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BRUCE KULICK + Pino Scotto
19 novembre 2004 – Indian’s Saloon (MI)

Maledizione. Arriva Bruce Kulick in Italia e il mio portafogli è vuoto, ma talmente vuoto che se incrocio per strada qualche disperato che fa la carità è lui che, mosso a compassione, da’ moneta a me... Che sfiga nera...
Ma la divina provvidenza colpisce ancora e mi ricopre con la sua aura benevola. Dopo essere stato l’unico su seicento persone adaver incontrato di persona e stretto la mano a Nicko McBrain degli Iron Maiden, il giorno successivo la fortuna è dalla mia parte un’altra volta... La mattina mi alzo, apro la casella di posta e il mio monumentale fondoschiena blucerchiato mi ha fatto vincere il biglietto per il buon vecchio Bruce... grazie Dio, ti sono debitore, in cambio non importunerò nessun genoano per almeno due giorni...

Ebbene si’, il buon vecchio Bruce Kulick. Per chi è stato su Marte negli ultimi 20 anni, questo arzillo signore di mezz’età ha imbracciato per 15 anni la chitarra in una certa band chiamata KISS... dopo la dipartita dell’Asso Frehley (vero ed unico chitarrista del “bacio” per noi adepti della band) ed alcuni altri esecutori, la cui permanenza è stata tanto breve quanto poco nota, è toccato a lui affiancare in proscenio il vecchio demonio Gene e il sempreverde Paul, fino a quando la vena affaristica dei due li ha spinti a richiamare i due vecchi leoni Ace e Peter, lasciando il buon vecchio Bruce (ed Eric Singer) in una condizione di disoccupati di lusso. Da allora, Kulick ha deciso di fare da sé, formando gli Union e girovagando qua e là per il pianeta vivendo di luce riflessa e collaborando a destra e a manca, forte del fatto che ormai il conto in banca c’è (ed è vertiginosamente alto...) e le groupies non sono più una necessità né una seccatura.

In occasione della sua calata italica, un mini-tour di tre date, Kulick si presenta in versione acustica, con un set decisamente minimale, fatto da sé stesso alla chitarra e cori, Vincent T. alla chitarra ritmica acustica e Mark Sweeny dei Crystal Ball alla voce.
Niente basso e niente batteria, solo la voce e le chitarre rigorosamente unplugged per questo insolito trio. I tre sgabelli vengono piazzati sul palco, i microfoni sistemati ed ora aspettiamo solo la sua uscita dai camerini. Quando le porte del backstage si aprono sono già eccitato, ma anziché Bruce vedo uscire la vecchia ugola di carta vetrata del rock nazionale, Pino Scotto, seguito dai suoi loschi sgherri. Il vecchio rocker intona superclassici rock, dai Purple al vecchio southern, con un’interpretazione della storica “Born to be wild” ben eseguita, il tutto condito con quella nuvola di polvere e quel sapore di whisky invecchiato che solo lui riesce a donare ai brani.

Dopo un’oretta di esibizione, eccoci al cambio palco, la gente si fa sotto ed arriva lui.
Sorridente, Bruce ringrazia i presenti e attacca subito con “Comin’ Home”, brano d’apertura del glorioso “MTV Unplugged” del bacio (nonché uno dei miei dischi favoriti di sempre), ed incanala subito la serata sui binari giusti, riuscendo persino a rompere una corda dopo poche plettrate... Il trio esegue una manciata di brani dei Kiss, passando attraverso la sua permanenza nella band e spaziando anche nella sua attività di solista, con puntate nel repertorio Union e anche in quello personale, prima di ritornare a saccheggiare a piene mani nel periodo ’80 del bacio newyorkese. Ad onor del vero, il pubblico partecipa, ma sembra quasi che ci sia timore reverenziale nei confronti di Bruce il quale, da parte sua, tiene sempre il sorriso sulle labbra e tra un pezzo e l’altro chiacchiera con il pubblico, raccontando vicissitudini con la sua band madre e di come sono i rapporti con i suoi ex-datori di lavoro... Certo il pubblico applaude, ma solo quando parte “Lick it up” c’è il vero botto, con la gente che finalmente partecipa attivamente all’esibizione, rendendo le cose più facili anche sul palco. Vengono eseguite anche “Hide your heart” e la splendida “Forever” (dal glorioso album “Hot in the shade”, disco riservato ai palati piu’ fini), oltre ad altri pezzi storici del bacio tra i quali spicca decisamente la superba “Nothin’ to lose”, e ancora “Hard luck woman”, “Tears are falling” e “Rock bottom”. In un’ora e mezza di show, Kulick ci fa attraversare 15 anni di hard rock ormai passato, sempre col sorriso sulle labbra e con la consapevolezza di essere ormai un “pensionato di lusso” del rock mondiale, ma di trovarsi comunque a suo agio in ogni circostanza.
Dopo il concerto, c’è spazio per foto e autografi per tutti; Bruce firma qualunque cosa gli venga passata per le mani e si dimostra estremamente gentile e disponibile con chiunque gli rivolga la parola, non facendo mancare il suo apprezzamento per le donne italiane...

