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Photo by Rob'N'Roll
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R’N’R Damnation (Decadenza + Krys)
Jailbreak, Roma
– 29 Febbraio 2004
Domenica 29 Febbraio
si è inaugurata presso il Jailbreak di Roma,
la prima serata del R’N’R Damnation,
ossia un movimento che cerca di far crescere il
movimento r’n’r nella nostra bigotta
penisola…Purtroppo l’abuso di matita
nera, di lacca, di lustrini e quant’altro
che ci aspettavamo non si è verificato, molti
“personaggi” che di solito sgattaiolano
dalle loro tane per eventi più blasonati
non si sono visti, ma si sa “it’s a
long way to the top (if you wanna r’n’r)…
La prima serata ha visto alternarsi sul palco due
band romane, i Krys e i Decadenza…
KRYS:
Ho conosciuto questa band negli ultimi scampoli
del 2003 e fin da subito l’ho amata per via
del song writing delicato e vellutato, per la loro
capacità compositiva così dannatamente
nordica, per la loro decadenza tipica di band quali
Dogs D’Amour, Quireboys
o Dogtown Balladers e quindi la
curiosità di vederli dal vivo era davvero
tanta… La band decide di aprire la propria
esibizione con “Every Single Day”, un
brano nuovo presumo, perché assente nel loro
splendido debut “Hope And Tears”, ma
che lascia subito trasparire come il suono della
band, dal vivo, sia molto più robusto ed
energico rispetto a quanto proposto su cd.
Un buon inizio non c’è
che dire, ma è con “Queen Of The West”,
“A Letter To Hel( l )sinky, brano dedicato
ad alcune band che hanno influenzato le radici della
band, e con la splendida “Take Me Away”
che i nostri conquistano il pubblico, tre autentiche
perle di pura rock intimista, tre spaccati di paesaggi
desolati, calda come un deserto “Queen Of
The West”, fredda e tagliente come la notte
svedese “A Letter To…”, un canto
dell’anima “Take Me Away”. Si
prosegue con “Killer Clown”, “Sly
Girl”, “Day By day” e “I
Love You” (tutte estratte dal debut sopra
citato) inframezzate da una manciata di nuovi brani
tra le quali spicca la “Misfitiana”,
almeno per quanto riguarda l’horror attitude,
“Halloween Town”e “Trick or Treat”.
Non mi ha convinto per nulla invece “Not Time
To You”, brano interpretato dal bassista Nasty,
la cui timbrica vocale, eccessivamente sporca e
rabbiosa, non si adatta per nulla alle sonorità
della band, limite che ho riscontrato anche nei
cori delle altre song… Nel complesso una buona
esibizione davvero, una band che col tempo può
solo crescere…
DECADENZA:
A distanza di qualche mese dalla loro ultima esibizione
all’interno della serata “No Slapper”
ho di nuovo il piacere di assistere ad una performance
di questi “Dandy Of Vice” romani e quanto
visto ieri sera conferma il fiume di belle parole
spese in passato per descrivere questa band, ormai
perfettamente a suo agio con una chitarra in più,
che come già detto in altre occasioni, dona
maggior spessore e corposità ai brani, già
eccellenti di per sé…La band si presenta
al pubblico con un paio di brani nuovi, estratti
dal loro imminente Ep, “Fame Di Rumore”
e “Ego” che denotano uno spessore compositivo
notevolissimo, una spanna sopra alle composizioni
medie della nostra triste penisola; brani nuovi
dicevamo, ma che dopo poche note sembrano già
dei classici della band, perfettamente arrangiati,
maledettamente taglienti, morbosamente veri. Un
tuffo nel passato buio e cupo della band con “Anime”,
“Specchio” (splendida power ballad)
e “Giudy” (se vi siete mai chiesti che
suono abbia l’eroina, questa song risponde
al vostro interrogativo) inframezzate dalla nuova
e maestosamente decadente “Polvere Di Lei”
, brano sanguigno, dolce come l’aroma del
miele selvaggio, rassicurante come il sorriso di
sua maestà lucifero, poesia vera…”Brucia
lento in me, il demone di un folle che senza un
rumore mi ha privato della tua bocca, amante del
peccato”!!! “No Hey Banda”, altro
brano nuovo, altra cronaca di un successo annunciato,
ma che la band aveva eseguito in maniera migliore
in altre performance, ma questo non sminuisce il
valore di questa song dal dubbio valore morale,
una song dall’indubbio disprezzo per l’ipocrisia.
