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ROCK IN IDRO
2/3 Settembre - Idroscalo (Milano)

Questo Rock in Idro è manna dal cielo per gli alunni della IV C del liceo scientifico G. B. Grassi di Saronno. NoFx, Millencolin, Ska P… Un festival coi brufoli. Per quanto mi riguarda, nel settembre 2003, avevo promesso a me stesso di non andare mai più a un festival.

Odio i concerti all’aperto, odio sudare alle quattro del pomeriggio, odio i freak. Promesse da marinaio, Turbonegro nei paraggi d’altronde. Considerato il fatto che dopo mangiato non posso evitare la pennichella pomeridiana, venerdì mi perdo Useless I.D e Voicst, prime due band in programma. I Super Elastic Qualcosa li snobbo per principio, preferisco di gran lunga intrattenermi con i due Polecats sopravvissuti. Questi Super Elastic Qualcosa non li ho mai sentiti, però ho letto ciò che di loro ha scritto la stampa specializzata tricolore. “…metal aggressivo come una tigre”, “…ispido da far male, sporco di blues sonico…”, “né elementari come una punk band, né pomposi come i Mars Volta”, “…furore grunge e velocissime schegge punk…”. Tutte queste belle parole mi fanno pensare solo a una cosa: i Super Elastic Qualcosa sono una truffa bella e buona.

I Bikini The Cat invece non sono male, un po’ disco un po’ punk. Io ballo come al Duplé, tre punk si rotolano per terra. Credevo che l’hardcore melodico si fosse estinto nel XX secolo, poi sul main stage sono saliti i No Use For A Name e ogni stacco è un salto. Con Juliette and the Licks cominciano le prime bestemmie, quelle sonore. A parte il bassista con lo strumento ad altezza collo, lei – Juliette – non lancia neanche un pelo di figa. Sembrano gli Skunk Anansie e non me ne faccio niente della cover degli Stooges nel finale. Ma che bello star seduto sul prato come a Woodstock.

Comincio a cercare i miei amici. Dove sono? Dove sono i miei amici? Grande spettacolo quello dei Turbonegro, peccato che - esattamente come la scorsa volta a Milano - manchino di… potenza? Tanti palloncini colorati, migliaia di banconote scendono dal cielo, pioggia dorata… What do you want? What do you want? I wanna get it on, get it on, get it on... Capitolo Stinking Polecats. Nuova line up, tecnicamente mostruosa.

Punk rock M.I.A? I ragazzi sembrano contenti: e quelli sul palco, e quelli sotto. Il sottoscritto asciuga le lacrime. Malinconia, nient’altro. Pennywise: mi gusto le ultime tre quattro canzoni, sorprendentemente hardcore. Il logo degli Hives è stupefacente, loro pure. Forse troppi teatrini tra un pezzo e l’altro e, certo, il loro garage punk su un palco così grande fa uno strano effetto. Scrivo un sms e ballo sulle note di “Why Don’t You Get A Job?”. Gli Offspring sembrano davvero un gruppo punk rock di Orange County.

Il giorno dopo, sabato 3, arrivo tardi. Troppo tardi per La Crisi, dolce hardcore band nata dalle ceneri dei Sottopressione. E quasi troppo tardi per i Toy Dolls, gruppo senza il quale i NoFx non sarebbero quello che sono oggi, ossia dei pagliacci di successo. Me First and the Gimme Gimmes, combo fine a se stesso. Dall’America di “Country Road” al Belpaese di “O Sole Mio”… preferisco affogare in un Oceano Atlantico di stronzate. Salgono on stage i My Chemical Romance e tra le persone che conosco l’unico che se li vuole sorbire è Deadend. Smiths più Iron Maiden e i capelli ricci del chitarrista alla nostra destra sono orripilanti.

Durante i Millencolin sono al bar a mangiare. Mangio, ma sono vigile: ho giurato davanti ad Allah che se i ragazzi svedesi avessero suonato “Move Your Car” mi sarei precipitato nel pit e avrei cercato un rasta disposto a farmi la scaletta per saltare al di là delle transenne. Niente, sono rimasto al ristorante. Fat Mike, dati i problemi alla chitarra del chitarrista capellone, ci delizia con una versione basso e voce di “Do What You Want” dei Bad Religion, poi El Hefe canticchia “No Woman, No Cry” e io mi incazzo perché è giusto incazzarsi quando uno tira fuori quella canzone. Finalmente, dopo una melodia suonata con la trombetta sinistramente simile a “Brutta” di Alessandro Canino, i ragazzi cominciano il concerto.