Sicuramente Kulick ha scritto pagine importanti e sa come tenere in piedi uno show, ma ci sono certo cose che mi lasciano perplesso: ad esempio, il fatto di essersi proposto solo come trio e in acustico, la qual cosa non rende giustizia alla sua storia come musicista. Infatti a tratti l’esibizione risulta essere un po’ debole e “vuota”, e magari con un basso in piu’ nel set la musica avrebbe avuto maggior tiro.
Inoltre, il pubblico, non troppo numeroso (cartellino rosso agli assenti...): Bruce Kulick è pur sempre un pezzo di storia, certamente non ha fatto una data memorabile ma ha svolto il suo compito con esperienza ed impegno, ed anche solo per la possibilità di farsi firmare un po’ di merchandising storico ne valeva la pena venire. Intendiamoci, il locale non era vuotissimo, ma c’era sicuramente da aspettarsi qualcosa di più.

Ad ogni modo, è stata una bella serata, chi c’era ha avuto la possibilità di “toccare con mano” che certi idoli mitizzati altro non sono che persone come noi, e questa è una cosa che non possiamo dimenticare.
Beh, in bocca al lupo zio Bruce, è stato un piacere e torna a trovarci...
Ultima cosa... quando torni in America e vedi il Grand Canyon, beh, salutamelo e digli che in Italia c’è un suo sosia: il mio portafogli, tristemente, irreparabilmente vuoto... meno male che ci sono i soci che ti offrono sempre una birretta...
FaustoBaldo

 

W.A.S.P.
Frankfurt, Germany, Batschkapp 18 Novembre 2004

E’ una serata fredda e piovosa quella che accoglie gli Wasp a Francoforte, il termometro è pericolosamente vicino allo zero ma a giudicare dall’abbigliamento di molti rockers tedeschi in attesa fuori dal locale non è che la cosa li disturbi molto... maglietta (e in alcuni casi canotta) a maniche corte e birrozza sono un classico abbinamento da queste parti.
La Batschkapp si trova nella parte nord della città, ottimamente servita dai mezzi pubblici e capace di contenere circa 5-600 persone... questa sera si registra praticamente il sold-out.
Ad aprire la serata i Chinchilla, band tedesca vista di recente in Italia come spalla al tour dei Saxon, onesto quartetto di power metal tedesco che nei circa 40 minuti a sua disposizione riesce ad intrattenere il pubblico con mestiere, concludendo lo show con una riuscita cover di “I Stole Your Love” dei Kiss.

Ma l’attesa è tutta per gli headliners... sono le 22.00 in punto quando le luci si spengono e parte l’intro... "The End” dei Doors ci annuncia che ormai ci siamo, il locale è pieno è la temperatura sale notevolmente.
“On Your Knees/Inside The Electric Circus" ha il compito di aprire lo show... Blackie è decisamente in forma, sia fisicamente che soprattutto di voce è questa è un’ottima notizia.
Come al Gods of Metal di giugno la band preferisce proporre un live–set incentrato sui grandi classici del passato... e allora ecco arrivare “L..O.V.E. Machine”, “Wild Child”, “Animal” e “ The Real Me”, tutte accolte da boati di approvazione del pubblico tedesco.
Unica concessione al presente è “Come Back To Black “, estratta dalla seconda parte di "The Neon God", e la risposta della gente è decisamente positiva.