“Punto Di Non
Ritorno”, “Hey Man” e la vecchia
“Maelstrom” sono tra i brani migliori
della serata, quelli che incarnano in pieno il nuovo
spirito dei Decadenza, sempre in bilico tra quelle
ritmiche pompose e potenti, che hanno nei Backyard
Babies e i Turbonegro
i loro maestri, e melodie/armonie magiche, sorprendenti,
a metà tra strada tra incubo e sogno, tra
cielo e inferno tanto care ai “Partners In
Crime” Prima di lasciare il palco la band
ci delizia con tre cover che fanno ormai parte del
bagaglio genetico dei vari membri: si comincia con
“Degenerated”, già portata in
auge dal film “Airheads” e da quel gran
gruppo che erano i D Generation,
“Riot Act” sulla quale non vale la pena
spendere parole, interpretarla non è cosa
per tutti, c’è chi può e chi
non può Killo (im)modestamente può!!!
Si conclude con “Whole Lotta Rosie”,
se il Jonna non suona un pezzo degli AC/DC
ad ogni sua performance si sente male,
lo dovete capire ;). Quella di ieri sera è
stata l’ennesima grande prova di una band
fottutamente narcisista, egocentrica, superba, strafottente,
arrogante, menefreghista, lontana da ogni trend
imperante, scevra da compromessi o facili soluzioni,
una grande prova di una grande band che ha “Fame
Di Rumore”!!! Support them or die!!!
Se nella scaletta fosse
stata inserita anche “La Mia Strada”
(correte a scaricarla su
www.decadenza.com) la serata sarebbe stata perfetta,
ma è solo un mio cruccio.
Concludo questo report nella speranza di poter recensire
altri mille di questo R’N’R DAMNATION…
Infine un ringrazimento al Jailbreak che ha fatto
in modo che tutto ciò avesse luogo, a Moreno
e a Slam Magazine (www.slamrocks.com la bibbia del
r’n’r) per la loro collaborazione.
King Of Outlaw
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Photo by Simone Piva
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DARKNESS + WiLDHEARTS
Alcatraz, Milano
– 23 Febbraio 2004
Buonasera,
e benvenuti all’ennesima puntata della rubrica
“pacino vs. la lingua italiana”.
Questa volta parlerò del concerto dei Darkness
e dei Wildhearts, come i più accorti di voi
avranno desunto dal titolo riportato cinque righe
fa, in una specie di parodia di recensione che neanche
No Respect si azzarderebbe e che a conti fatti solo
Brum! –la cui credibilità ormai è
sottoterra- avrà il coraggio di pubblicare.
E’ stata l’occasione
per me di espandere altri concetti di conoscenza,
interazione e analisi dell’es. Un concerto
mistificante ed erogeno. Il trionfo del pene come
simbolo di ribellione, nonché l’occasione
di fare un po’ di analisi socio-relazionali
ma uber alles di farmi i cazzi degli altri in maniera
piuttosto molesta.
Affronterò quindi
questa patetica imitazione di recensione analizzando
lo spettro psico-sociologico dei due personaggioni
principiali coinvolti nell’ambaradan milanese:
Ginger e Justin Hawkins. Vi prego di considerare
quanto scrivo qui di seguito come l’equivalente
letterario dello schiacciarsi un puntazzo nero,
chè in me non vi è nessuna velleità
pascoliana, so to speak.