I NoFx partono con “Linoleum”, io sono contento, ma nel giro di dieci minuti si capisce che qualcosa non va. Non è solo la chitarra di Eric Melvin, Fat Mike è acido – chissà che è successo. Nobody likes us, everybody hates us, Americans – Americans... Pessimo spettacolo. Sul palco di Rock Sound sbraitano i Darkest Hour e io me ne vado a casa dato che degli Ska P non dovrebbe fregare nulla a chiunque abbia più di diciassette anni. Il Rock in Idro è un festival di respiro internazionale. Ahimè, l’aria che tira ultimamente in giro è soffocante.
Miguel Basetta

 
HARDCORE SUPERSTAR + DIRTY DOGZ
Transilvania Live, Milano - 28 Aprile 2005

Tornano gli Hardcore Superstar e incomincio a pensare che gli svedesotti funzionino a mo’ di cornetto anti sfiga: se l’ultima volta mi avevano protetto da una tazzina da caffé volante lanciata come una bomba a mano (e finita a schiantarsi sulla zucca di Jany James, anziché i suoi stivali), questa volta mi evitano di un soffio di mandare all’inferno un vecchio ciclista, al quale non basterà un 24/7 di avemaria alla Gran Madre per purificarsi dei cristoni che ha tirato nei miei confronti.
Durante il tragitto penso che potrei avere un futuro come Dr Morte, alla faccia dei lavori a tempo determinato…
Arriviamo al Transilvania senza mietere vittime, e arrivati nel cortile mi preoccupo un po’, non vorrei sbucasse un vecchio armato di micidiali bocce dal vicino ospedale geriatrico per vendicare l’offesa fatta alla Anzianità. Per fortuna non mi imbatto in nessuna dentiera, ma una volta entrato nel locale il ritratto di Gae Fezza mi inquieta non poco...

Iniziano i Dirty Dogz, già visti in azione una manciata di settimane prima al Glam Attakk. Stavolta i suoni rendono giustizia alla band, che inanella uno dietro l’altro i pezzi del proprio repertorio, un class metal condito da virtuosismi e svisate di twin guitars. Oh yeah, la band è precisa e compatta, Chris Lago ci sa fare con la voce e sul palco se la cava alla grande nonostante il recente innesto di due occhi di vetro, e, tamarro, incrocia gli assoli con un altro tamarro, Stevie Foxx. Captain Hollywood è sempre più bello, nonostante ostenti dei bassi persino più tremendi di quello del mio sciagurato bassista, che è tutto dire eh! Alla lunga però accuso la lunghezza media dei pezzi, e mi eclisso per pisciare allegramente.

E’ il momento di un po’ di mondanità: mi imbatto nel Metius che birbante mi allunga una media al volo, sbuca fuori il Basetta con il nuovo fiammante numero di Oriental Beat e infine mi intrattengo in una lunga chiacchierata con Darin dei Dope Stars Inc e Hot Rod dei Gemini 5, quest’ultimo in gita assieme agli amici HCSS.
Inizia la intro degli Hardcore Superstar, arriva Gnocche Berg vestito in modo tremendo con jeans attillati modello trasher, anfibi e la maglietta col nome del singolo di turno pennellato sopra (e anche un filo di pancia, tiè!), tripudio di genitali femminili et voilà, “Liberation” che fila che è un piacere. Dopo un paio di pezzi gli HCSS mi confermano un’impressione maturata durante i concerti degli ultimi anni che è diventata certezza: le canzoni che dal vivo rendono di più sono quelle di “Bad Sneakers…”, le uniche almeno a trasmettermi emozioni, “Have You Been Around” ma soprattutto “Someone Special”, che riesce sempre a farmi correre un brivido.

Le (buone) eccezioni si chiamano “Shame”, sempre molto bella, e persino “Still I’m Glad” dal piatto “No Regrets” fa bella figura. Il vero eroe come sempre è Adde, sfacciatamente zarro a suonare con la batteria rivolta verso il lato sinistro del palco, tecnico (fin troppo per il rock’n’roll) e potente, con tanto di fisico da testimonial Testmed e capello lungo. Silver Silver e Martin incorniciano Jocke come due simpatici trichechi con bandana a coprire l’incipiente pelata, fanno il loro dovere e anche tante smorfie.

