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BRUCE KULICK + Pino Scotto
19 novembre 2004 – Indian’s Saloon (MI)
Maledizione. Arriva
Bruce Kulick in Italia e il mio portafogli è
vuoto, ma talmente vuoto che se incrocio per strada
qualche disperato che fa la carità è
lui che, mosso a compassione, da’ moneta a
me... Che sfiga nera...
Ma la divina provvidenza colpisce ancora e mi ricopre
con la sua aura benevola. Dopo essere stato l’unico
su seicento persone adaver incontrato di persona
e stretto la mano a Nicko McBrain
degli Iron Maiden, il giorno successivo
la fortuna è dalla mia parte un’altra
volta... La mattina mi alzo, apro la casella di
posta e il mio monumentale fondoschiena blucerchiato
mi ha fatto vincere il biglietto per il buon vecchio
Bruce... grazie Dio, ti sono debitore, in cambio
non importunerò nessun genoano per almeno
due giorni...
Ebbene si’, il
buon vecchio Bruce Kulick. Per chi è stato
su Marte negli ultimi 20 anni, questo arzillo signore
di mezz’età ha imbracciato per 15 anni
la chitarra in una certa band chiamata KISS...
dopo la dipartita dell’Asso Frehley (vero
ed unico chitarrista del “bacio” per
noi adepti della band) ed alcuni altri esecutori,
la cui permanenza è stata tanto breve quanto
poco nota, è toccato a lui affiancare in
proscenio il vecchio demonio Gene e il sempreverde
Paul, fino a quando la vena affaristica dei due
li ha spinti a richiamare i due vecchi leoni Ace
e Peter, lasciando il buon vecchio Bruce (ed
Eric Singer) in una condizione di disoccupati
di lusso. Da allora, Kulick ha deciso di fare da
sé, formando gli Union e girovagando qua
e là per il pianeta vivendo di luce riflessa
e collaborando a destra e a manca, forte del fatto
che ormai il conto in banca c’è (ed
è vertiginosamente alto...) e le groupies
non sono più una necessità né
una seccatura.
In occasione della sua
calata italica, un mini-tour di tre date, Kulick
si presenta in versione acustica, con un set decisamente
minimale, fatto da sé stesso alla chitarra
e cori, Vincent T. alla chitarra ritmica acustica
e Mark Sweeny dei Crystal Ball
alla voce.
Niente basso e niente batteria, solo la voce e le
chitarre rigorosamente unplugged per questo insolito
trio. I tre sgabelli vengono piazzati sul palco,
i microfoni sistemati ed ora aspettiamo solo la
sua uscita dai camerini. Quando le porte del backstage
si aprono sono già eccitato, ma anziché
Bruce vedo uscire la vecchia ugola di carta vetrata
del rock nazionale, Pino
Scotto, seguito dai suoi loschi
sgherri. Il vecchio rocker intona superclassici
rock, dai Purple al vecchio southern, con un’interpretazione
della storica “Born to be wild” ben
eseguita, il tutto condito con quella nuvola di
polvere e quel sapore di whisky invecchiato che
solo lui riesce a donare ai brani.
Dopo un’oretta
di esibizione, eccoci al cambio palco, la gente
si fa sotto ed arriva lui.
Sorridente, Bruce ringrazia i presenti e attacca
subito con “Comin’ Home”, brano
d’apertura del glorioso “MTV Unplugged”
del bacio (nonché uno dei miei dischi favoriti
di sempre), ed incanala subito la serata sui binari
giusti, riuscendo persino a rompere una corda dopo
poche plettrate... Il trio esegue una manciata di
brani dei Kiss, passando attraverso la sua permanenza
nella band e spaziando anche nella sua attività
di solista, con puntate nel repertorio Union e anche
in quello personale, prima di ritornare a saccheggiare
a piene mani nel periodo ’80 del bacio newyorkese.