Partiamo dalla band
di apertura, i Wildhearts,
che en passant sono la mia prima, seconda e terza
band preferita; ma siccome l’incoerenza è
femmina, è stata pure la prima volta che
li ho visti dal vivo in tutta la mia vita, yo! E
ne sono rimasto sconvolto, al punto che oggi mi
trovo a invocare la morte perché tanto, come
cantava quel tale che ha venduto più dischi
di me, “life can’t get better than this”.
Essere Ginger, su scala
assoluta, dev’essere un incubo. Intendo, essere
un genio assoluto, incidere mezzo miliardo di canzoni
tutti praticamente masterpiece ed essere comunque
confinati ai confini del music biz che conta dev’essere
un affanno non da poco. Trovarsi di spalla, dopo
poco più di quattordici mesi, alla band alla
quale hai praticamente offerto il break, deve far
girare un poco i maròni. Uber alles, per
scrivere i testi che scrive lui bisogna avere dei
demoni dentro mica da ridere, e perfino la mia minianalista
è rimasta impressionata dalla circonlocuzioni
cerebrali assolutamente atipiche del genio-ginger,
sentenziando che –con ogni probabilità-
la sua sindrome cocco-banana è più
fuori controllo della mia. E per subire un orrido
castigo come il trovarsi a girare in lungo e in
largo per un Alcatraz strapieno venendo cagati zero
se non da me e dal Piuitz bisogna essere stati minimo
il Dottor Mengele, nella vita precedente.
Insomma, la vita è ingiusta, il destino è
bastardo ed essere Ginger è una bella responsabilità
e una discreta rottura di coglioni.
La formazione con cui
si presenta è quella classica, con l’eccezione
dello Zio Fester al basso, il cui BC Rich Warlock
ha comunque risvegliato il defender che è
in me. Ginger ha sempre i dreadlock, CJ è
sempre un invito all’omosessualità
da quanto è bello, e Stidi spacca il culo
punto.
La scaletta è assurda, molti dei fan dei
Wildhearts presenti hanno avuto da ridire, ma visto
che come al solito c’era chi li ha booati
dall’inizio alla fine io mi sono tenuto bello
stretto la mia erezione e mi sono goduto oltre alle
hit classiche “I wanna go where the people
go”, “Greetings from Shitsville”,
i singoli più recenti come “Vanilla
Radio” e “Top of the World” anche
pezzi che maaai avrei pensato di poter sentire come
“Beatiful Thing You”, “Jonesing
for Jones” e addirittura roba tipo “Girlfriend’s
Clothes”. Gente entusiasta = 3% dei presenti,
ma erano davvero fuori di testa e con le lacrime
agli occhi.
Confido, con la fede che ho ritrovato nelle ultime
due settimane, nella giustizia celeste e di conseguenza
resto convinto che la volta che Ginger si laverà
i capelli giustizia verrà fatta e avremo
i Wildhearts primi in classifica dagli appennini
alle ande, CJ nudo su playgirl, Ginger ospite al
Maurizio Costanzo e Stidi nelle mani di un bravo
oculista.
Al contrario, dal punto
di vista di un poser wannabe qual io sono essere
Justin Hawkins dev’essere una figata, di sti
tempi. Tutti ti vogliono bene, tutti ti comperano
i dischi, i true rockerz così come i tredicenni
ti amano e ti rispettano e ti puoi divertire a pigliare
per il culo il tuo pubblico facendogli cantare ritornelli
che anche Mina avrebbe problemi a, uhm, interpretare.
I falsetti strozzati delle dozzine di dozzine di
paganti presenti all’Alcatraz, per quanto
mi riguarda, sono stati il momento più alto
della serata.