Arriva la fine, e il nuovo singolo “Wild Boys” non aggiunge nulla di epocale, anzi, già il titolo fa abbastanza schifo, a livello musicale prosegue la ricerca verso il nulla-di-che intrapresa da un paio di anni dal gruppo svedese.
Alla fin fine un concerto piacevole, sicuramente i migliori HCSS li ho visti in altre situazioni ma del resto non mi aspettavo particolari sorprese. In finire di serata ho l’occasione di sentire qualcosa di nuovo dei Gemini 5, Rod mi aveva anticipato che il disco nuovo suonerà molto più Marylin Manson che glam… “no more suicide Tuesday”, mi ha detto ridendo. Ancora presto per farmi un’idea preciso, ma sono curioso.
Si torna a casa, non prima di aver cercato il suicidio culinario con un kebab da 2 kg. E nesun anziano per strada, olè!
Simone Parato

Hurricane PartyHurricane Party

 
HURRICANE PARTY + The Glitterati + The Black Velvet
15 Aprile 2005, Manchester – Academy III

Frenetico week end come al solito mi vede correre dal piccolo negozietto di Preston in un freddo venerdi’ pomeriggio, ad un pub vicino la stazione per pre-riscaldmaneto e preparazione a concerto; salto su un treno per l’attraversata Preston-Manchester, un panino ingurgitato al volo al Sub-Way mentre cammino per Oxford Road e... sono di nuovo maledettamente in ritardo!!! Ma perche’ gli inglesi iniziano i concerti alle tre del pomeriggio?????

Ad aprire la serata rock and roll all’Academy (e tre bastardissimi piani di scale!) e’ stato un gruppo di Liverpool chiamato The Black Velvet che, nonostante si professi come l’ennesimo discendenti dei meastri Led Zep, non si merita piu’ di un nominativo quale “ennesima-sovra-valutata-brit/alternative-pop-(very-pop)-band”! fortunatamente li mio ritardo congenito, mi ha schivato la fatica di ascoltare piu’ di tre brani del gruppo di apertura.

Altra mez’ora, altro gruppo! Ed appaiono sul palco i The Glitterati, gia’ recensiti su queste stesse pagine in occasione dell’apertura del concerto londinese dei Wildhearts, quasi un anno fa (Cristina mi manchiiiiiiiii!).
Mi tocca purtroppo dare ragione a Pennylane quando dice che e’ l’ennesimo gruppo stile the Jet e, aggiungo, The Datsuns, the Killers... e chi piu’ ne ha piu’ ne metta. Sicuramente rock nel look ma un po’ meno nel loro stile musicale. Le chitarre graffiano ma nono troppo, i cori sono abbastanza ruffiani, ma mai accattivanti abbastanza per fare restare l’attenzione alta per un intero minuto.
Fantastico il loro marketing... hanno sparso spillette r’n’r e stickers per tutta il pre-durante-post concerto; per non parlare della grafica del sito: super-sonico! (www.theglitterati.com, se siete curiosi).
Oups! Stavo per dimenticare che siamo sulla Alive section. Dicevo, questa glam metal band di Leeds sta cavalcando intelligentemente l’onda del ritrovato amore per l’hair metal... e come dargli torto!
Concentratevi sulle chitarre e alzate il volume... e canzoni come 'Betterman', 'Heartbreaker' and 'First Floor' e il singolo ‘You Got Nothing on Me’ possono arggingere il livello dell’accettabilita’.

A difendere il nome del ritrovato r’n’r ci pensano invece, ed in superbo stile, gli headliner Hurricane Party: ragazzi che gruppo!
L’EP “Get This” non rende minimamente l’idea del potenziale che questo quintetto possiede. Esplosivi, aggressivi, incuranti e spettacolari live performer... ecco chi/ cosa sono gli Hurricane Party.
Non a caso il loro scopritore e’ John Kalodner (AC/DC, Bon Jovi and Aerosmith), non ha caso hanno firmato per una major come Sanctuary e, non a caso, hanno ottenuto la collaborazione di Kevin Shirley al mixer (Black Crowes, Iron Maiden).
La band ha gia’ un eccellente curriculum, avendo fatto da spalla a band quali Status Quo e Skid Row, in poco piu’ di un anno dalla loro formazione.

L’accoppiata vincente sono i due ‘gemelli’ della formazione: rock and roll t-shirt in ogni performance, biondi, pazzi, irrefrenabili. Loro sono Jonny Rocker alla chitarra ritmica e Rob Randell al basso. Un eccellente Robin –Kreepy- Hirshfield alla chitarra accompagna in modo superbo il ‘Ian Astbury look-alike’ frontman (Richie Hevanz). Ultimo, ma non ultimo, Chris Rivers dietro le pelli.
La canzone piu’ in voga e’ il singolo “Roadstar”, che la band propone suonando come veri animali e duetti r’n’r, chitarre r’n’r, pose r’n’r... in pieno rispetto dei classici canoni di band come gli Zep e Aerosmith (questa volta, possiamo finalmente dire che i meastri hanno trovato appettibili discepoli! Hole!)... senza scordare i stilosissimi pantaloni attillati, lacca e eyelyner come contorno.