Ad onor del vero, il pubblico partecipa, ma sembra
quasi che ci sia timore reverenziale nei confronti
di Bruce il quale, da parte sua, tiene sempre il
sorriso sulle labbra e tra un pezzo e l’altro
chiacchiera con il pubblico, raccontando vicissitudini
con la sua band madre e di come sono i rapporti
con i suoi ex-datori di lavoro... Certo il pubblico
applaude, ma solo quando parte “Lick it up”
c’è il vero botto, con la gente che
finalmente partecipa attivamente all’esibizione,
rendendo le cose più facili anche sul palco.
Vengono eseguite anche “Hide your heart”
e la splendida “Forever” (dal glorioso
album “Hot in the shade”, disco riservato
ai palati piu’ fini), oltre ad altri pezzi
storici del bacio tra i quali spicca decisamente
la superba “Nothin’ to lose”,
e ancora “Hard luck woman”, “Tears
are falling” e “Rock bottom”.
In un’ora e mezza di show, Kulick ci fa attraversare
15 anni di hard rock ormai passato, sempre col sorriso
sulle labbra e con la consapevolezza di essere ormai
un “pensionato di lusso” del rock mondiale,
ma di trovarsi comunque a suo agio in ogni circostanza.
Dopo il concerto, c’è spazio per foto
e autografi per tutti; Bruce firma qualunque cosa
gli venga passata per le mani e si dimostra estremamente
gentile e disponibile con chiunque gli rivolga la
parola, non facendo mancare il suo apprezzamento
per le donne italiane...
Sicuramente Kulick ha
scritto pagine importanti e sa come tenere in piedi
uno show, ma ci sono certo cose che mi lasciano
perplesso: ad esempio, il fatto di essersi proposto
solo come trio e in acustico, la qual cosa non rende
giustizia alla sua storia come musicista. Infatti
a tratti l’esibizione risulta essere un po’
debole e “vuota”, e magari con un basso
in piu’ nel set la musica avrebbe avuto maggior
tiro.
Inoltre, il pubblico, non troppo numeroso (cartellino
rosso agli assenti...): Bruce Kulick è pur
sempre un pezzo di storia, certamente non ha fatto
una data memorabile ma ha svolto il suo compito
con esperienza ed impegno, ed anche solo per la
possibilità di farsi firmare un po’
di merchandising storico ne valeva la pena venire.
Intendiamoci, il locale non era vuotissimo, ma c’era
sicuramente da aspettarsi qualcosa di più.
Ad ogni modo, è
stata una bella serata, chi c’era ha avuto
la possibilità di “toccare con mano”
che certi idoli mitizzati altro non sono che persone
come noi, e questa è una cosa che non possiamo
dimenticare.
Beh, in bocca al lupo zio Bruce, è stato
un piacere e torna a trovarci...
Ultima cosa... quando torni in America e vedi il
Grand Canyon, beh, salutamelo e digli che in Italia
c’è un suo sosia: il mio portafogli,
tristemente, irreparabilmente vuoto... meno male
che ci sono i soci che ti offrono sempre una birretta...
FaustoBaldo
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W.A.S.P.
Frankfurt, Germany, Batschkapp 18 Novembre 2004
E’ una serata
fredda e piovosa quella che accoglie gli Wasp a
Francoforte, il termometro è pericolosamente
vicino allo zero ma a giudicare dall’abbigliamento
di molti rockers tedeschi in attesa fuori dal locale
non è che la cosa li disturbi molto... maglietta
(e in alcuni casi canotta) a maniche corte e birrozza
sono un classico abbinamento da queste parti.
La Batschkapp si trova nella parte nord della città,
ottimamente servita dai mezzi pubblici e capace
di contenere circa 5-600 persone... questa sera
si registra praticamente il sold-out.
Ad aprire la serata i Chinchilla,
band tedesca vista di recente in Italia come spalla
al tour dei Saxon, onesto quartetto
di power metal tedesco che nei circa 40 minuti a
sua disposizione riesce ad intrattenere il pubblico
con mestiere, concludendo lo show con una riuscita
cover di “I Stole Your Love” dei Kiss.