La band supporta alla grande Blackie, Mike Duda e Stet Howland sono una sezione ritmica potente e spettacolare, mentre Darrel Roberts si ritaglia uno spazio importante nell’economia della band... grande il suo assolo nella parte finale di “The Idol”, uno dei momenti più alti dello show.
“I wanna be Somebody” ha il compito di chiudere lo show dopo circa 70 minuti molto intensi... ma non poteva mancare ovviamente “Blind in Texas” per finire in bellezza.
In conclusione un ottimo show, magari un pochino corto, mi sarebbe piaciuto ascoltare qualcosa tipo “Helldorado” o “Hallowed Ground”, ma comunque non lamentiamoci..
E mentre riprendiamo la via di casa in una fredda notte di novembre non posso far altro che pensare che un’altra piccola pagina della storia di una grande band è stata scritta..
Un rigraziamento a Doro e a tutto lo staff della Batschkapp per la gentilezza e la disponibilità dimostrata (www.batschkapp.de) e al sito www.waspfighter.de per le foto dello show.
Federico Martinelli

 

MAB
Camden, Purple Turtle (England) 11 Novembre 2004

Due parole di introduzione vanno spese per questo gruppo tutto femminile di cui fino a pochissime settimane fa la maggior parte di noi ignorava l’esistenza. Mab sono un progetto concepito nel 1997 dalle autodidatte Alice Dionis (voce e basso) e Jessica Dionis (batteria), alle quali si è successivamente unita Marina Cristofalo (chitarra). E’ stato nel 2001 che la formazione si e’ completata con l’arrivo della chitarrista Lisa Masia e quindi la decisione di lasciare la Sardegna, dove si erano esibite fino ad allora, per trasferirsi a Londra e sperimentare misurandosi musicalmente su un territorio più vasto e ricco di prospettive e possibilità.

E’ la seconda volta che vedo la band. L’estate scorsa sono capitata ad una loro gig al Borderline per caso, l’impressione immediata era stata di aver visto qualcosa di rilevante nel panorama dei gruppi underground che si susseguono in questo tipo di venues, parte di questa scena londinese, sì ricca e multiforme, ma dove pochi si distinguono per qualità e originalità.
Dopo poco più di due mesi ed una trentina di bands al mio attivo, torno a vedere Mab in azione… nel frattempo un balzo determinante l’hanno già fatto: niente meno che aprire, lo scorso ottobre, come supporto degli HIM all’Hammersmith Apollo!
E’ stata l’occasione giusta per dimostrare una presenza scenica fuori dal comune ed attirare consensi ed interesse da parte del pubblico presente.

Il Purple Turtle è un piccolo locale con una discreta acustica ed una morfologia che rende possibile gustare lo show con un buon campo visivo.
Attaccano con ‘Aria’ un’ introduzione con distorsioni di chitarre dove presto si distinguono i vocalizzi e gli acuti inconfondibili di Alice Dionis, una vocalista d’eccezione, marchio di riconoscimento indiscutibile della band. Segue ‘Black’ dove predomina il suono pesante e metal delle chitarre, rullate di batteria e un ritmo crescente, dominato sempre dalle vocals incalzanti che ci portano dal soave a toni rauchi e potenti, con riff di chitarra suadenti e dalla ritmica incessante. In ‘Scared Of The Darkness’ i toni cupi raggiungono atmosfere claustrofobiche, indubbiamente uno dei pezzi più convincenti. L’intera scaletta, comunque, scivola alla perfezione intercalando pezzi duri come ‘Insomnia’ con chitarre death metal predominanti, ammorbidendo poi le atmosfere con battute d’arresto e la vena tesa e drammatica, con pezzi dai toni sognanti. Appare evidente che questo gruppo e’ passato attraverso la sperimentazione di vari stili, dai suoni heavy-metal, un’aggessivita’ genuina punk-rock, dei tocchi grezzi contrastati da tratti melodici e sofisticati: la voce di Alice che puo’ spaziare senza limiti e toccare note liriche. Il prodotto e’ insolito e non etichettabile, esente da standards e streotipi. Molto ritmata ‘Nougat!’ Testi decisamente insoliti e malgrado l’apparente linearità tortuosi ed inquietanti. ‘Pure’ con i toni ingenui e infantili che vengono presto sommersi dalla pesantezza di attacchi di chitarre e rulli penetranti. Per finire il giro su questo ottovolante di emozioni nel quale riescono a trasportare lo spettatore (ignaro?) dal fondo di un abisso denso e tormentoso ad un’alba cristallina e rarefatta, ecco ‘Divine’ impalpabile e melodica, sfumature vocali inseguite da chitarre implacabili.
Ottima performance questa sera, energia e capacita’ interpretative in abbondanza.