Ottimi musicisti che sicuramente stanno risquotendo un super-meritato successo e da cui aspettiamo presto (il mese prossimo probabilmente!) il primo full-lenght album.
In attesa che questo tornado di puro air guitar ed ottime melodie scavalchi i confini inglesi e, soprattutto, se avete voglia di scuotere testine e culetti, potete farvi un’idea ascoltando i soli cinque pezzi in circolazione: la gia’ nominata “Roadstar”, “Last Survivor”, “Crown Of Thorns”, “Big Rock Show” e “Killer”.
Laura Delnevo

 
DOKKEN
Transilvania, Reggio Emilia, 9-4-2005

Ci sono voluti ben 19 anni... dico... 19 anni per rivedere i Dokken in Italia, tanto è passato dal quel lontano 1986 (andavo ancora a scuola…!) in cui insieme agli Accept misero a ferro e fuoco la penisola. Un mio amico mi dice sempre che quel concerto rimane una delle cose più coinvolgenti che lui si ricordi... e ci credo!

Freschi di un album convincente ("Hell To Pay") e di una confortante tournee europea di tre anni fa (niente Italia purtroppo, la cricca di Slam seguì la data di Zurigo) la band di Don Dokken ha deciso finalmente di tastare il polso ai fan italiani... che a giudicare da quello che abbiamo visto stasera ha risposto alla grande.
Il Transilvania di Reggio Emilia si trova vicino all’uscita dell’autostrada e le mie famose qualità di navigatore portano la truppa di Slam fuori dal locale intorno alle ore 21... con il sottoscritto il grande capo Moreno e il buon Paolo che da fan della band non ha voluto mancare all’avvenimento…
Dopo 4 chiacchiere scambiate in coda fuori dal locale è il momento di entrare e devo dire che il locale è ben strutturato... non troppo piccolo e neanche troppo grande, buon palco e parco luci discreto (anche se nel corso del concerto l’addetto alle luci dimostrerà non troppa padronanza col mezzo…).

Ad aprire stasera sono stati chiamati i Listeria, band italiana che ha recentemente firmato un contratto con l’etichetta svedese Lion. Se devo essere sincero non è che la band mi abbia convinto molto... forse i suoni non erano ottimali ma alcuni pezzi mi sono sembrati troppo complessi e poco assimilabili... anche se la band ha dimostrato di saper tenere il palco e due cover di Saxon e Motorhead sono riuscite a smuovere
il pubblico in attesa degli headliner.
Sono passate le 23 quando da dietro il telo nero che ricopre il palco partono le inconfondibili note di “Kiss of Death”... signore e signori... Doookken!
Il locale ora è bello pieno e l’entrata in scena del buon Don viene salutata da un’ovazione..19 anni di attesa saranno ben ripagati.

Come 2 anni orsono la seconda canzone in scaletta è “The Hunter”, mentre a sorpresa segue “Dream Warriors”, brano che parecchi anni non figurava nella set-list della band californiana.
Rispetto al tour precedente c’è ovviamente il nuovo chitarrista da guardare con curiosità... Jon Levin ha infatti il non facile compito di non far rimpiangere autentici mostri della sei corde come George Lynch, Reb Beach, John Norum e il nostro Alex de Rosso... e devo dire che a fine serata gli applausi convinti della gente facevano capire come la missione fosse stata compiuta... suoni pressoché identici a quelli di Lynch, una buona dose di modestia e tanta classe fanno di questo chitarrista l’uomo giusto al posto giusto..
Forse è anche merito suo se alla fine la band mi è sembrata decisamente più quadrata rispetto a 3 anni fa, più vicina alla classico Dokken-sound di quanto non fosse con le sonorità più “moderne” di un chitarrista come John Norum.

Menzione speciale anche per Barry Sparks, il solito mostro dello strumento, e per il fantastico Mick Brown... 50 anni di follia portati benissimo... le scenette tra lui e Don Dokken sono parte integrante dello show ormai da 25 anni..e il bello è che i due sembrano divertirsi ancora come ragazzini.
Altra song recuperata per questo tour è “Heaven Sent”... da brividi... come. D’altronde “Into The Fire”, vero e proprio hit degli eighties.
Del nuovo corso vengono proposte “ Haunted”, unica concessione al nuovo cd e “Too High To Fly” (da “Dysfunctional”), che come al solito viene dilatata per permettere due ottimi solos di Levin e Sparks.
Da un lontano passato arriva poi “Breaking The Chains”, devastante come al solito in versione live mentre “Alone Again” conferma come Don sia nettamente più in voce del tour precedente.

