale, rapportato alla levatura dei due nomi a raffronto. Dopo lo show ho visto un artista molto avvilito, al pari degli altri membri della band, al di là dei sorrisi forzati di circostanza, degli elogi di conforto e degli amichevoli saluti di commiato. Cosa dire? Non ci sono parole per questa situazione, né mi ritengo qualificato a poter fare processi.

Ha ragione da vendere il ben più autorevole Pino Scotto quando lamenta una assoluta mancanza di cultura rock nel nostro Paese. Ma ancora più inconcepibile ed ingiustificabile è la disertazione di questi eventi anche da parte dei tanti musicisti locali, a cui non credo farebbe male qualche lezione di professionalità da parte di artisti di esperienza e di successo, perlomeno in passato. Tanto per la cronaca, nella circostanza il batterista ufficiale Axel Kruse, impegnato con la sua band principale Jaded Heart, è stato rimpiazzato da Jos Zoomer che, per chi non lo sapesse, a metà anni ‘80 è stato protagonista di alcune cult releases firmate da Adrian Vandemberg! Nemmeno se questi personaggi si esibissero qui da noi tutti i giorni!!! ...Lo stesso organizzatore di BRC dimostra di aver imparato ad accettare con una certa rassegnazione questo stato di cose e, personalmente, gli auguro di continuare a trovare forza e motivazioni per coltivare questo suo coraggioso progetto e continuare a portare in Italia eventi oramai per pochi estimatori. Parimenti auguro a Michael Voss, sebbene egli non sia mai stato uno dei miei idoli e, francamente, ammetto di averlo sempre considerato nulla più che un onesto mestierante dell’ hard rock, di ritrovare il sorriso nel corso di queste date italiane, e di ritornare in patria con un ricordo non così nefasto del nostro Paese. La cosa paradossale è che italiana è una della maggiori labels specializzate nel settore dell’ hard rock melodico. Vista la scarsa presa di questi eventi, molti dei quali di loro artisti, verrebbe da chiedersi quanto siano soddisfatti delle proprie strategie promozionali e del supporto (???) da parte di tutti quei media italiani che rimpinguano di promos…

Tornando alla serata, e detto del godibile show dei Mad Max, articolato su una scaletta…ridotta per l’occasione e composta da una decina di brani tra cui diverse outtakes dall’ ultimo, onesto, lavoro, senza però alcuna rivisitazione della brillante discografia dei Casanova, resta da spendere due parole per i consueti opener Markonee. Repertorio decisamente rinnovato rispetto alle precedenti esibizioni, e quasi totalmente incentrato su pezzi nuovi, che andranno a costituire l’ ossatura del prossimo album, che mi auguro non si faccia attendere troppo. Anche la loro chiusura è stata anticipata, a riprova del fatto che non aleggiava troppo entusiasmo l’ altra sera al Sottotetto. Apprezzabile l’ impatto sonoro dei brani (che hanno reso meglio rispetto alla precedente circostanza in cui ebbi l’ opportunità di ascoltare un paio di inediti…) Con un decente budget, grazie magari ad un efficace contratto, con un buon produttore (personalmente suggerirei l’ infallibile Dennis Ward, anche se il buon Pera mi ha fatto nomi ancor più altisonanti, che però non mi sento autorizzato a divulgare…) e magari con qualche tastiera in meno (non me ne voglia l’ amico Michael T.Ross…) è facile pronosticare un prodotto di elevata qualità, per una band di cui sono da sempre un estimatore dichiarato.

Alessandro Lilli

 
HOUSE OF LORDS + Midnite Sun
Bologna 26 marzo 2008 Nuovo Sottotetto

Giustizia è fatta! Da fine 2006, ossia da quando BRC si appoggiava ancora fiduciosa al poco collaborante Kindergarten di Bologna, annunciando ghiotte date di miti dell’ hard rock melodico raramente visti in precedenza sul suolo italico, avevo già messo virtualmente in carniere l’ opportunità di godere dell’ esibizione di James Christian e del suo rinnovato ensemble, che continua a fregiarsi del glorioso e pomposo nome di House of Lords. Invece l’ infelice epilogo del sodalizio con quel locale, portò il buon Emiliano Nanni all’ esodo da Bologna, inaugurato proprio con il trasferimento della data degli HOL a Pisa. Lo scrivente venne tagliato fuori dalla possibilità di una trasferta decisamente scomoda, e la ferita ha continuato a bruciare fino a martedì scorso. Anzi, mi sono rifatto con gli interessi, giacchè stavolta James & soci portano in giro un nuovo album, “Come to my kingdom”, semplicemente strepitoso, e di gran lunga superiore, ad avviso di chi scrive, al pur osannato predecessore “World upside down” lanciato durante il tour precedente. Un autentico ritorno ai fasti dei primi albums, confermato anche nel corso della serata dalla proposizione di parecchi estratti che non hanno miminamente sfigurato al cospetto delle varie Sahara, Pleasure Palace, I wanna be loved o Love don’ t lie.

Paradossalmente, i momenti di “stanca” dell’ esibizione sono proprio riconducibili agli estratti dal penultimo album, in sé non disprezzabile, ma troppo incline ad atmosfere stucchevoli. Forse la scelta della scaletta ha mirato a consentire a James Christian, visibilmente appesantito, di poter tirare un po’ il fiato di tanto in tanto. C’ è peraltro da dire che il raffinato cantante, comunque sempre valido a livello di estensione vocale, è stato anche penalizzato da una resa acustica che ha impietosamente evidenziato le pecche dell’ impianto audio del locale, ampiamente migliorabile. Mr. Christian è finanche ricorso alla sostituzione della cavetteria del proprio microfono, con risultati in verità non troppo evidenti. Senza sottacere i meriti dei restanti componenti della band, in primis del batterista BJ Zampa, autore di funambolici numeri da circo con le sue bacchette, sulle ritmiche invero non troppo serrate degli House of Lords, non posso esimermi dall’ esaltare il vero mattatore della serata, ossia il mancino chitarrista Jimi Bell, protagonista di una prova strepitosa che non ha fatto minimamente rimpiangere l’ axeman storico degli HoL, Lanny Cordolla.
In pochi forse sanno che il disponibilissimo Jimi (ma per inciso anche JC si è rivelato una persona squisita, al punto di organizzare una degustazione di vini a fine concerto!!!) a suo tempo se la giocò fino all’ ultimo con Zakk Wylde per il ruolo di axeman alle corte di Ozzy… credo che non ci sia bisogno di aggiungere altro…Impressionanti le scorribande al fulmicotone delle sue dita lungo la tastiera della sei corde, per dar vita ad ispirate cascate di note.