Ma l’attesa è
tutta per gli headliners... sono le 22.00 in punto
quando le luci si spengono e parte l’intro...
"The End” dei Doors
ci annuncia che ormai ci siamo, il locale è
pieno è la temperatura sale notevolmente.
“On Your Knees/Inside The Electric Circus"
ha il compito di aprire lo show... Blackie è
decisamente in forma, sia fisicamente che soprattutto
di voce è questa è un’ottima
notizia.
Come al Gods of Metal di giugno la band preferisce
proporre un live–set incentrato sui grandi
classici del passato... e allora ecco arrivare “L..O.V.E.
Machine”, “Wild Child”, “Animal”
e “ The Real Me”, tutte accolte da boati
di approvazione del pubblico tedesco.
Unica concessione al presente è “Come
Back To Black “, estratta dalla seconda parte
di "The Neon God", e la risposta della
gente è decisamente positiva.
La band supporta alla
grande Blackie, Mike Duda e Stet Howland sono una
sezione ritmica potente e spettacolare, mentre Darrel
Roberts si ritaglia uno spazio importante nell’economia
della band... grande il suo assolo nella parte finale
di “The Idol”, uno dei momenti più
alti dello show.
“I wanna be Somebody” ha il compito
di chiudere lo show dopo circa 70 minuti molto intensi...
ma non poteva mancare ovviamente “Blind in
Texas” per finire in bellezza.
In conclusione un ottimo show, magari un pochino
corto, mi sarebbe piaciuto ascoltare qualcosa tipo
“Helldorado” o “Hallowed Ground”,
ma comunque non lamentiamoci..
E mentre riprendiamo la via di casa in una fredda
notte di novembre non posso far altro che pensare
che un’altra piccola pagina della storia di
una grande band è stata scritta..
Un rigraziamento a Doro e a tutto
lo staff della Batschkapp per la
gentilezza e la disponibilità dimostrata
(www.batschkapp.de)
e al sito www.waspfighter.de
per le foto dello show.
Federico Martinelli
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MAB
Camden, Purple Turtle (England) 11 Novembre 2004
Due parole di introduzione
vanno spese per questo gruppo tutto femminile di
cui fino a pochissime settimane fa la maggior parte
di noi ignorava l’esistenza. Mab sono un progetto
concepito nel 1997 dalle autodidatte Alice Dionis
(voce e basso) e Jessica Dionis (batteria), alle
quali si è successivamente unita Marina Cristofalo
(chitarra). E’ stato nel 2001 che la formazione
si e’ completata con l’arrivo della
chitarrista Lisa Masia e quindi la decisione di
lasciare la Sardegna, dove si erano esibite fino
ad allora, per trasferirsi a Londra e sperimentare
misurandosi musicalmente su un territorio più
vasto e ricco di prospettive e possibilità.
E’ la seconda
volta che vedo la band. L’estate scorsa sono
capitata ad una loro gig al Borderline per caso,
l’impressione immediata era stata di aver
visto qualcosa di rilevante nel panorama dei gruppi
underground che si susseguono in questo tipo di
venues, parte di questa scena londinese, sì
ricca e multiforme, ma dove pochi si distinguono
per qualità e originalità.
Dopo poco più di due mesi ed una trentina
di bands al mio attivo, torno a vedere Mab in azione…
nel frattempo un balzo determinante l’hanno
già fatto: niente meno che aprire, lo scorso
ottobre, come supporto degli HIM all’Hammersmith
Apollo!
E’ stata l’occasione giusta per dimostrare
una presenza scenica fuori dal comune ed attirare
consensi ed interesse da parte del pubblico presente.
Il Purple Turtle è
un piccolo locale con una discreta acustica ed una
morfologia che rende possibile gustare lo show con
un buon campo visivo.
Attaccano con ‘Aria’ un’ introduzione
con distorsioni di chitarre dove presto si distinguono
i vocalizzi e gli acuti inconfondibili di Alice
Dionis, una vocalista d’eccezione, marchio
di riconoscimento indiscutibile della band. Segue
‘Black’ dove predomina il suono pesante
e metal delle chitarre, rullate di batteria e un
ritmo crescente, dominato sempre dalle vocals incalzanti
che ci portano dal soave a toni rauchi e potenti,
con riff di chitarra suadenti e dalla ritmica incessante.