Essere Justin Hawkins
è davvero meraviglioso anche dal punto di
vista di un ometto in crisi esistenziale e in analisi
da ormai tre anni e mezzo: hai trovato il tuo posto
nel mondo, e per il prossimo lasso di tempo (che
sia un quarto d’ora o un quarto di secolo,
chissenefutt) qualsiasi cosa tu decida di fare sarà
cool, ti metti i vestiti smessi di Kevin
DuBrow dal tour di “Metal Health”
e tutti dicono: “figo”, ti metti i calzini
corti bianchi e tutti dicono: “figo”,
insomma, un’esperienza liberatoria, catartica,
elevatrice e appagante, più ancora del farsi
i pompini da soli, azzarderei.
Dovendo per forza
parlare del concerto, mi limito a tre righe: i Darkness
hanno stiracchiato
il loro unico, meraviglioso disco per un’ora
e un quarto (della serie: intro infinita, versioni
dei pezzi da nove minuti e blablablà), giocato
col pubblico, falsettato, sfoggiato chitarre da
sincope immediata, dato lezione di stile a chiunque.
Mi son piaciuti da morire. Ma dovendo essere completamente
onesto, ero talmente rintronato dall’aver
abbracciato Ginger e dal potermi conseguentemente
vantare di avere un po’ dei suoi acari sulla
mia giacca che il concerto mi è arrivato,
come dire, un po’ ovattato. Ma tanto lo sapete
tutti che i Darkness sono meravigliosi, non è
che adesso devo venire io a scrivere “i Darkness
sono meravigliosi” per farvi commentare cose
del tipo “ma dai, non me n’ero accorto,
ziocan”.
Pacino
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Photo by Cristina Massei
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BACKYARD BABIES
100 Club, London,
UK – 16 Gennaio 2004
Fresca la notizia del
forfait ai Wildhearts, accingiamoci dunque a recensire
quello che sembra destinato a rimanere il mio unico
concerto dei Backyard Babies post Stockholm Syndrome.
Eh si che quello che ci troviamo di fronte tutto
e’ meno che un tipico gig a supporto di un
nuovo album.
E’ un tranquillo venerdi invernale a Londra,
quando io e un nutrito contingente veneto ci incontriamo
a Oxford Circus per assistere a quello che puo’
essere visto solo e soltanto come un omaggio ad
una fan base straordinariamente fedele, rispettata
e senza dubbio alcuno strameritata.
Il luogo del delitto
e’ il minuscolo e inusuale 100 Club su Oxford
Street, con una crew chiaramente poco avvezza ai
deliri del rock’n’roll, che ci lascia
ben due volte entrare indisturbate in sala durante
il soundcheck. Il gig e’ ovviamente sold out
da un pezzo, ma, grazie alla infinita gentilezza
di Nicke, io e la Barbara ci troviamo con un sospiro
di sollievo i nomi sulla guest, e finalmente siamo
dentro. Un occhio al merchandise, poi si mollano
i cappotti gratis dietro al bar, insomma, tutto
molto insolito e familiare, quasi un grosso party
tra amici di vecchia data. E come ci si aspetterebbe
infatti da una “old time reunion”, i
Backyard Babies sono qui per ricordare con noi i
tempi passati e festeggiare una carriera fatta di
note, emozioni ma soprattutto di questa gente, che
caldamente si riversa sotto il piccolo palco dell’intimo
venue londinese.
“Look at you”
apre le danze e i cori, inizia la festa, con Nicke,
Dregen e compagni manifestatamente appagati e gioiosi
di tanta partecipazione. Il pubblico risponde con
entusiasmo, grida e qualche livido-ricordo guadagnato
nella ressa delle prime file. E idealmente li incorona
al seguente “Earn the crown”, mentre
in un’orgia di rock’n’roll e birra
inglese i nostri snocciolano pressoche’ tutte
le perle che li hanno portati fin qui. E invece
di commentare, sai che faccio? Ve le snocciolo anch’io,
una per una e vi lascio sognare… Una dopo
l’altra si rincorrono “Payback”,
“Heaven”, “Powderhead”,
“A song for the outcast”, “The
Clash”, “My Demonic Side”, “One
Sound”, “Say when”, “U.F.O.