Quasi una ventina i brani proposti nel corso dell’ esibizione, abbastanza ben equilibrati tra i classici ed il nuovo repertorio dell’ attuale lineup, ma con una tendenziale propensione per quest’ ultimo. Ad onor del vero, mancherebbero all’ appello alcuni “must” (tipo “Metallic blue”, giustamente agognata dal mio amico Luigi), che ad esempio avrebbe potuto sostituire validamente il bis fuori programma “SOS in America”, tanto per dire…Ma c’è di che accontentarsi in una serata comunque memorabile.
Tra i vari tasselli andati al proprio posto, la sera del 26 marzo, non posso non menzionare la opportunità, finalmente, di vedere in azione, prima degli House of Lords, gli amici lombardi Midnite Sun, già personalmente conosciuti in occasione di una sfigata serata in quel di Fusina, Venezia, alcuni anni fa. Sul palco il quartetto ha dato piena prova del proprio valore, dimostrando di meritare la considerazione ed il rispetto che la band, ed alcuni componenti in particolare, ha saputo guadagnarsi nella scena nazionale anche attraverso collaborazioni prestigiose. Il mio personale augurio ai Midnite Sun è che sappiano, con il prossimo disco, riuscire ad affermare definitivamente il proprio nome ed a consacrarsi come una solida realtà di un panorama hard&heavy tricolore finalmente credibile anche oltre confine.
Alessandro Lilli

 
Tempestt featuring Jeff Scott Soto + Dream Steel
Bologna 21 marzo 2008 Nuovo Sottotetto

Occasione tanto ghiotta quanto criminalmente sottovalutata dai più, quella di ammirare dal vivo il grandissimo Jeff Scott Soto al Nuovo Sottotetto di Bologna. Verò è che una serata contraddistinta dall’ attribuzione del ruolo di headliners ai misconosciuti brasiliani Tempestt, comprensibilmente non è di quelle capaci di far accorrere frotte di fans in trasferta, però al tirare delle somme gli assenti hanno avuto decisamente torto. L’ ex frontman dei Journey (solo per citare la sua ultima militanza fissa), accompagnato da un insolito stuolo di fedeli ammiratrici che credo lo abbiano seguito nelle varie date italiane, ha offerto spettacolo da par suo, ben supportato da una band che, se di “raccomandati” si tratta (come è parso di intendere), ha ampiamente dimostrato di brillare di luce propria e di meritare a pieno titolo gli elogi di Jeff, che di certo non ci rimette la faccia in questa operazione di lancio promozionale per i propri amici sudamericani, anzi…

Primo a salire sul palco è un quintetto emiliano denominato Dream Steel, che festeggia con l’ occasione l’ uscita del proprio album di debutto. Al di là del nome scelto per la band, forse ordinario ai limiti del plagio, i giovani musicisti dimostrano molto coraggio nell’ avventurarsi in un heavy metal piuttosto tecnico, denotando soprattutto nel vocalist, una buona personalità ed una spiccata attitudine a “tenere” il palco. Avrei qualche riserva sulla scelta dei brani eseguiti, tra cui svariate covers, non tanto analizzando singolarmente i vari brani, quanto valutando globalmente la scaletta proposta, decisamente troppo eterogenea. Si va dal power-speed alla ballad più intimista, dal progressive metal all’ hard rock blues,fino poi a toccare un megaclassico dei Bon Jovi! Mettiamola così: se la performance voleva dimostrare la versatilità musicale della band, direi che l’ obiettivo è stato ben raggiunto, altrimenti i ragazzi dovrebbero decisamente sviluppare una propria attitudine musicale per offrire uno show un po’ più lineare ed omogeneo. Comunque bravi e da tenere d’ occhio.

I Tempestt sono un’ autentica rivelazione. Singolarmente i musicisti sono tutti estremamente dotati, a partire dal vocalist titolare sino all’ eclettico chitarrista Gustavo. Una menzione speciale va al bassista Paulo Soza, semplicemente un fuoriclasse del suo strumento che credo poco abbia da invidiare a “Sua Maestà” Marcel Jacobs, snocciolando diversi assoli nel corso della serata a riprova del suo ruolo tutt’ altro che secondario nell’ economia della band. Il batterista fa storia a sé, con quell’ espressione pulita da timido liceale, quasi affetto da ansia da prestazione. In effetti fa anch’ egli egregiamente la sua parte, addirittura dimostrando doti canore durante lo spettacolo, su invito da parte di Jeff. La prima mezz’ora dello show dei brasiliani offre vari brani estratti dal loro recente album “Bring them out”, contraddistinti da un sound piuttosto originale, che mescola la melodia tipica dell’ AOR con estrose soluzioni di natura progressive. Il tutto condito da una eccellente tecnica strumentale.