Andiamo verso la fine e una terremotante versione di “Tooth and Nail” chiude lo show, preparando tutti quanti all’atteso bis..”In My Dreams” e come al solito quando arriva sto pezzo mi commuovo... sarà l’eta cazzo!
E’ davvero la fine... Don ringrazia quasi stupito per la fantastica accoglienza ricevuta e promette che stavolta non dovrà passare così tanto tempo prima di rivederli dalle nostre parti.
A questo proposito permettetemi di finire ringraziando di cuore Debbie e la Get Smart, che da anni tentava di portare la band in Italia e che finalmente ha visto i suoi sforzi premiati.
Federico Martinelli

 
GLAM JAM FESTIVAL
Enuff Z' Nuff + Bang Tango + Pretty Boy Floyd + Babyruth
6 Aprile 2005 - Gate 52, Verona

Tutte le volte, tutte le sante volte mi riprometto di non farlo più, basta trasferte del genere in settimana, perchè poi il giorno dopo si va al lavoro e bisogna presentarsi in condizioni credibili. Quindi basta così, mercoledì a Verona non ci vado. Ok, deciso. E infatti, mercoledì 6 aprile alle ore 21, puntuale come un orologio schvizzerrro sono davanti al Gate 52 a Verona per il Glam Jam Festival, parata di vecchie glorie, riunite per l’occasione in questo nuovo locale che, viste le premesse, ha tutte le carte in regola per offrire buone serate. Intanto il locale colpisce per la sua ampiezza. Originariamente era un bowling e lo si vede, andare dal palco al banco del bar è praticamente un viaggio. Che dire, abituata ai soliti buchi, mi trovo quasi spaesata. Potenzialmente è la location ideale per concertoni della Madonna. Certo c’è anche il rovescio della medaglia, perché un posto così grosso semivuoto crea una certa desolazione.

Appena entrata la mia attenzione è catturata dal banchetto del merchandise. No, non possibile, mi sono sbagliata, ho visto male. E invece no. È proprio Chip, modello giornalaio al chioschetto di fronte alla stazione centrale che vende magliette (orrende tra l’altro, posso dirlo?) e gadgets vari. Che immagine triste…non so perché, forse è il locale nuovo, forse è il mio umore non al top, ma mi sembra che il clima della serata non sia caldissimo, anche il pubblico mi pare abbastanza moscio. Boh.
Ma veniamo ai gruppi.

Cominciano i Babyruth. Devo confessare che la loro presenza ha inciso in maniera determinante sulla mia scelta di esserci stasera. E non resto delusa. Me li godo dalla prima fila (non che abbia dovuto sgomitare per arrivarci, a quest’ora l’affluenza è ancora scarsina) e assisto al solito spettacolo carico e grintoso a cui ci hanno sempre abituato. Vengono proposti sia i “classici” “Honey”, “Rosieline”, “Like Toys”, “Dream Of My Life”, sia alcune new entries incluse nell’album di prossima pubblicazione: “Fat Ass Rockstar”, “Rock Me On” e soprattutto la chicca “The Others”, deliziosa e divertente in perfetto stile Babyruth, con un ritornello che ti si pianta in testa e continui a canticchiarti ossessivamente per i successivi 5 giorni. Sembra un’ovvietà, ma alla fine sono proprio i 5 ragazzi nostrani a dimostrarsi il gruppo più “gruppo”. Intanto sono gli unici a presentarsi in formazione “originale”, che sembra una stupidaggine, però in effetti si sente, nei suoni, nell’intesa tra i membri… la resa è migliore e più coinvolgente insomma. Peccato che non ci sia molta gente ad applaudirli. E anche quella poca presente non è che si lasci andare più di tanto.

Seguono i Pretty Boy Floyd, o meglio quel che rimane del surrogato di Steve Summers, accompagnato da tre musicisti che con i PBF non hanno niente a che fare. Alla chitarra Michael Thomas dei Fastback, con trascorsi in Beautiful Creatures e Adler’s Appetite; Jamie Keane al basso e Tim Russell alla batteria. In pratica i Bang Tango. E, a mio modesto parere, va di lusso a Mr. Summers, perché almeno questa volta si presenta con una band che sa suonare e lo supporta mica male, non come quei catorci di 3 anni fa. Comunque sia, Steve Summers riesce a risvegliare gli animi del pubblico che, riemerso dal letargo, si scatena. La scaletta non riserva, naturalmente, nessuna sorpresa: le solite “Your Mama Won’t Know”, “48 Hours”, “Rock’n’Roll”, “I Wanna Be With You”, le cover di “Toast Of The Town” e “Live Wire” (cheppalle…), l’immancabile “Leather Boyz With Electric Toyz”.