In ‘Scared Of The Darkness’ i toni cupi
raggiungono atmosfere claustrofobiche, indubbiamente
uno dei pezzi più convincenti. L’intera
scaletta, comunque, scivola alla perfezione intercalando
pezzi duri come ‘Insomnia’ con chitarre
death metal predominanti, ammorbidendo poi le atmosfere
con battute d’arresto e la vena tesa e drammatica,
con pezzi dai toni sognanti. Appare evidente che
questo gruppo e’ passato attraverso la sperimentazione
di vari stili, dai suoni heavy-metal, un’aggessivita’
genuina punk-rock, dei tocchi grezzi contrastati
da tratti melodici e sofisticati: la voce di Alice
che puo’ spaziare senza limiti e toccare note
liriche. Il prodotto e’ insolito e non etichettabile,
esente da standards e streotipi. Molto ritmata ‘Nougat!’
Testi decisamente insoliti e malgrado l’apparente
linearità tortuosi ed inquietanti. ‘Pure’
con i toni ingenui e infantili che vengono presto
sommersi dalla pesantezza di attacchi di chitarre
e rulli penetranti. Per finire il giro su questo
ottovolante di emozioni nel quale riescono a trasportare
lo spettatore (ignaro?) dal fondo di un abisso denso
e tormentoso ad un’alba cristallina e rarefatta,
ecco ‘Divine’ impalpabile e melodica,
sfumature vocali inseguite da chitarre implacabili.
Ottima performance questa sera, energia e capacita’
interpretative in abbondanza.
Ho la convinzione che
questa band andrà lontano, già per
arrivare fino a qua è ovvia la determinazione
e l’impegno di anni di costante lavoro, una
paziente preparazione.. Servono commenti al fatto
che la formazione e’ interamente femminile?
Credo che la ragione di essere di questa band sia
il fatto che la sensibilità e forza della
vena compositiva e’ fortemente femminile.
L’intero show non sarebbe lo stesso senza
questa immagine formalmente curata ed esteticamente
compiacente, concetto che passa in secondo piano
quando attaccano a suonare e assorbono con l’intensità
musicale, collocandosi sicuramente in una categoria
a sé stante, dove nulla e’ scontato,
ne’ cliché.
Le vedremo presto impegnate in un UK tour in dicembre
di supporto a Breed 77, altre date locali, e con
l’inizio del nuovo anno la registrazione di
un album con la produzione di John Fryer (HIM, Nine
Inch Nails, Cradle of Filth). www.mabofficial.com
Scruffy Nightmare
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MTV ICON: THE CURE + SPECIAL GUESTS
MTV location, Londra – 17 settembre 2004
E’ una piovosa
e ventosa serata londinese, e’ venerdi 17,
il posto e’ un disastro da trovare grazie
anche alle continue diversioni stradali che tanto
sollazzano il nostro sindaco, il parcheggio un’utopia.
Teniamo duro, e riusciamo finalmente ad unirci alla
fila di fortunati che hanno l’opportunita’
di assistere all’annuale evento di MTV “MTV
Icon”, che in questa edizione consacra i Cure.
In attesa con noi le solite facce note della vita
rock locale notturna e diurna, mentre circolano
voci sugli ospiti della serata. La serata consiste
infatti in due segmenti, il primo costituito da
alcune band di fama internazionale che rendono omaggio
ai Cure suonando uno o due dei loro pezzi, il secondo
in un vero e proprio gig dei Cure stessi, il tutto
condito con spezzoni video che raccontano la loro
longeva carriera.
Un cartello all’entrata
ci avvisa che superando la porta acconsentiamo ad
essere filmati, cediamo a MTV tutti i diritti su
tali riprese che potranno essere mostrate a tempo
infinito, insomma, ci stiamo vendendo a MTV, una
cosa che fara’ rabbrividire voi slammisti...