L’ attesissimo Jeff irrompe sul palco nel bel mezzo della cover di Burn, e già lì sorprende l’ intesa e l’ amalgama con il vocalist BJ, assieme al quale duetta per il resto del brano. Illuminata la scelta di quest’ ultimo di restare sul palco a curare i cori (cosa che non era ad esempio accaduta in occasione del concerto dei Moonstone Project con Glenn Hughes ospite d’ eccellenza). Jeff si spertica ad elogiare e a dare risalto a tutta la band, con particolare riguardo proprio al vocalist, con il quale regalerà ancora dei brillanti duetti nel corso della performance. Lo show fila via che è un piacere, ed al termine della serata mi ritroverò a domandarmi se l’ apparizione di Jeff sia stata troppo fugace oppure l’esibizione davvero godibile e mai monotona. In totale ho contato nove brani, interpretati da par suo dallo strepitoso vocalist, non senza sorprese nella scelta della scaletta. La carriera solista si limita alla esecuzione della hit “Eyes of love” e di un’ anteprima del disco in uscita nei prossimi mesi. Jeff propone anche “Insanity desire”, il brano dei Tempestt da lui inciso, e si limita a toccare la carriera dei Talisman, con un paio di classici tra cui spicca “I’ll be waiting”.

Le soprese sono la cover di Bon Jovi di “You give love a bad name” e, soprattutto, l’ esecuzione di un paio di brani tratti dalla colonna sonora del film “Rockstar”, cui il dotatissimo cantante presta la propria preziosa ugola alternandosi ad un altro fuoriclasse del calibro di Mike Matjevic.
E così, per una strana curiosità del destino, dopo aver assistito a due concerti dei Soul Doctor lamentando entrambe le volte l’ assenza in scaletta della loro “Livin’ the life”, mi capita ora di ascoltarla dalla voce del diretto interprete! L’ altro estratto è la cadenzata “Stand up and shout”. Cosa dire in conclusione? Soto in gran spolvero, istrionico e dinamico sul palco al pari di un Gary Cherone (tanto per fornire un termine di riferimento). Prevedibile l’ assenza di covers dei Journey, il cui distacco non dev’ essere stato propriamente indolore, ma lo scrivente lamenta soprattutto il mancato accenno alla discografia degli Eyes. Ma se tanto mi dà tanto, considerato che il 26 si replica con gli House of Lords, hai visto mai che James Christian si ricordi di aver militato in quella band prima dell’ avvento di Jeff, e che gli venga in mente di proporne qualche classico???
Alessandro Lilli

 
Soul Doctor – Markonee – Bullet
Bologna, Sottotetto, 20.1.2008

La data di Bologna dei Soul Doctor ha una valenza ben maggiore del semplice ritorno sul suolo italico di una band che ha saputo conquistarsi la stima e la simpatia dei fans attraverso un hard rock onesto, immediato e suonato con il cuore. Questo appuntamento segna un importante punto di svolta per l’ attività della sempre gagliarda Bologna Rock City.

Dopo un anno di esilio in giro per il nord Italia, al motto di “nemo profeta in patria est”, il buon Emiliano torna sui suoi passi e riprende a puntare sulla città di Bologna come sede di eventi live.Dimenticato l’ osceno Kindergarten, Emiliano pesca dal cilindro una nuova location, denominata “Sottotetto”, che, senza avere le ambizioni di capienza della principale concert hall cittadina, Estragon, rappresenta in realtà la dimensione ottimale per la levatura della maggior parte degli eventi organizzati da BRC. Le foto presenti sul sito web del locale sono decisamente fuorvianti, e fanno probabilmente riferimento alla vecchia sala (letteralmente mansardata).

Quello in cui ci troviamo, una volta varcato l’uscio, è invece un ottimo padiglione, capace di accogliere quantomeno un migliaio di persone, con il palco abbondantemente rialzato da terra ed un impianto audio e luci finalmente sufficiente (e da quanto si apprende, ulteriormente perfettibile). Logisticamente la hall presenta tutti i comforts del caso, avendo dunque tutte le carte in regola per diventare la nuova casa bolognese dell’ hard rock. C’è sicuramente molta fiducia riguardo a questa nuova collaborazione, come dimostra un nutrito cartellone di ulteriori eventi già programmati, che preannuncia il prossimo passaggio a Bologna, entro la fine di aprile, e sempre per opera di BRC, di nomi come Richie Kotzen, Eric Martin, House of Lords, Mad Max, Jeff Scott Soto, Jaded Heart.

Con lo spirito rinfrancato da così tante nuove prospettive di eventi live dai quali, nell’ anno appena conclusosi, eravamo invece stati tagliati decisamente fuori, ci godiamo la “prima” (almeno per chi scrive…) del nuovo vocalist dei Markonee, il giovane mantovano Gabriele Gozzi. Direi che i bolognesi hanno saputo rimpiazzare adeguatamente il defezionario Giurioli, scovando un cantante contraddistinto da un’ ottima impostazione vocale sorretta da una notevole estensione e, cosa molto importante, da una impeccabile inflessione inglese, maturata grazie ad un lungo periodo trascorso negli States. Consta, ma stasera non c’è stato modo di verificarlo, che Gabriele se la cavi bene anche alle tastiere, dunque ciò apre ulteriori prospettive alle sonorità live dei Markonee. Il quintetto propone un paio di nuovi brani, innestandoli nella oramai collaudata scaletta di rockers tratti dal disco di esordio. Mi riservo un giudizio più attento sul nuovo materiale dopo ulteriori ascolti, anche se la prima impressione è piuttosto divergente dall’ asserito ammorbidimento del sound. I nuovi brani sembrano al contrario avere un taglio più heavy rispetto ai cavalli di battaglia dei bolognesi. Come al solito una buona prestazione, anche se la band non può più contare sul fattore novità, data la sua oramai consolidata fama in ambito nazionale.