Ho la convinzione che questa band andrà lontano, già per arrivare fino a qua è ovvia la determinazione e l’impegno di anni di costante lavoro, una paziente preparazione.. Servono commenti al fatto che la formazione e’ interamente femminile? Credo che la ragione di essere di questa band sia il fatto che la sensibilità e forza della vena compositiva e’ fortemente femminile. L’intero show non sarebbe lo stesso senza questa immagine formalmente curata ed esteticamente compiacente, concetto che passa in secondo piano quando attaccano a suonare e assorbono con l’intensità musicale, collocandosi sicuramente in una categoria a sé stante, dove nulla e’ scontato, ne’ cliché.
Le vedremo presto impegnate in un UK tour in dicembre di supporto a Breed 77, altre date locali, e con l’inizio del nuovo anno la registrazione di un album con la produzione di John Fryer (HIM, Nine Inch Nails, Cradle of Filth). www.mabofficial.com
Scruffy Nightmare

 

MTV ICON: THE CURE + SPECIAL GUESTS
MTV location, Londra – 17 settembre 2004

E’ una piovosa e ventosa serata londinese, e’ venerdi 17, il posto e’ un disastro da trovare grazie anche alle continue diversioni stradali che tanto sollazzano il nostro sindaco, il parcheggio un’utopia. Teniamo duro, e riusciamo finalmente ad unirci alla fila di fortunati che hanno l’opportunita’ di assistere all’annuale evento di MTV “MTV Icon”, che in questa edizione consacra i Cure. In attesa con noi le solite facce note della vita rock locale notturna e diurna, mentre circolano voci sugli ospiti della serata. La serata consiste infatti in due segmenti, il primo costituito da alcune band di fama internazionale che rendono omaggio ai Cure suonando uno o due dei loro pezzi, il secondo in un vero e proprio gig dei Cure stessi, il tutto condito con spezzoni video che raccontano la loro longeva carriera.

Un cartello all’entrata ci avvisa che superando la porta acconsentiamo ad essere filmati, cediamo a MTV tutti i diritti su tali riprese che potranno essere mostrate a tempo infinito, insomma, ci stiamo vendendo a MTV, una cosa che fara’ rabbrividire voi slammisti... Ne varra’ la pena? Stiamo a vedere.
Siamo tutti accolti in una grande sala reception, dove prestanti fanciulle in stivali alla coscia e shorts in pelle nera servono drinks gratuiti. E non parliamo di lattine di Carling, MTV fa le cose in grande: lo sponsor e’ una nota marca di tequila, e le ragazze girano con vassoi di tequila shots (limone incluso), margaritas e long islands, mentre bottiglie di evian sono disponibili per gli astemi e i disidratati.
La folla lascia la reception per dirigersi alla sala dove si terra’ lo show. La scenografia e’ semplicemente maestrale: alberi spogli dai lunghi rami e luci colorate, tra il gotico e lo psichedelico, adornano l’intero ambiente. C’e’ un palco piccolo nel mezzo per le presentazioni e uno grande in fondo per suonare, e su un lato di questo dal ramo di un albero pende una rudimentale altalena, due corde e una tavola di legno che dondoleranno questa sera il fondoschiena dell’host dell’evento: Mr Marilyn Manson! Fetishamente attraente come sempre, in una suite completamente nera translucente, the God of Fuck introduce uno per uno i quattro gruppi che renderanno omaggio ai protagonisti Cure.

Aprono le danze i Blink 182, a cui si unisce per il secondo pezzo lo stesso Robert Smith. Ho finalmente l’opportunita’ di vedere live l’ottimo batterista di questi pop-punkettari da classifica, e non posso che confermare tutti i commenti positivi sentiti fino ad oggi.
Ma il vero centro di questa prima parte e’ secondo me l’esibizione degli AFI, di cui finora avevo solo sentito parlare. Ottima presenza live, unica band che riesce davvero a rendere giustizia ai Cure e alla voce di Smith e unica band oltre ai Cure stessi che e’ riuscita a convogliare la propria fan base sul posto. Un solo dubbio: il cantante a prima vista mi sembrava una cantante... Credo sia un uomo alla fin fine, ma ammetto la mia ignoranza e controllero’ il sito, anche perche’ ho intenzione di scoprire qualcosa in piu’ su questo gruppo.
Terzi i Razorlight, che sinceramente sembrano una boyband e non mi entusiasmano neanche un po’. A chiudere i Deftones, che non posso dire non siano bravi ma personalmente trovo alquanto noiosi. Approfitto per sedermi e prendere un break.