Mah… Steve Summers mi è sembrato la caricatura di sé stesso. I PBF potevano avere un senso all’epoca dei loro esordi, ma adesso fanno un po’ sorridere. Mi rendo conto di essermi un po’ stufata di tutti questi ritorni delle vacche sacre del glam che, salvo qualche eccezione, hanno fatto sincera pena, soprattutto per la scarsa capacità di non prendersi più troppo sul serio e per l’ostinazione con cui continuano a non capire che gli anni ’80 sono finiti e sarebbe il caso di evolversi un minimo. Va bene il glam, il glitter e la cotonatura da buco nell’ozono, ma per favore, non ditemi che Steve Summers è stato bravo. Guardiamo avanti, mon Dieu! Detto questo, non nego che il panzone trecciuto la voce l’abbia comunque conservata in stato più che onorevole e, nel mucchio, anch’io mi sono lasciata trascinare e qualche coretto l’ho canticchiato, in onore ai vecchi tempi.

Joe Leste e i Bang Tango promossi. Solo un brano dall’ultimo “Ready To Go”, la title track appunto, che apre il loro show e poi solo pezzi vecchi. Con un regalino, “My Time”, confezionata apposta per noi e le due cover “Lil’ Devil” (e lì,caro il mio caro Leste, ti ho adorato) e “Highway To Hell”. Ero curiosa di rivedere i Bang Tango e devo dire che mi hanno convinto. Joe Leste non è propriamente un frontman alla David Lee Roth, ma tiene bene il palco. Purtroppo non ricevono l’attenzione che si meriterebbero perché la gente sembra molto più interessata a farsi fotografare e autografare qualsiasi cosa (nel marasma mi pare di aver riconosciuto anche una confezione di tonno insuperabile… chapeau!) da Pancetta Summers.

È passata mezzanotte e gli Enuff Z’Nuff non hanno ancora iniziato. Dei tre erano il gruppo a cui tenevo di più e temo che anche questa volta me li perderò. In effetti riesco appena ad ascoltare il brano di apertura “Baby Loves You” e poche note del secondo che è già ora di andare. Che sfiga. Gli Z’Nuff si presentano uni e trini con Chip Z’Nuff, a cui va di diritto la palma di icona glam della serata, eccezionale il cappottino, e un bravissimo Johnny Monaco che, per quanto approssimativo possa essere un giudizio che si basa sull’ascolto di una canzone e mezza, non fa rimpiangere Donnie Vie. Dieci minuti scarsi di EZN, ma si conferma la mia idea: sono un gruppo sui generis, assolutamente fuori dal coro e distanti anni luce dalla frenesia di oggi. Le loro melodie un po’ malinconiche e sognanti vanno assaporate lontano dal troiaio di un concerto come quello di oggi. Sto ancora rosicando al pensiero di non essere stata lì a lasciarmi emozionare da “Fly High Michelle” e “New Thing”…lo so che le avete fatte, bastardi!
Claudia Schiavone

 
TRASHLIGHT VISION
Easter Punk Feast [ TLV +THE BUZZCOCKS, Johnny Panic, The Wayriders, The Itch, The Exorsisters
Blackburn, 27 Marzo 2005

Che ci crediate o no, Pasqua in Inghilterra è celebrata senza cioccolato. Shock!
Conseguenza: ragazze italiane incastrate in questo nordico Paese rischiano la pazzia pensando alla lontana casa italiana immersa in uova di cioccolato, confetti di cioccolato, coniglietti e altri animaletti di cioccolato, colombine coperte di zucchero a velo ecc.
E solo questo è stato il motivo che mi ha fatto muovere le chiappe dal vecchio divano, scappare fuori dalla mia vuota (di cioccolato!) abitazione inglese, e dirigermi verso il “Easter Punk Feast” in Blackburn -nord Inghilterra.
Il festival della nordica ‘Royal Hall’, iniziato verso le cinque del pomeriggio, ospita come protagonisti gli americani Trash Light Vision, e The Buzzcocks.
Io, da classica e brava italiana, sono arrivata al teatro con un paio di ore di ritardo, perdendomi le prime due band.