I Soul Doctor sono puntuali, professionali e precisi sul palco come lo furono circa un anno fa. La scaletta, invero non troppo lunga, ricalca abbastanza fedelmente quella dell’ anno passato, con un paio di innesti dall’ album attualmente da promuovere, il settantiano “Blood runs cold”. La formazione è la medesima, ivi compreso il secondo chitarrista ritmico di supporto in sede live. In questo contesto, senza volermi più di tanto soffermare sulla prestazione offerta dalla band, al solito impeccabile, mi preme spendere due parole sull’ operato dell’ axeman Chris Lyne. Il biondo chitarrista, digiuno di esperienze di rilievo al di fuori di questo progetto, dimostra un’ attitudine rock veramente esemplare. Snocciola i suoi riffs ed assoli sulla propria Gibson nera con una naturalezza ed una perizia, oltrechè con un gusto musicale, da annichilire tanti chitarristi che si affannano sul proprio strumento alla ricerca di noiosi ipertecnicismi o di improbabili funambolismi. Ed alla fin fine, la vera anima di questi Soul Doctor, semplici e diretti, è proprio lui, con il dovuto rispetto per Tommy Heart e gli altri componenti della band.

La serata si chiude con una valutazione ampiamente positiva, da cui spero BRC possa trarre conforto per proseguire con determinazione questo nuovo percorso intrapreso. La location è tutto sommato comoda da raggiungere e spaziosa. Resta solo da prendere atto che purtroppo in Italia questo genere di eventi non riesce a catalizzare pubblico come in altri paesi europei, ed adattarsi a questo ridotto ordine di grandezze cercando solo, questo sì, di potenziare ed ottimizzare l’ attività di pubblicizzazione, a livello cittadino, degli eventi in programmazione nella nuova struttura, ancora sconosciuta ai più.
Alessandro Lilli

 
CRASH DIET
28 giugno - Peace And Love Festival, Borlänge (Svezia)

Io e signora già da un po' parlottavamo dell'ipotesi di andare in Svezia in vacanza, e quando abbiamo visto che c'era un festival con Crashdiet, Backyard Babies, Alice Cooper, Hanoi Rocks e tanti altri, che capitava a fine giugno, beh, ci siamo detti che era proprio il caso di andare. In particolare, il nostro maggiore interesse era la cotonatissima band del defunto (e mai abbastanza rimpianto) Dave Lepard, specie perchè la curiosità di vedere all'opera il nuovo cantante era tanta.

Per una serie di disguidi e casini vari, riusciamo a procurarci i biglietti solo per il primo giorno, quello con Crashdiet e Backyard Babies, ma con nostro grande disappunto scopriamo successivamente che il festival è articolato su otto palchi e le due band suoneranno 45 minuti a testa, con Dregen e soci che inizieranno mentre i Crashdiet sono ancora sul palco...

In ogni modo, arriviamo all'aeroporto di Stoccolma il 27 giugno e noleggiamo una macchina (mi sono sentito parecchio tamarro a guidare una Golf!), e in tre ore siamo nell'anonima Borlänge, che scopriremo poi meritarsi il soprannome Boring-länge, affibbiatole dagli stessi svedesi per il semplice fatto che in questa cittadina di 40000 abitanti non c'è assolutamente nulla di interessante per 362 giorni l'anno.
L'area del festival non è in un qualche parco ma all'interno di Borlänge stessa, per cui intere zone del centro vengono chiuse, e chi non ha il braccialetto (di colori diversi a seconda del tipo di biglietto comprato) si attacca e deve fare lunghi giri attorno alle aree chiuse (cosa che, nei giorni per cui non avevamo il biglietto, abbiamo dovuto fare varie volte).

Il 28 giugno è il giorno dei nostri cotonatissimi eroi, e alle 20.45 puntuali salgono sul palco mentre noi, in prima fila, scopriamo che c'è una spaventosa quantità di altrettanto cotonatissimi glamsters svedesi letteralmente pazzi per loro, che prende almeno le prime 4 file. Le scene di isteria collettiva non sono solo opera di teenager innamorate (manco fossimo ad un concerto degli Him), ma anche dei loro coetanei penemuniti, la qual cosa ci lascia davvero basiti. Vabbè.
Avevamo lasciato i Crashdiet smarriti per la morte di Dave Lepard e li ritroviamo in ottima forma, con il nuovo frontman Olliver Twisted che fa di tutto per farsi notare: corre, salta, si dimena, si arrampica, si lancia tra la gente, una specie di David Lee Roth muscoloso che tra l'altro non sfigura neanche vocalmente.
Anche l'impatto musicale non è così penalizzato dalla mancanza della seconda chitarra, Martin Sweet fa il suo onesto lavoro sulla sei corde, Peter London riempie parecchio grazie al sound del basso con una leggera distorsione, ed Eric Young dietro le pelli pesta come suo solito; i nostri infilano quasi tutti i brani di “Rest In Sleale” (mancano “Tikket” e “Out Of Line”), più un paio di nuove tracce che finiranno sul prossimo cd, tra cui brilla "Falling Rain", un pezzo dal ritornello clamorosamente catchy.

La band suona convinta delle proprie possibilità e delle proprie canzoni, è bello vedere il bassista Peter London sorridere compiaciuto ogni volta che iniziano un pezzo, come se dicesse a sé stesso: “Ah, si, questa è figa, suoniamola!”. Non posso non sorridere nel vedere la grinta di questa band che ha saputo non perdersi d’animo e affrontare la tragica morte del fondatore e principale songwriter, e uscirne decisamente a testa alta.
Intorno alle 21 i nostri lasciano il palco, ma si trattengono parecchio per salutare amici e fans nelle prime file, specie il bassista Peter London viene praticamente risucchiato da un mare di braccia adoranti; vedremo mai un gruppo r'n'r nostrano osannato in patria in questo modo? Mah, io i vari Deadend e Paul Del Bello proprio non ce li vedo, haha! Al massimo al Mahatma Pacino potevano succedere cose del genere, ai tempi in cui suonava in quella boy band boara che tutti conoscete. Comunque, gli svedesotti annunciano che di lì a breve saranno alle transenne a firmare autografi e a quel punto l'idea di dover cercare su quale palco stiano suonando i Backyard Babies, rischiano di vedere giusto qualche minuto, viene decisamente accantonata.
E infatti, qualche minuto dopo degli strilli acuti e delle masse di capelli cotonate che convergono da un lato del palco ci fanno intuire che qualcuno di loro è saltato fuori: facciamo così conoscenza con i simpatici e disponibili Eric Young e Peter London, che tra una foto e un autografo ci promettono che dopo che sarà uscito l'album verranno a suonare dalle nostre parti.