Signori, e’ finalmente ora dei Cure! Manson scende dall’altalena ed e’ sul palco piccolo davanti a me, incitando una folla che in verita’ ne ha ben poco bisogno. L’audience e’ composta per lo piu’ dai fedelissimi del Fan Club ufficiale della band, piu’ una parte dell’AFI Fan Club. Il resto, seduto in fondo alla sala, e’ composto dai vari VIP, discografici etc. Nessun biglietto in vendita.
I Cure e’ una di quelle band che ascoltavo in anni ormai lontani, una di quelle mai dimenticate ma messe nel cassetto. Robert Smith e il suo incredibile magnetismo saltano immediatamente fuori dal cassetto, e questa folla di capelli stracotonati, abiti neri e improbabili make-up sembra essere saltata fuori con lui. Ci guardiamo intorno e siamo tornati agli anni a noi cari, chiudiamo gli occhi e le note suonano totalmente attuali, non fosse che le conosciamo bene, e ritengo questa sia una prerogativa di pochi, quei pochi che in musica riescono a fare la storia. Se la scelta dell’icona di quest’anno mi aveva forse un po’ sorpreso all’inizio, sembra la scelta piu’ naturale e certamente meritata in questo momento. Anche perche’ quanti gruppi in questo genere sono riusciti a fare cio’ che hanno fatto i Cure? Nessuno direi. E se l’host di questa sera riesce a reggere altri dieci-quindici anni come loro, sono piu’ che sicura che lo vedremo all’MTV icon del 2020 circa; ottima scelta. Cosa manca a questa serata per essere perfetta? Mah, direi qualche tartina, magliette souvenir omaggio e Siouxsie and the Banshees. Ma mi accontento.
Mi godo “Lullaby” accompagnata dal macabro video sullo schermo a lato, “Close to me” e “Boys don’t cry” ma soprattutto quella che ancora oggi mi risuona in mente: “... monday, tuesday fall apart, wednesday almost break my heart, thursday don’t even start, friday I need love...”, o qualcosa del genere che nn l’ho sentita per troppo tempo... Anzi, vado a metterla su, ma quanto e’ bella questa canzone??
All’uscita ci porgono gentilmente anche una “goodies bag”, sbirciamo: una t-shirt! Mancano solo Siouxsie e le tartine... Saliamo in macchina e apriamo trepidanti, ma sono maglietta e portachiavi dell’altro sponsor della serata: MSN Messenger! Uff, volevo la maglia dei Cure possibilmente con data dell’evento... Che vuoi farci, e’ sempre MTV alla fine!
Cristina Massei

 

I-DAYS 2004
Bologna Arena Parco Nord - 5 Settembre 2004-09-14

Mi appresto a fare la coda per comprare il biglietto e nonostante il caldo mi stia già provocando seri problemi riesco a distinguere le note di “Lessons”... Cazzo! I Thee STP sono già sul palco! Purtroppo lo show dei nostri troublemakers preferiti è già iniziato da un pò e riesco a godere dei pochi pezzi rimasti. È già stato ripetuto più volte quanto Thee STP siano sinonimo di grande carica e rappresentino una scelta sempre azzeccata. Non posso che confermare ancora una volta, grandi. Anzi, a mio avviso, i migliori della giornata.

Si succedono due gruppi di attitudine iperpunkieggiante assolutamente insopportabili per quanto mi riguarda. E si che prima all'ingresso dei New Found Glory sembrava che si fossero materializzati i Clash direttamente sul palco tanto sono stati osannati dal pubblico... sono rimasta proprio indietro.

Dopo l'overdose di punk arrivano Auf der Maur, capitanati dalla stilosa ex bassista di Hole e Smashing Pumpkins. Ammetto di essere stata mossa da grande curiosità per la performance di mademoiselle Melissa, che propone una serie di brani concepiti nel corso degli ultimi 6 anni, durante i quali, a suo dire, la sua vena compositiva è stata limitata prima da Courtney Love e poi da Billy Corgan. Ahem… ci sarà anche stato un perché… no? Delusione maxima: riesco a resistere esattamente 5 minuti, il tempo di una canzone e mezza. Nel complesso abbastanza noiosi e senza mordente, i brani piatti e ripetitivi, un gruppo discreto ma assolutamente anonimo, oltretutto senza il contributo di una voce che consenta di alzare almeno un briciolo il livello. Bella da vedere cara Auf der Maur, ma fossi in te lascerei perdere la carriera di singer.