Ne varra’ la pena? Stiamo a vedere.
Siamo tutti accolti in una grande sala reception,
dove prestanti fanciulle in stivali alla coscia
e shorts in pelle nera servono drinks gratuiti.
E non parliamo di lattine di Carling, MTV fa le
cose in grande: lo sponsor e’ una nota marca
di tequila, e le ragazze girano con vassoi di tequila
shots (limone incluso), margaritas e long islands,
mentre bottiglie di evian sono disponibili per gli
astemi e i disidratati.
La folla lascia la reception per dirigersi alla
sala dove si terra’ lo show. La scenografia
e’ semplicemente maestrale: alberi spogli
dai lunghi rami e luci colorate, tra il gotico e
lo psichedelico, adornano l’intero ambiente.
C’e’ un palco piccolo nel mezzo per
le presentazioni e uno grande in fondo per suonare,
e su un lato di questo dal ramo di un albero pende
una rudimentale altalena, due corde e una tavola
di legno che dondoleranno questa sera il fondoschiena
dell’host dell’evento: Mr Marilyn
Manson! Fetishamente attraente come sempre,
in una suite completamente nera translucente, the
God of Fuck introduce uno per uno i quattro gruppi
che renderanno omaggio ai protagonisti Cure.
Aprono le danze i Blink
182, a cui si unisce per il secondo
pezzo lo stesso Robert Smith. Ho finalmente l’opportunita’
di vedere live l’ottimo batterista di questi
pop-punkettari da classifica, e non posso che confermare
tutti i commenti positivi sentiti fino ad oggi.
Ma il vero centro di questa prima parte e’
secondo me l’esibizione degli AFI, di cui
finora avevo solo sentito parlare. Ottima presenza
live, unica band che riesce davvero a rendere giustizia
ai Cure e alla voce di Smith e unica band oltre
ai Cure stessi che e’ riuscita a convogliare
la propria fan base sul posto. Un solo dubbio: il
cantante a prima vista mi sembrava una cantante...
Credo sia un uomo alla fin fine, ma ammetto la mia
ignoranza e controllero’ il sito, anche perche’
ho intenzione di scoprire qualcosa in piu’
su questo gruppo.
Terzi i Razorlight, che sinceramente sembrano una
boyband e non mi entusiasmano neanche un po’.
A chiudere i Deftones, che non posso dire non siano
bravi ma personalmente trovo alquanto noiosi. Approfitto
per sedermi e prendere un break.
Signori, e’ finalmente
ora dei Cure! Manson scende dall’altalena
ed e’ sul palco piccolo davanti a me, incitando
una folla che in verita’ ne ha ben poco bisogno.
L’audience e’ composta per lo piu’
dai fedelissimi del Fan Club ufficiale della band,
piu’ una parte dell’AFI
Fan Club. Il resto, seduto in fondo alla sala, e’
composto dai vari VIP, discografici etc. Nessun
biglietto in vendita.
I Cure e’ una di quelle band che ascoltavo
in anni ormai lontani, una di quelle mai dimenticate
ma messe nel cassetto. Robert Smith e il suo incredibile
magnetismo saltano immediatamente fuori dal cassetto,
e questa folla di capelli stracotonati, abiti neri
e improbabili make-up sembra essere saltata fuori
con lui. Ci guardiamo intorno e siamo tornati agli
anni a noi cari, chiudiamo gli occhi e le note suonano
totalmente attuali, non fosse che le conosciamo
bene, e ritengo questa sia una prerogativa di pochi,
quei pochi che in musica riescono a fare la storia.
Se la scelta dell’icona di quest’anno
mi aveva forse un po’ sorpreso all’inizio,
sembra la scelta piu’ naturale e certamente
meritata in questo momento. Anche perche’
quanti gruppi in questo genere sono riusciti a fare
cio’ che hanno fatto i Cure? Nessuno direi.