Non sto a raccontarvi nel dettaglio le cose successe nei due giorni successivi, passati quasi interamente nell'area del camping in mezzo a vari cotonati svedesi, lattine di birra tiepida, discussioni sui Gemini Five e il profumo delle panetterie italiane, ma vi elenco una serie di conclusioni a cui sono giunto:

- In Svezia il rock'n'roll semplicemente ESISTE: hanno locali, band, promoter, ma soprattutto pubblico, cotonato e acchittato per bene! Se gli svedesi sono un decimo degli italiani, i glammettoni svedesi sono 10 volte quelli che abbiamo qua!
- Anche il marokkino rokkeroll era cotonato: sono avanti, gli svedesi.
- Tipicamente nei festival quando il rapporto maschi/femmine è 70/30, si dice che è "pieno di gnocca". Il Peace and Love Festival si avvicina al 50/50, ed è un caso più unico che raro anche in Svezia.
- Nei festival svedesi la birra non si compra lì, ognuno si porta una cassa di lattine che, visto che tanto non c'è il sole che spacca le pietre, non serve tenere in frigo: abbiamo scroccato da bere alla grande per tre giorni, anche perchè se non hai una lattina in mano ti guardano come un perdente.
- In Svezia non hanno l'estate, hanno il “white winter” e il “green winter”: il sole in effetti l'abbiamo visto due volte.
- Gli svedesi parlano al cellulare mentre guidano, sputano, buttano cicche e lattine di birra per terra, imbrattano parecchio... ma la Svezia, nonostante tutto è pulita. Che gli spazzini siano stakanovisti?
- Non è vero che le svedesi sono tutte bellissime, anzi, e sono pure vestite male. Ma per trovarne una brutta tocca cercare parecchio: hanno una media nazionale decisamente elevata, ecco, questo assolutamente sì.
- Stoccolma è più cara del Giappone, che ci crediate o no.
- Gli svedesi parlano un inglese che alle orecchie degli italiani è semplicemente chiarissimo.
- Dove lo trovate in Italia un tassinaro che nel portarvi all'aeroporto vi fa prima da guida turistica e poi vi fa morire dal ridere con vari aneddoti (tipo quello del white winter e green winter), il tutto in un inglese impeccabile?
- I glammettoni svedesi amano baciarsi in bocca, specie donne con donne e uomini con uomini.
- I maschi svedesi non sembrano minimamente interessati al sesso.
- Le femmine svedesi sembrano pensare abbastanza al sesso, ma l'unica persona a cui sembravano interessate era mia moglie!
Rob’n’Roll (con l’approvazione di Betta ‘n’ Roll)

 
TESLA + DIAMOND HEAD + McQUEEN
28 Giugno 2007 - SB EMPIRE Londra

I Tesla hanno suonato al Shepherd’s Bush Empire, a Londra, per una delle tre date Europee organizzate per sponsorizzare l’ultimo album della band americana, Real To Reel.
Le condizioni in cui sono arrivata a Londra sono state estenuanti, tanto come quelle del pernottamento a Londra (incastrata ad Hymarket a vicinissima distanza dalla bomba del TigerTiger!) e quelle del viaggio di ritorno (sei lunghissime ore di bus!).

Ma ne valeva assolutamente la pena: i Tesla sono stati impeccabili nell’esecuzione dei brani e hanno sfornato uno show r’n’r all 110%. L’Empire era affollato di fans che aspettavano il ritorno della band dai lontanti primi anni 90 (a giudicare dalle magliette!).
Di supporto uno show non entusiasmante di McQueen: diciamo la verita’, queste ragazzine ci provano troppo a fare le metallare e cadono nel patetico/ridicolo: troppo sforzo a imitare i loro predecessori maschili, invece che cercare di essere naturali e spontanee e far musica con la loro testa.

A seguire, non il tanto acclamato “Fast Eddie” con i suoi Fastway, ma una band di casa, Diamon Head. A dire la verita’ non sapevo di loro fino al secondo in cui sono saltati sul palco. Una rispettabilissima band, ma a cui il pubblico e’ rimasto purtroppo indifferente.

Per quanto mi riguarda, sebbene abbia rispettato e riverito i Tesla da anni, non avevo mai avuto l’occasione di vederli dal vivo. Dalle prime note della canzone di apertura, Cumin' Atcha Live, ho subito scordato le fatiche del viaggio e un sorrisone indelebile mi si e’ stampato in faccia per due ore. Dai primi accordi era chiaro che la band avrebbe dato il massimo: JK (Jeff Keith) con la sua distintiva, magnetica voce e in perfettissima forma, ed il resto della band ha brillato sotto la sua guida.

La riunione dei Tesla era quasi completa qui a Sheperd’s Bush, il solo a mancare era Tommy Skeoch, sostituito dal virtuoso chitarrista Dave Rude, dalla Frank Hannon Band.
Erano anni che non mi sentivo cosi trasportata ed entusiasmata da un concerto! Credo che l’unico momento in cui non ho cantato a squarciagola sia stato durante la cover: "Walk Away" (James Gang).
JK sul panco splende di luce propria: cosi carismatico e travolgente da fare rabbrividire il pubblico ogni volta che con il palmo della mano sfiorava i piu’ fortunati tra le prime file. Non e’ mai stato fermo durante l’ora e mezza di concerto e non ha mai sbagliato un nota.

Dal penultimo album ha seguito Into The Now che ha visto per la seconda volta il pubblico londinese lanciarsi in irrefrenabili cori, ma niente a confronto della successiva "Modern Day Cowboy": “Bang Bang” ha risuonato all’infinto all’Empire, facendo scatenare i piu’ attempati rockers nel mosh pit: il mio vicino di pit infatti si e’ pure trasformato in surfer… ma sulle nostre testine!