Il punk mi aspetta al varco, dovevo immaginarlo! Quando già mi stavo preparando per gli MC5, con tutto ciò che ne consegue in termini di conquista di posizioni ed appostamenti strategici, vedo apparire un manipolo di loschi figuri che attaccano a schitarrare... mmmhhh... che sia Lars Fredriksen insieme ai suoi The Bastards? Eh si, come da immancabile modifica di scaletta. Pace, aspettiamo. Premetto che per me il punk rimane abbastanza un arcano e faccio piuttosto fatica ad apprezzarlo, al di là delle bands storiche che gli hanno dato vita, ergo, il gruppo, nato da una costola dei Rancid, stenta a coinvolgermi. A parte una cover dei Ramones, e una dei Rancid che sono riuscita a riconoscere, mi è sembrato di sentire un’unica canzone tutta uguale lunga 45 minuti, ma per gli estimatori del genere deve essere stato l’outsider della giornata. Ho sentito commenti osannanti alla fine del concerto, perciò mi fido degli intenditori. Da sottolineare il siparietto finale con il frontman che comincia ad urlare alla folla “vaffanculo stronzo” e che fa ripetere gioiosamente al pubblico in visibilio. Ho sentito qualcuno dire che fosse un epiteto riferito a Bush, ma non sono riuscita ad averne conferma. E, in ogni caso, evidentemente queste parole hanno esercitato un grande appeal sul gruppo dato che i nostri eroi hanno salutato il pubblico urlando “vaffanculo stronzi”...viva l'amore!

La storia sta per fare il suo ingresso sul palco di Bologna signori. Ci sono gli MC5. O meglio, ci sono i Davis-Kramer-Thompson MC5 ovvero ciò che resta della gloriosa band simbolo della ribellione degli anni ’60. Certo, nel contesto di domenica 5 settembre 2004 a Bologna è difficile vederla rivestire questo ruolo, ma Wayne Kramer & soci appaiono in buona forma, senza dubbio il mestiere e l’esperienza pagano. Sul palco sono accompagnati da Evan Dando (ex Lemonhead) e Mark Arm (Mudhoney), mentre alla chitarra, che soddisfazione vedere Nick Royale! E, man mano che la musica va provo un certo dispiacere, misto ad un pò di vergogna, nel constatare quanto poco in effetti io conosca questo gruppo, al di là della storia che si porta dietro. È un piacere sentire del buon rock suonato ancora con la stessa energia e lo stesso divertimento a più di trent’anni di distanza. Spettacolare la versione di “Kick Out The Jams” che ci viene offerta.

E adesso non si scherza più, è arrivato il momento dei Velvet Revolver, dopo 6 lunghe ore trascorse in piedi di cui 4 sotto un sole tropicale ad una temperatura che sfiora quella del deserto del Gobi a mezzogiorno è arrivato il momento tanto atteso dalla quasi totalità dei presenti. Tra l'altro l'attesa si è fatta ancora più spasmodica da quando, a metà pomeriggio, si era insistentemente diffusa la voce che fosse presente anche Izzy Stradlin che, impegnato in una tournée europea, avrebbe fatto tappa a Bologna per assistere al concerto dei suoi vecchi compagni di GNR. Naturalmente appena terminato lo show degli MC5 un fiume umano in piena si riversa verso il palco, massì, ci provo anch'io.

Naturalmente mi posiziono a distanza medio-alta dal palco e come per magia i soliti perticoni da 2 metri che mi accompagnano ad ogni concerto si materializzano davanti a me. Allegria. Il sole è calato, è sera inoltrata, ma la temperatura non accenna a diminuire – per inciso, la sottoscritta continua a vedere poco o nulla. Le prove dei vari strumenti di rito, l'affissione di un telone e poi buio per circa cinque minuti. Il pubblico è impaziente e non vede l'ora di poter esplodere. 3... 2... 1... BUM! Parte un boato e la band brucia subito le due cartucce migliori “Sucker Train Blues” seguita da “Do It For The Kids”. Fin da subito Slash (accompagnato dal fido ventilatore) e Duff si dilettano nei soliti incroci e nelle solite corse da una parte all'altra del palco, Scott Weiland che sfoggia un simpatico cappellino poliziesco urla e si agita, tiene bene il palco, sull'onda dello slogan: “We are Velvet Revolver and we play rock’n’roll”.