E se l’host di questa sera riesce a reggere
altri dieci-quindici anni come loro, sono piu’
che sicura che lo vedremo all’MTV icon del
2020 circa; ottima scelta. Cosa manca a questa serata
per essere perfetta? Mah, direi qualche tartina,
magliette souvenir omaggio e Siouxsie and
the Banshees. Ma mi accontento.
Mi godo “Lullaby” accompagnata dal macabro
video sullo schermo a lato, “Close to me”
e “Boys don’t cry” ma soprattutto
quella che ancora oggi mi risuona in mente: “...
monday, tuesday fall apart, wednesday almost break
my heart, thursday don’t even start, friday
I need love...”, o qualcosa del genere che
nn l’ho sentita per troppo tempo... Anzi,
vado a metterla su, ma quanto e’ bella questa
canzone??
All’uscita ci porgono gentilmente anche una
“goodies bag”, sbirciamo: una t-shirt!
Mancano solo Siouxsie e le tartine... Saliamo in
macchina e apriamo trepidanti, ma sono maglietta
e portachiavi dell’altro sponsor della serata:
MSN Messenger! Uff, volevo la maglia dei Cure possibilmente
con data dell’evento... Che vuoi farci, e’
sempre MTV alla fine!
Cristina Massei
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I-DAYS 2004
Bologna Arena Parco Nord - 5 Settembre 2004-09-14
Mi appresto a fare
la coda per comprare il biglietto e nonostante il
caldo mi stia già provocando seri problemi
riesco a distinguere le note di “Lessons”...
Cazzo! I Thee
STP sono già sul palco! Purtroppo
lo show dei nostri troublemakers preferiti è
già iniziato da un pò e riesco a godere
dei pochi pezzi rimasti. È già stato
ripetuto più volte quanto Thee STP siano
sinonimo di grande carica e rappresentino una scelta
sempre azzeccata. Non posso che confermare ancora
una volta, grandi. Anzi, a mio avviso, i migliori
della giornata.
Si succedono due gruppi
di attitudine iperpunkieggiante assolutamente insopportabili
per quanto mi riguarda. E si che prima all'ingresso
dei New Found
Glory sembrava che si fossero materializzati
i Clash direttamente sul palco
tanto sono stati osannati dal pubblico... sono rimasta
proprio indietro.
Dopo l'overdose di punk
arrivano Auf der
Maur, capitanati dalla stilosa ex
bassista di Hole e Smashing
Pumpkins. Ammetto di essere stata mossa
da grande curiosità per la performance di
mademoiselle Melissa, che propone una serie di brani
concepiti nel corso degli ultimi 6 anni, durante
i quali, a suo dire, la sua vena compositiva è
stata limitata prima da Courtney Love
e poi da Billy Corgan. Ahem…
ci sarà anche stato un perché…
no? Delusione maxima: riesco a resistere esattamente
5 minuti, il tempo di una canzone e mezza. Nel complesso
abbastanza noiosi e senza mordente, i brani piatti
e ripetitivi, un gruppo discreto ma assolutamente
anonimo, oltretutto senza il contributo di una voce
che consenta di alzare almeno un briciolo il livello.
Bella da vedere cara Auf der Maur, ma fossi in te
lascerei perdere la carriera di singer.
Il punk mi aspetta al
varco, dovevo immaginarlo! Quando già mi
stavo preparando per gli MC5, con
tutto ciò che ne consegue in termini di conquista
di posizioni ed appostamenti strategici, vedo apparire
un manipolo di loschi figuri che attaccano a schitarrare...
mmmhhh... che sia Lars
Fredriksen insieme ai suoi The Bastards?
Eh si, come da immancabile modifica di scaletta.
Pace, aspettiamo. Premetto che per me il punk rimane
abbastanza un arcano e faccio piuttosto fatica ad
apprezzarlo, al di là delle bands storiche
che gli hanno dato vita, ergo, il gruppo, nato da
una costola dei Rancid, stenta
a coinvolgermi. A parte una cover dei Ramones,
e una dei Rancid che sono riuscita a riconoscere,
mi è sembrato di sentire un’unica canzone
tutta uguale lunga 45 minuti, ma per gli estimatori
del genere deve essere stato l’outsider della
giornata. Ho sentito commenti osannanti alla fine
del concerto, perciò mi fido degli intenditori.