"Little Suzie", eseguita dopo "Lazy Days, Crazy Nights", ha conquistato il cuore delle poche ragazzine tra il pubblico. Con grande soddisfazione JK presenta la canzone d’amore con cui i Tesla hanno raggiunto il primo posto nelle hits in America: "Love Song", eseguita in modo esemplare dalla band ed accompagnata dai vertiginosi assoli di Hannon.
Avete presente le urla dell’elettrizzato pubblico durante la registrazione di questa canzone su Five Man Acoustical Jam? Ecco! La situazione ricreata qui all’Empire e’ stata esattamente la stessa: diciasette anni dopo i Tesla hanno riprodotto lo stesso devastante effetto.

La seconda cover tratta da Real To Reel e’ "Rock Bottom" (UFO). Rimane solo un’altra cover che la band propone dal loro ultimo doppio-album ed e' "Thank You" (Led Zeppelin) che viene introdotta da Hannon come il capolavoro del piu’ grande chitarrista al mondo (Mr Jimmy Page, nel caso vi state chiedendo chi sia!!!).
A questo punto un’altra ballad, "What U Give". Ancora una volta JK non puo’ trattenere uno spontaneo sorriso di ammirazione per il pubblico che ha tanto atteso il ritorno dei Tesla, e che sta godendo di ogni singolo momento che la band concede.

Qualcuno si ricorda un album intitolato Bust a Nut?” chiede Frank Hannon, per introdurre "Mama’s Fool". Il concerto e’ ormai giunto alla fine, e gli ultimi pezzi che i Tesla suonano sono "Signs" e "Edison’s Medicine (Man Out Of Time)".
I Tesla hanno poi lasciato il palco con la promessa che presto (tra sedici mesi!) torneranno in Europa e faranno molte piu’ date e il tour arrivera’ in molti piu’ Paesi (infatti questa volta hanno fatto solo Inghilterra e Olanda). Quindi rispolverate i vostri scaffali di classiconi rock anni 80 e preparatevi a godervi una delle migliori live rock band dei nostri tempi.
Laura Delnevo

 
GODS OF METAL 2007
2 Giugno 2007 - Idroscalo Milano

Un “penis festival”, questo è stato il Gods of Metal per Scott Weiland. Lo ha detto dal palco ed è difficile dargli torto. Tutta una questione di figa, fondamentalmente: tanti maschietti, poche femminucce. Ma procediamo con ordine e concentriamoci sull’acqua.
Troppo facile fare dell’umorismo macabro. Presunto ritorno di fiamma tra Tommy Lee e Pamela Anderson: lei che lo segue in tour, il mare dei milanesi ultimamente è piuttosto pericoloso, qualcuno rischia di affogare, la bagnina di Baywatch si tuffa e salva il poveraccio di turno. Niente di tutto ciò.

Pioggia a catinelle, pozzanghere da vera kermesse rock, fango per tutti. Arriviamo poco prima dell’inizio dello show dei Thin Lizzy e per quanto riguarda i concerti di Tigertailz e White Lion dobbiamo accontentarci di recensioni di seconda mano e previsioni avveratesi.

Dunque, dei Tigertailz Parato (Simone, write di SLAM!.ndc) ha detto qualcosa tipo “ridicoli, ma bellissimi i loro cappotti di ciniglia e le calzature da pugile”. Nessun commento sulla musica, peccato averli persi. La saggezza invece di Luca dei Directors a proposito dei White Lion: “Alla fine c’è solo Mike Tramp, possiamo anche farne a meno”. E vabbè.

Thin Lizzy, orfani ahinoi di Phil Lynott, soddisfano tutti. Partono con le sirene che annunciano “Jailbreak” e concludono con “The Boys Are Back In Town”, in mezzo ritornelli killer e riff da antologia. Qualcuno arrivato in ritardo chiede “ma l’hanno fatta ‘Whiskey In The Jar’?”, no. Il sottoscritto si chiede “hanno fatto ‘Hollywood’?”, non credo. Voto: sette e mezzo.

Maledizione. Il diluvio universale mette in moto l’ingegnosità criminale dei bagarini: cinque euro per un sacchetto dell’immondizia spacciato per parapioggia. Colori rosso, blu, trasparente. Affari d’oro. Ne compriamo uno, ma la giustizia divina fa il suo corso. A uno di questi baluba meridionali cadono dallo zaino due kway e, tac, prontamente li raccogliamo da terra. Tre impermeabili al prezzo di uno, non male.

Gli Scorpions dettano legge, mulinelli da arena rock, assoli di basso e batteria, bis devastanti prima di salutare tutti. Validi i pezzi nuovi, commoventi i classici. Niente “Wind Of Change” però: cos’è, revisionismo? Come se il muro di Berlino non fosse mai caduto. Come se sul Corriere della Sera non avessero riportato le strofe della marcia funebre della Guerra Fredda.

E veniamo ai Velvet Revolver. Poche tette e poca figa, il signor Weiland si lamenta. Poi improvvisamente si riscopre compagno e fa un discorso sul rock and roll contro l’oppressione. La classe non è acqua: Duff McKagan ha una bella sciarpa legata intorno al collo. Non un foulard, proprio una sciarpetta di lana. Slash suona come Slash e tanti complimenti all’intera band.
Nessuno rimpiange Axl Rose: “It’s So Easy” e “Mr. Brownstone” e tutti sono contenti. E se i Guns and Roses in passato hanno regalato a noi sfigati la cover più pallosa della storia della musica – “Knockin’ On Heaven’s Door” – i Velvet Revolver si sprecano con “Wish You Were Here”. Decisamente contemporanei questi Velvet Revolver, fanno il loro sporco mestiere e chi può dire qualcosa.