Romeo”, “Year by year”, “Highlights”,
“Star war”, “Minus Celsius”,
“Brand New Hate”… E se ne vanno…
No, scherzavano! C’e’ ancora “Everybody
ready?!?” intrisa di energia e copioso sudore,
“Made me Madman” e “Bombed”
che chiude in bellezza un’esibizione semplicemente
unica. Ora contate. Quanti concerti potete dire
di aver visto con nientemeno che 19 pezzi?? Piu’
che un gig un regalo di Natale, piu’ che un
regalo di Natale un “grazie” con tutto
il cuore e l’anima, che guadagna ai Backyard
Babies il mio massimo rispetto.
Seppure direi tutti
i presenti potrebbero ben essere contenti cosi,
la band non si risparmia foto, autografi e bagni
di pubblico nel dopo concerto. E rimessi insieme
i pezzi la festa prosegue al Borderline, dove un
disponibilissimo Nicke cammina verso di noi e viene
ad assicurarsi che lo show ci sia piaciuto! Nicke,
dobbiamo davvero rispondere? Musicalmente e umanamente,
ci sono alcune serate speciali che per me ridanno
un senso al rock’n’roll… Serate
come questa all’100 Club. Grazie ragazzi!
Cristina Massei
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Photo by Barbara Caserta
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THE LAST BANDIT
Indian’s Saloon
– Bresso (Mi) 24-01-2004
One Night Only…
così recitava il volantino di presentazione
di questo show, attesissimo dal sottoscritto (ma
non solo…) da quando avevo avuto sentore che
prima o poi i banditi sarebbero tornati sul palco
per uno show d’addio al proprio pubblico.
Brevemente ricordo che la band è da considerarsi
in assoluto una delle migliori che la nostra scena
abbia mai avuto, dando vita ad un bellissimo demo
(“Vicious”) ed a una serie di infuocati
live – shows in tutto il centro - nord culminati
con il supporto fatto ai Dogs d’Amour
nella leggendaria data del 7 dicembre 1990,
show in cui molti si ricorderanno di 45 minuti alla
grande del quartetto milanese.
La band si sciolse definitivamente, dopo un paio
di cambi di nome, più o meno alla metà
degli anni ’90, lasciando un grande rammarico
per quello che avrebbe potuto essere la loro carriera
se solo non si fossero trovati in un paese privo
di tradizioni musicali degne di tale nome.
L’occasione per
questa reunion era data dal rientro in Italia per
qualche tempo del batterista Luca Del Giacco, ormai
definitivamente trasferitosi per motivi di lavoro
negli States, e mi piace pensare che un altro motivo
possa essere stata l’insistenza di chi, come
il sottoscritto, non ha mai smesso di sperare in
una serata come questa.
Non preoccupatevi… non prendo bustarelle per
scrivere queste cose… il mio amore sviscerato
per la band nasce dal fatto che nessuno come loro
aveva canzoni che avrebbero potuto benissimo competere
con qualsiasi prodotto proveniente in quegli anni
da fuori, e se pensate che stiamo parlando di fine
anni ’80 – primi ’90 potrete capire
a che livello si attestavano i quattro rockers meneghini.
Comunque… il grande momento di rivedere i
ragazzi (…) on stage è arrivato e la
location dell’Indian’s Saloon è
ottimale per godersi una grande serata di rock’n’roll,
ed in effetti la molta gente accorsa per la serata
non andrà via delusa.
Pochi minuti prima di
salire sul palco è tangibile il nervosismo
dei quattro che d’altronde non si ritrovano
sullo stesso palco da parecchio e probabilmente
temono un po’ di ruggine.