Da sottolineare il siparietto finale con il frontman
che comincia ad urlare alla folla “vaffanculo
stronzo” e che fa ripetere gioiosamente al
pubblico in visibilio. Ho sentito qualcuno dire
che fosse un epiteto riferito a Bush, ma non sono
riuscita ad averne conferma. E, in ogni caso, evidentemente
queste parole hanno esercitato un grande appeal
sul gruppo dato che i nostri eroi hanno salutato
il pubblico urlando “vaffanculo stronzi”...viva
l'amore!
La storia sta per fare
il suo ingresso sul palco di Bologna signori. Ci
sono gli MC5.
O meglio, ci sono i Davis-Kramer-Thompson MC5 ovvero
ciò che resta della gloriosa band simbolo
della ribellione degli anni ’60. Certo, nel
contesto di domenica 5 settembre 2004 a Bologna
è difficile vederla rivestire questo ruolo,
ma Wayne Kramer & soci appaiono in buona forma,
senza dubbio il mestiere e l’esperienza pagano.
Sul palco sono accompagnati da Evan Dando (ex Lemonhead)
e Mark Arm (Mudhoney), mentre alla
chitarra, che soddisfazione vedere Nick Royale!
E, man mano che la musica va provo un certo dispiacere,
misto ad un pò di vergogna, nel constatare
quanto poco in effetti io conosca questo gruppo,
al di là della storia che si porta dietro.
È un piacere sentire del buon rock suonato
ancora con la stessa energia e lo stesso divertimento
a più di trent’anni di distanza. Spettacolare
la versione di “Kick Out The Jams” che
ci viene offerta.
E adesso non si scherza
più, è arrivato il momento dei Velvet
Revolver, dopo 6 lunghe ore trascorse
in piedi di cui 4 sotto un sole tropicale ad una
temperatura che sfiora quella del deserto del Gobi
a mezzogiorno è arrivato il momento tanto
atteso dalla quasi totalità dei presenti.
Tra l'altro l'attesa si è fatta ancora più
spasmodica da quando, a metà pomeriggio,
si era insistentemente diffusa la voce che fosse
presente anche Izzy Stradlin che,
impegnato in una tournée europea, avrebbe
fatto tappa a Bologna per assistere al concerto
dei suoi vecchi compagni di GNR.
Naturalmente appena terminato lo show degli MC5
un fiume umano in piena si riversa verso il palco,
massì, ci provo anch'io.
Naturalmente mi posiziono
a distanza medio-alta dal palco e come per magia
i soliti perticoni da 2 metri che mi accompagnano
ad ogni concerto si materializzano davanti a me.
Allegria. Il sole è calato, è sera
inoltrata, ma la temperatura non accenna a diminuire
– per inciso, la sottoscritta continua a vedere
poco o nulla. Le prove dei vari strumenti di rito,
l'affissione di un telone e poi buio per circa cinque
minuti. Il pubblico è impaziente e non vede
l'ora di poter esplodere. 3... 2... 1... BUM! Parte
un boato e la band brucia subito le due cartucce
migliori “Sucker Train Blues” seguita
da “Do It For The Kids”. Fin da subito
Slash (accompagnato dal fido ventilatore) e Duff
si dilettano nei soliti incroci e nelle solite corse
da una parte all'altra del palco, Scott Weiland
che sfoggia un simpatico cappellino poliziesco urla
e si agita, tiene bene il palco, sull'onda dello
slogan: “We are Velvet Revolver and we play
rock’n’roll”.