Non stiamo qui a discutere sull’improbabile look di molti presenti. Non gareggia il tipo con spandex aperto sulle cosce e gilet di maglia metallica. Squalificata per scorrettezza la tipa in hot pants e scarpe coi tacchi aperte davanti e dietro: sì, per assurdo lei avrà avuto i piedi sicuramente più asciutti dei nostri. Scoraggiante il tipo agghindato come il peggior Tommy Lee degli ultimi dieci anni. D’accordo, un po’ abbiamo discusso.
Headliner, Motley Crue. Aspettavamo nani e ballerine, abbiamo avuto solo rock and roll. Da “Dr. Feelgood” ad “Anarchy In The Usa”, apice dello spettacolo quel “porco dio” ripetuto con piacere più volte. E l’intermezzo sexy con la giovane che chiede a Tommy Lee “ti piace la figa?” – preziosa lezione per tutte le suicide-sick girl nostrane.

Vincenzo è un po’ appesantito, ma corre e canta che è un piacere. Nikki Sixx fa Nikki Sixx, quello punk che suona solo le corde a vuoto e tira pugni al microfono rischiando ogni volta di beccarselo in faccia. Lee Tommy, prima il cognome e poi il nome, si diverte e ci diverte. Sorpresa, Mick Mars si regge in piedi, fa i cori e non è messo così male come pensavamo. Certo, necessita di supporto e qualcuno che lo accompagni nel backstage – ma tant’è.
L’anno prossimo vogliamo i Poison. Ora parliamo brevemente di quello che non abbiamo avuto in questo 2007: un incontro del tutto casuale con Duff oppure Vince Neil. Tipo, ci svegliamo alle due del giorno dopo, facciamo un giro intorno agli alberghi chic della zona e becchiamo una rock star a caso che passeggia, ammira le bellezze culturali di questo Paese e si dedica allo shopping estremo.

Perché a Hollywood hanno solo tettone e soldi. Ora, potrebbero portare le loro donne siliconate ai nostri concerti, spendere i loro dollari in via Montenapoleone quando noi passeggiamo incontrando solo Enrico Beruschi e Leone Di Lernia, studiare l’architettura fascista e applaudire i ciclisti in maglia rosa.

Il 3 giugno a Milano c’è il giro d’Italia e gli unici vip che incrociamo sono i due sopracitati, “orologiao – ao, ao” che offre il caffè e il secondo che canta “Ti si’ mangiato la banana”. E nelle orecchie abbiamo il ritornello di “Girls, Girls, Girls” e davanti agli occhi c’è solo Vincenzo che alza i pugni al cielo e fa “brum, brum”.
Miguel Basetta

 
Moonstone Project feat. Glenn Hughes + Black Rose
15 maggio 2007 - Estragon, Bologna

Memorabile serata all’insegna della musica di qualità all’Estragon di Bologna, in occasione della data del tour italiano dei Moonstone Project, accompagnati dal Glenn “the Voice of rock” Hughes.
L’apertura è affidata ai locali Black Rose, che avevo già avuto modo di vedere onstage in occasione del concerto bolognese dei Soul Doctor. Il quintetto di Max Gazzoni risulta decisamente più disinvolto ed a proprio agio rispetto alla precedente apparizione, forse anche in virtù del fatto di trovarsi calato in un contesto molto più vicino alla propria proposta musicale. I brani presentati dalla band vanno ad attingere dal repertorio più incisivo del disco di esordio “The return of the Black Rose”, con songs tipo "Bad News" e "Billy", e trovano un buon riscontro nel pubblico presente, che tributa più di una ovazione ai bolognesi. Per Max si avvera il sogno di aprire per Glenn Hughes, ma soprattutto si concretizza il risultato di una esperienza live più che soddisfacente, che mi auguro possa far confluire l’attenzione dei fans sulla sua meritevole formazione.

Dopo una pausa forse un tantino eccessiva, ecco finalmente apparire sul palco gli headliners Moonstone Project. I primi brani sono affidati ad un line-up tutto italiano, che vede alla voce Marco Sivo ed al basso Nik Mazzucconi. Gli occhi sono ovviamente puntati sul mastermind del progetto, ovvero il formidabile chitarrista Matteo “Matt” Filippini. Anche se musicalmente i suoi punti di riferimento possono essere diversi, l’accostamento che mi è parso più congeniale per attitudine scenica e gusto musicale è quello con l’ immenso Steve Lukather, tanto per lasciar intendere che qui non siamo di fronte al solito guitar-hero affetto da “ansia da prestazione”, a base di velocità e fisicità nella performance, bensì ad un chitarrista di razza che sente in prima persona le emozioni create dalla propria sei corde. In altre parole un musicista vero, capace di scrivere ed eseguire melodie di valenza ben superiore a quella di una semplice canzone. Colpisce molto, già in questa prima fase dello spettacolo, l’amalgama tra i diversi strumentisti (citiamo pure Alessandro Del Vecchio alle tastiere e Ramon Rossi alla batteria), che eleva l’esibizione su livelli qualitativi altissimi, e non sempre facili da riscontrare in un combo tutto italiano dedito all’ hard rock. Dopo la brillante performance di alcuni estratti dal pregevole “Time to take a stand”, arriva l’attesissimo momento dell’apparizione in scena della vera attrazione della serata, il bassista/cantante Glenn Hughes. Il “mito”, apparso in invidiabile forma fisica e molto più rilassato rispetto a precedenti sue apparizioni su suolo italico, ruba ovviamente la scena agli altri strumentisti sul palco (a Marco e Nik ruba letteralmente il posto!!!), senza tuttavia offuscarne il ruolo. Il concerto resta infatti un’ esibizione corale e non un “one man show”.

C’è gloria per tutti i musicisti, a turno, attraverso competenti assoli con i rispettivi strumenti, e l’intera esibizione si connota più come una esperienza musicale ad ampio respiro, che non come la banale proposizione di un semplice set di canzoni hard rock. Ovviamente nel corso dello spettacolo sono individuabili classicissimi come "Mistreated", "Gettin’ Tighter", "You keep on moving", "Soul Mover", giusto per citarne alcuni, oltre ad ulteriori estratti dall’ album di Matt Filippini interpretati da Glenn (Where do you hide the blues you got), ma tutto il concerto sembra legato da un unico filo conduttore: il piacere di suonare della buona musica. Più di una volta “the Voice of rock” delizia i presenti con alcuni solos vocali in cui spazia dalle tonalità più basse fino ai suoi celebri acuti, e direi che la sua estensione vocale si dimostra perfettamente integra. Si conclude ovviamente con la immancabile "Burn", e la mia ultima considerazione va, ancora una volta, ai troppi spazi vuoti di fronte ad uno spettacolo di tale caratura.