The Wayriders è una giovane ska band con un paio di trombettisti e un sacco di musicisti scalpitanti a fare numero sul piccolo palco; con l’aggravante di un cantante fighetto nei primi anni della sua adolescenza… quindi passo oltre.
L’atmosfera generale è ancora molto, molto calma; e poche sono le figure rappresentative del vero punk-style tra la giovane audience.
Ma i Johnny Panic, ormai coscienti della loro crescente popolarità, sembrano non fare caso alla scarsità di pubblico, e si concentrano sui pochi appassionati delle prime cinque (e uniche!) file.
Parzialmente rock e parzialmente pop, ma con tanto carisma ed energia, i quattro giovanotti di Manchester riescono a causare il primo pogo della giornata. Rob Solly, cantante, corre da una parte all’altra del palco senza mai fermarsi, saltando minaccioso sulla batteria e sugli amplificatori per tutta la durata del set. “Ramona” e “Don’t Panic” rimangono le due canzoni più apprezzabili del quartetto.

Ormai raggiunte le 20.00, i prossimi a esibirsi - e maggiore ragione della mia odierna presenza – sono gli americani Trashlight Vision, la punk rock band capitanata dall’ex Murderdolls Acey Slade.
Ragazzi, e se capitano dalle votre parti non perdeteveli perche’ sono fucking cool! Sia come gruppo sia come persone!
Questo tour, come Slade ricorderà più tardi, è la terza volta in meno di un anno che la band si esibisce in UK.
Slade è un frontman incredibile, e la band appare veramente unita e compatta. Non ci mette molto tempo infatti a spargere il feeling di divertimento, passione e unicità, all’ormai apprezzabile pubblico.
Il suono è discreto e la proposta dei pezzi, corti e sculettanti (come direbbe il capo!), ottima.
Slade riesce inoltre a scatenare una rivolta tra le prime file, “only in the name of Rock N Roll,” un genio!
Il frontman infatti ha chiesto ai timidoni, nascosti nella penombra dell’ampia sala, di fare qualche passo in avanti per raggiungere il resto dei presenti.
Non ricevendo alcuna risposta, Slade comincia ad innervosirsi e apostrofa: “C’on you, bunch of pussies, just prove how brave you are, and step forward” … ormai stremato dall’immobilità del retro-sala aggiunge: “I guess you don’t believe in Rock N Roll, and you’re gonna hate this song coz this song fucking rocks!”.
“Ohi, ohi, ohi”, un selvaggio head-banging, e inizia così una delle maggiori hit della band, “Allergic To You”.
A seguire sono pezzi come “ Black Apples”, “Alibis and Ammunition” e la fantastica “'My Fuck U 2 U” con cori e afeguati diti medi alzati per accompagnamentoi.
La proposta di una cover di “It’s So Easy” dei Guns N’ Roses mi fa scoppiare il cuore e sento l’adrelina esplodee per tutto il corpo! Slades e’ perfetto e il resto della band lo segue in un’unica onda di energia e devastazione... commozione totale!!!

All’alba delle 21.20 sono i vecchiacci ma irrefrenabili The Buzzocks a salire sul palco, davanti ad un ormai apprezzabile pubblico. Oltre ai ‘sono-un-dark-e-triste’ teen-ager, posso intravedere ora qualche cresta, qualche donna in PVC, chiodi, magliette slavate, jeans strappati, e diverse coppie sulla cinquantina: più scatenate e bevute dell’ammasso dei giovani presenti.
A testimoniare che trent’anni di punk, birra, droghe e pazzie non sono poi le cose più insane che possono capitare, e sono ancora in grado di dominare una piccola porzione di questo feroce mondo.
Pete Shelleye Steve Diggle sono in ottima forma e propongono capolavori quali “Boredom”, "Fast Cars”, "Autonomy"; riscuotendo un immenso, e naturalmente meritato, successo.
"Ever Fallen in Love?" e’ l’ultima canzone che ricordo di avere sentito perche’, grazie alle schifosissime ferrovie inglesi, sono dovuta correre via dal locale prima della chiusura degli headliner. Disgrazia!
Laura Delnevo

 
DTK / MC5 + The Introductions
27 Febbraio 2005 - Hiroshima Mon Amour (TO)

"Then one day I had the perfect plan, I shake my ass and scream - Get a Rock'n'Roll band -".
Odio la domenica sera, odio guidare con la neve e ancor di più odio l'Hiroshima Mon Amour di Torino, ma adoro gli MC5; così parto per andarmi a vedere quello che ne rimane, coadiuvato dalla presenza di alcuni ospiti, se così si può dire, illustri: Gilby Clarke fisso alla seconda chitarra e Handsome Dick Manitoba dei Dictators che si alterna alla voce con Lisa Kekaula dei Bellrays.