Si susseguono i brani di “Contraband”, “Headspace”, “Slither”, “Big Machine”, “Set Me Free”. Grande emozione quando arriva il momento di “Fall To Pieces”, spuntano gli accendini ad accompagnare la chitarra solista di Slash di sweet-child-o'-mineiana memoria e la discreta esecuzione vocale di Weiland. E come tutte le bands americane che si rispettino ci vuole il colpo di scena per fate il botto. Eccolo qua: viene annunciata (purtroppo non so da chi, ero stranamente sommersa dalla folla e non sono riuscita a vedere) la presenza di un vecchio amico che sta per salire sul palco e che risponde, guarda un po', al nome di Izzy Stradlin. Qualcosa mi dice che suoneranno qualcosa dei GNR, “It's So Easy” per esempio. Delirio. La voce di Scott Weiland è completamente coperta (e forse è un bene) da noi che cantiamo a squarciagola. Per un momento abbiamo potuto rivedere la triade Duff-Izzy-Slash vicini come ai vecchi tempi. Izzy sempre bandanato e occhialato si prende la meritata dose di applausi dal pubblico in adorazione e se ne va, lasciando la scena al tributo agli Stone Temple Pilots.
Lo show si chiude le luci si riabbassano.

Ok, ora però bisogna anche rendere conto di come il gruppo abbia eseguito la sua performance. A questo punto, per il commento, mi devo scindere e sdoppiare.
Commento della GNR fanatic: sinceramente, vedere lì piazzati on stage Slash, Duff McKagan e Matt Sorum (più Izzy Stradlin per qualche minuto) in carne ed ossa è stata un'emozione pazzesca, credo soprattutto per chi, come me, non ha mai assistito ad un concerto dei GNR dei tempi d'oro o ad uno degli Snakepit. Oh, Slash è un pezzo di storia, c'è poco da fare e fa un certo effetto vederlo lì a pochi metri (decine di metri, và) da te.
Commento critico: intanto chi si aspettava un concerto dei GNR è rimasto deluso.

Giustamente, perchè i VR non sono i GNR, anche se certamente era chiaro che il gruppo avrebbe fatto successo rivivendo di luce riflessa il successo dei GNR. I VR sono senza dubbio validi e possono vantare una serie di musicisti di “discreta” bravura, il loro potenziale è mostruosamente alto, il concerto è stato molto buono, ben suonato, ma è mancato quel qualcosa che lo avrebbe reso spettacolare. In effetti tutti si sono limitati a svolgere il loro compitino, ottimamente, per carità, ma senza creare qual coinvolgimento che mi sarei aspettata. Alla fine il più carismatico sul palco è stato proprio Scott Weiland, che, per inciso, da questo punto di vista mi ha veramente stupito, Slash assolutamente in ombra, non ha fatto la differenza purtroppo, né musicalmente, né emotivamente. Ah si, c'era anche Dave Kushner, rimasto leggerissimamente nell'ombra per tutto il tempo.

È quasi ora di andare, mancano solo più gli headliners prima di concludere questa maratona musicale. Eccoli qua i quattro inglesotti. Aprono con un pezzo strumentale in cui le due chitarre dei fratelli Hawkins giocano a rincorrersi. Sono proprio bravi, niente da dire, chapeau! Tutto il concerto non si discosta particolarmente dallo standard. Justin sfoggia una delle solite tutine sberluccicanti e comincia fin da subito i suoi botta e risposta con il pubblico. Di sicuro non ha nulla da invidiare a nessuno, tiene il palco in maniera esemplare, l’unico neo è che ormai il suo personale show è un pò troppo ripetitivo, ma in fondo ci piace così.

Anche la scaletta non presenta sostanziali sorprese: vengono proposti i brani di “Permission To Land”: “Black Shuck”, “Growing On Me”, “Friday Night”, l’immancabile “I Believe In A Thing Called Love” e via di questo passo. Appena prima della fine del concerto sgattaiolo via dall’Arena, mancano ancora più di 200 km prima di poter godere del meritato riposo. Ma si, in fondo è rock’n’fucking roll!
Claudia Schiavone


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