Si susseguono i brani
di “Contraband”, “Headspace”,
“Slither”, “Big Machine”,
“Set Me Free”. Grande emozione quando
arriva il momento di “Fall To Pieces”,
spuntano gli accendini ad accompagnare la chitarra
solista di Slash di sweet-child-o'-mineiana memoria
e la discreta esecuzione vocale di Weiland. E come
tutte le bands americane che si rispettino ci vuole
il colpo di scena per fate il botto. Eccolo qua:
viene annunciata (purtroppo non so da chi, ero stranamente
sommersa dalla folla e non sono riuscita a vedere)
la presenza di un vecchio amico che sta per salire
sul palco e che risponde, guarda un po', al nome
di Izzy Stradlin. Qualcosa mi dice che suoneranno
qualcosa dei GNR, “It's So
Easy” per esempio. Delirio. La voce di Scott
Weiland è completamente coperta (e forse
è un bene) da noi che cantiamo a squarciagola.
Per un momento abbiamo potuto rivedere la triade
Duff-Izzy-Slash vicini come ai vecchi tempi. Izzy
sempre bandanato e occhialato si prende la meritata
dose di applausi dal pubblico in adorazione e se
ne va, lasciando la scena al tributo agli Stone
Temple Pilots.
Lo show si chiude le luci si riabbassano.
Ok, ora però
bisogna anche rendere conto di come il gruppo abbia
eseguito la sua performance. A questo punto, per
il commento, mi devo scindere e sdoppiare.
Commento della GNR fanatic: sinceramente, vedere
lì piazzati on stage Slash, Duff McKagan
e Matt Sorum (più Izzy Stradlin per qualche
minuto) in carne ed ossa è stata un'emozione
pazzesca, credo soprattutto per chi, come me, non
ha mai assistito ad un concerto dei GNR dei tempi
d'oro o ad uno degli Snakepit.
Oh, Slash è un pezzo di storia, c'è
poco da fare e fa un certo effetto vederlo lì
a pochi metri (decine di metri, và) da te.
Commento critico: intanto chi si aspettava un concerto
dei GNR è rimasto deluso.
Giustamente, perchè
i VR non sono i GNR, anche se certamente era chiaro
che il gruppo avrebbe fatto successo rivivendo di
luce riflessa il successo dei GNR. I VR sono senza
dubbio validi e possono vantare una serie di musicisti
di “discreta” bravura, il loro potenziale
è mostruosamente alto, il concerto è
stato molto buono, ben suonato, ma è mancato
quel qualcosa che lo avrebbe reso spettacolare.
In effetti tutti si sono limitati a svolgere il
loro compitino, ottimamente, per carità,
ma senza creare qual coinvolgimento che mi sarei
aspettata. Alla fine il più carismatico sul
palco è stato proprio Scott Weiland, che,
per inciso, da questo punto di vista mi ha veramente
stupito, Slash assolutamente in ombra, non ha fatto
la differenza purtroppo, né musicalmente,
né emotivamente. Ah si, c'era anche Dave
Kushner, rimasto leggerissimamente nell'ombra per
tutto il tempo.
È quasi ora di
andare, mancano solo più gli headliners prima
di concludere questa maratona musicale. Eccoli qua
i quattro inglesotti. Aprono con un pezzo strumentale
in cui le due chitarre dei fratelli Hawkins giocano
a rincorrersi. Sono proprio bravi, niente da dire,
chapeau! Tutto il concerto non si discosta particolarmente
dallo standard. Justin sfoggia una delle solite
tutine sberluccicanti e comincia fin da subito i
suoi botta e risposta con il pubblico. Di sicuro
non ha nulla da invidiare a nessuno, tiene il palco
in maniera esemplare, l’unico neo è
che ormai il suo personale show è un pò
troppo ripetitivo, ma in fondo ci piace così.
Anche la scaletta non
presenta sostanziali sorprese: vengono proposti
i brani di “Permission To Land”: “Black
Shuck”, “Growing On Me”, “Friday
Night”, l’immancabile “I Believe
In A Thing Called Love” e via di questo passo.
Appena prima della fine del concerto sgattaiolo
via dall’Arena, mancano ancora più
di 200 km prima di poter godere del meritato riposo.
Ma si, in fondo è rock’n’fucking
roll!
Claudia Schiavone
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