Quando arrivo gli Introductions hanno già cominciato e penso che con un nome del genere saranno destinati a fare da spalla per tutta la loro vita - E come gruppo spalla abbiamo “i gruppo spallaaaaahh” - una roba del genere. La band non sarebbe neanche tanto male, se non fosse che avrei strangolato volentieri il cantante e nel farlo gli avrei gridato "Canta adesso se ci riesci... Canta adesso in quel modo in cui cantavi prima!!!" Fortunatamente non tediano più di tanto l'audience e lasciano posto ai tre rocket reducers di Detroit. Si comincia con "Ramblin' Rose" e sinceramente sul subito penso tra me e me "Bella merda!". La colpa è della voce di Wayne Kramer che a mio avviso non sa cantare, figuriamoci poi riprodurre il falsetto della sopracitata canzone. Al secondo pezzo cede il microfono al bassista Michael Davis e siamo daccapo.

Lo show comincia ad ingranare con l'arrivo sul palco di Handsome Dick Manitoba che sfoggia una camicetta da ultrasessantenne (donna) alla balera del liscio il sabato sera: "You can call me Handsome (sè...), you can call me Dick (qua già ci siamo...) or you can... CALL ME ANIMAL!" e devo dire che la scelta della canzone da affibbiargli come entrata e azzeccatissima. Manitoba è un misto tra un animatore da villaggio turistico e il classico predicatore americano nero da supershow cattolico, che si potrebbe benissimo chiamare Reverendo Johnson, con una spruzzata di gangsta-rap, in parole povere un vero e autentico tamarro da periferia (non a caso è del Bronx)! Comunque si comincia a ragionare, Wayne Kramer è bravo... cazzo se è bravo, Wayne Kramer è bravissimo, intelaia delle scale di chitarra che danno forma a melodie molto acide, ma con una grande passione ed in grado di trasmettere grandi emozioni.

Inoltre è anche in forma dal punto di vista fisico: se Michael Davis si pianta nelle retrovie col suo basso e la sua t-shirt di Sun Rah, l'ex spacciatore di Detroit, socio in affari per un certo periodo di Iggy Pop, saltella invece qua e là sparandosi pose spassose e ruotando il braccio sulla chitarra a là Pete Townshend. Di contro, devo sottolineare che Gilby Clarke si è incastrato benissimo nel sound della band, se la intende alla perfezione con Kramer e i loro duetti sono stati tra le cose migliori dello show.
Proprio quando ogni cosa sembrava essere al suo posto a stravolgere tutto arriva Lisa Kekaula. La cantante delle Bellrays non è bella, ma vi assicuro che ha una carica sessuale tutta particolare, si muove come una sirena e canta con quella voce che è impossibile non immaginarsela al proprio fianco in un letto caldo mentre ne assaggiate la pelle che sa di cioccolato al latte. Canta prima "Over And Over" e poi quello che secondo me rimane il momento topico di tutto il concerto: quella "Looking At You che in Back In The USA" rappresentava uno dei momenti più spiccatamente psichedelici di tutto l'album. Mr Kramer ne riproduce perfettamente le parti di chitarra, Lisa Kekaula canta quasi come Tina Turner ai tempi d'oro e il tutto è perfettamente addomesticato dal drumming ancora preciso e potente di Dennis Thompson.

I classici vengono riproposti quasi tutti (con mia grande gioia in scaletta sono presenti anche canzoni tratte dal terzo ed ultimo album della band, "High Time") inframezzati dai purtroppo patetici proclami di Wayne Kramer, come a volersi ricondurre agli ideali portati avanti ormai quasi quarant'anni fa dalle White Panthers, di cui la band faceva parte sotto l'egida di John Sinclair: "Brother Rob qua... brother Fred là... Rama tu, Rama lei e Fa Fa quell'altro in fondo, 'cause if we got the unity we got the power... Vietnam-Iraq... Nixon-Bush bla bla bla"... Vaffanculo fratello Wayne, lo sappiamo già che i politici americani sono le più teste di cazzo al mondo, suona la chitarra e non rompere i coglioni che si vede benissimo che non ci credi neanche tu.
Finale d'ordinanza con "Kick Out The Jams", un paio di bis e Manitoba che da perfetto animatore da spiaggia si piazza in mezzo al pubblico e fa accovacciare tutti quanti mentre ci racconta di una tipa che ha incontrato in pizzeria e poi si è scopata nel suo appartamento (??!??).
Da segnalare ancora un assolo dell'ex Gunner, che con tutta la buona volontà impiegata fa solo sorridere dopo aver ascoltato per un'ora e passa Wayne Kramer. Fine!
SweetMauro

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