Bastano invece pochi minuti per rendersi conto che
nulla è cambiato, la magia è la stessa
di una volta e i primi due pezzi, “House Of
Susy B” e “Don’t Change My Blues”,
entrambi estratti dal demo sopra citato, ci consegnano
una band vitale come non mai e pienamente a proprio
agio sullo stage. L’accoglienza del pubblico
(ormai l’Indians è bello pieno) è
calorosa, ad un certo punto mi sembra di essere
tornato indietro di 10 anni… riconosco alcune
facce che anni addietro popolavano la scena e che
per un motivo o per l’altro non avevo più
rivisto.
“ il prossimo pezzo è abbastanza anacronistico…”,
così Rudy introduce “Young Rebels”,
in assoluto uno dei miei pezzi preferiti, e a seguire
arriva “Down”, uno dei pezzi rimasti
nel cassetto e soltanto da poco raccolti in un demo
dal titolo “Dreams Come Tru”e, peraltro
recensito da Moreno proprio su questo portale. Un
grande lavoro di Sergio alla chitarra, unico dei
4 ad essere rimasto nel giro con bands come
Kissexy, Badlands e
Rattles, introduce “Ratte My Snake”,
brano che i nostri non eseguivano da tempo immemore
e che sarà uno dei più apprezzati
della serata.
Altro punto altissimo
dello show l’esecuzione di “Down to
My Home”, splendida ballad con la partecipazione
di Silvia alla voce… e francamente non mi
sembra di essere stato l’unico ad avere un
groppo in gola durante questo pezzo..
Ma siccome lo show è principalmente una festa
allora via con qualche cover di quelle giuste, “Taxi
Driver”, “Drunk Like Me”, “Battleship
Chains” (con special guest Lelo dei MISS
alla chitarra ) e “Jumpin’
Jack Flash”.
Ci avviamo verso la fine dello show, ma a tenere
banco sono ancora altri pezzi targati Last Bandit
, come “Smalltown”, “Jesus Love
the Bandit” e l’incendiaria “Love”,
con un Rena (basso) davvero scatenato..
“Travellin’ Band” chiude lo show,
ma la gente vuole ancora r’n’r e per
cui il finale è affidato a due cover da sempre
presenti nei loro show, “Sweet Home Alabama”
(grazie ragazzi..!) e “Great Balls of Fire”
che chiude davvero alla grande una serata da ricordare.
Che dire… i sentimenti alla fine di questo
show sono contrastanti… da una parte la gioia
di avere potuto ancora una volta godere della musica
dei banditi… dall’altra il solito rammarico
per quello che avrebbe potuto essere e invece…
Grazie di cuore comunque
a Rudy (la più bella voce che io abbia mai
sentito in Italia), Sergio, Rena e Luca (il batterista
più r’n’r che io conosca…)
per averci regalato una serata come questa…
un vero peccato che quasi tutti i componenti della
cosiddetta “scena” italiana se la siano
persa… io dico che c’è sempre
qualcosa da imparare… e stasera avrebbero
imparato molto… anyway…
“Jesus Love the Bandits”... e non solo
lui....
Federico Martinelli
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RASMUS
31 Gennaio - GUALTIERI (RE)
TEMPO ROCK
Sono le 17.40 e sono
già arrivata al Tempo. Il locale mi sembra
minuscolo per un concerto simile!
Comunque, incontro subito il direttore artistico
che mi da le direttive su dove posizionarmi durante
lo show e già noto la disorganizzazione totale...
(ormai c'ho fatto l'abitudine.. LOL)
Dopo pochi minuti la band inizia il soundcheck e
devo dire che rimango piacevolmente sorpresa dal
suono, è ottimo, malgrado mi avessero parlato
non proprio divinamente di questi ragazzi, in ambito
live.
Un'altra sorpresa è scoprire che Lauri, il
cantante, è una specie di puffo! E' già
addobbato con il suo trucco e le sue piume in testa
e inizia a canticchiare con una voce che mi da quasi
un senso di tenerezza... Premetto che ho una passione
per le voci "infantili" e il nostro piccolo
finlandese colpisce proprio nel segno.