E’ vero che il tour dei Moonstone Project è articolato su parecchie date nazionali, che hanno senz’altro determinato una maggior diluizione delle presenze tra le diverse serate. Ma se il pensiero mi torna alle immagini mostrate anche in Rai, che documentano alcune piazze bolognesi sistematicamente gremite di giovani fino a notte fonda per presenziare al … nulla, mi viene da pensare che in questa, che rimane la città dei giovani per antonomasia, l’indifferenza mostrata nei confronti del passaggio di un mostro sacro della musica (non solo rock) del calibro di Glenn Hughes, dimostra in maniera impietosa l’avvilente stato in cui versa la cultura (???) musicale nel nostro Paese.
Alessandro Lilli

 
SUPERSUCKERS + PEAWEES
3 marzo 2007 - Rock Plane Pinarella di Cervia

Amo il punk rock, ma soprattutto adoro coprirmi di ridicolo. L’obiettivo della gita a Pinarella di Cervia è fondamentalmente incontrare i Supersuckers in spiaggia. Palla in rete: una volta avvistati quattro individui totalmente fuori luogo a spasso sulla sabbia, ci avviciniamo, lo riconosco, è lui. “Are you Eddie?”. Sì, Spaghetti in riva al mare. Che non è un piatto tipico locale. Seguono foto di fan abbracciati al proprio idolo, senza stivali, senza occhiali da sole e senza cappello da cowboy. Comunque in posa, Eddie Spaghetti fa le corna.

Provo a ricordargli l’intervista priva di qualsiasi senso fatta su Bam! Magazine, ma niente, non se la ricorda. Eddie Spaghetti, che sa sempre il fatto suo, dice qualcosa del tipo “sarà stata sicuramente fantastica”. Bene, siamo tutti contenti. Se non fosse per il fatto che a Pinarella di Cervia non c’è un cazzo da fare, nulla da vedere, è dura riempire un pomeriggio. In attesa dello show, al Rock Planet. Tralasciando quindi tutto quello che è successo tra le 16 e le 22 circa, arriviamo al concerto.

Anzi no. Concluso il soundcheck incrocio Rontrose Heatman, guitar hero dei Supersuckers. Aggredendolo con un pietoso “I wanna show you something” gli mostro la t-shirt dei Black Halos. Lui ha suonato un assolo su “Alive Without Control”, mi risponde dicendo “sì, li conosco, grandi, stanno registrando il nuovo disco”. E io, “yeah, and they cancelled their European tour to tour the U.S with Social Distortion”. Risposta di Ron: “Awesome”. Maledetti Black Halos, caro Ron “tell Adam they are assholes”. Seconda risposta di Ron: “I’ll mail him”. Coprirsi di ridicolo, appunto.

Ci sono i Peawees di supporto, non suonano da un bel po’ e, sì, tanta gente è davanti al palco per loro. Spettacolo onesto, rockabilly e biker e giovani fanciulle in prima fila sembrano apprezzare. Un po’ di pezzi dall’ormai preistorico “Dead End City”, qualche cover e due nuove canzoni prese dal prossimo album in uscita ad aprile per Wynona Records. Meritevole di menzione “Action”, in pieno stile Devil Dogs. E tanti complimenti ai ragazzi.

Ora, tornando a Rontrose Heatman: il mio chitarrista preferito dei Supersuckers – l’altro è il possente Dan Thunderbolton, un uomo un pedale wah wah – si è portato in tour il figlio, età variabile tra i dieci e i dodici anni. Il piccolo, orgoglioso di essere il figlio di Ron e altrettanto orgoglioso di indossare una maglietta “Motherfuckers Be Trippin”, fa il roadie. Sistema cavi, sposta casse, asciuga con meticolosa attenzione il palco lasciato dal bassista dei Peawees in condizioni più o meno disastrose. E’ sfruttamento del lavoro minorile? Forse sì, ma lui è felice. Orgoglioso è proprio la parola giusta. Contento lui, contenti tutti noi.

“In the beginning there was nothing but rock, and then someone invented the wheel, and things just begin to roll”. Così partono loro, Supersuckers all’opera: “That’s Rock and Roll”. Inizio fiacco, concerto in salita, distruzione finale. La scaletta non soddisfa proprio tutti, i ragazzi dietro di me continuano a mostrare a Eddie un pacchetto di chewin gum e un bicchiere di birra, vogliono ascoltare “Bubblegum and Beer”, ma niente. La furia di “I Want The Drugs” e “Dead Meat”, il pop di “Pretty Fucked Up” e il “Supersucker Drive By Blues”…

Che facciamo a fare il bis se possiamo stare tranquillamente sul palco e regalarvi altre canzoni continuando a sudare qui davanti a voi? A che serve andare cinque minuti nel backstage? Questi sono i Supersuckers, con Eddie Spaghetti che mette il basso al collo di Ron e suona un assolo sulla chitarra di quest’ultimo. Mi risulta difficile spiegarlo a parole, perdonatemi, guardate la foto e capirete: un numero da grande scuola circense, mica cazzi. E poi il dito medio in aria, le corna al cielo e “raise your beers and let’s say cheers to the rock and roll records ain’t sellin’ this year”.

Già, “The Evil Powers Of Rock and Roll”, “The greatest rock and roll band in the world” e chi più ne ha più ne metta: i Supersuckers, il rock and roll e ancora i Supersuckers. Let the punks be punks so I can rock and roll… E rido, grasse risate.
Miguel Basetta

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