Resto ad aspettare fino alle 21 in un angolino,
terrorizzata dalle ragazzine urlanti (ad un concerto
death metal ho meno paura) ed ecco che salgono sul
palco i Negramaro, devo essere sincera ma non li
conoscevo, non apprezzando moltissimo il genere
che definisco "musica italiana per depressi",
comunque buona esibizione a parte la voce lagnosa
del cantante.
40 minuti dopo si spengono
le luci, parte l'intro di "funeral song"
e seguiti da un boato allucinante arrivano i The
Rasmus. Partono con "First day of my life",
prima track dell'ultimo album e il pubblico è
davvero in delirio, bandiere della Finlandia innalzate
e cartelloni con frasi d'amore in suomi che fanno
sorridere il corvetto Lauri.
La band è al massimo, Lauri è in grandissima
forma e anche a livello coreografico riesce a caricare
ancora di più il pubblico.
Segue "Guilty" e da lì iniziano
le mie liti con la sicurezza perchè obbligava
i fotografi a stare seduti per terra (ma dove si
è mai visto!?)
Le canzoni dei primi album "Peep" e "Playbos"
riscuotono successo alla pari di quelle di "Dead
letters" e su "Not like the other girls"
devo ammettere che ho trattenuto la lacrimuccia.
Ed ecco arrivare "In the shadows", guardo
verso la pista e penso a quanto sono fortunata a
non essere in mezzo a quel macello! Centinaia, forse
migliaia (non sono riuscita a sapere con precisione
quanti erano) di ragazzi con le mani alzate a saltare
ed urlare il ritornello "Ohohohoh".
La band ringrazia, si inchina, e scappa nel backstage
a riposarsi per un minuto.
Tornano sul palco ed
è il momento della bella "funeral song".
Esecuzione che non ho apprezzato particolarmente,
forse per le rullate stile canzone popolare. Anche
qui Lauri ha dimostrato di essere migliorato parecchio
e, a parte qualche piccolissima stecchetta, ci ha
regalato un'ottima performance.
Chiudono con "In my life" e, forse volendo
emulare il loro conterranei Him,
fuggono via in un battibaleno.
Che dire di più, ero partita convinta di
sorbirmi un concerto flop, ed invece mi hanno sorpresa
davvero, e bravi i nostri Smurfy! (traduzione in
finlandese di Puffi)
Ma non è finita, la festa continua al Transilvania
Live di Reggio Emilia, dove Lauri ci ha deliziati
con un dj set insieme all'inossidabile Ice Ferri.
Unica pecca terribile
della serata... la batteria della mia macchina fotografica
si scarica proprio nel momento in cui dovevo fare
la foto con la band... Sarà per la prossima!
Patrizia Cogliati
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Photo by Patrizia Cogliati
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HIM
19 Gennaio - Transilvania
Live - Milano
Finalmente assisto ad
un concerto degli HIM, cosa che per peripezie varie
non ero mai riuscita a fare. Arrivo all’Alcatraz
al pelo per l’inizio del concerto (grazie
al traffico inverecondo del post-lavoro), e trovo
ad accogliermi al centro del locale un simpatico
ricordo di qualche losco figuro che, probabilmente,
ha voluto lasciare memoria dei suoi bagordi pre-serata.
Beh…se il buongiorno si vede dl mattino…
Comunque, cerco di farmi largo tra la folla inneggiante,
impresa che si rivela ben presto troppo ardua.
Apre un quartetto che scopro essere italiano (a
quanto pare nessuno si è preoccupato di far
sapere il nome del suddetto, perciò devo
a malincuore recitare un mea culpa per non essere
in grado di fornire informazioni dettagliate in
merito), che propone un rock-pop non eccezionale
ma godibile. I loro brani mi ricordano un pò
la musica dei Radiohead, senza
l’originalità dei loro primi lavori,
ma (per fortuna) senza nemmeno lo strascicamento
ammorbante da cui sembrano essere stati posseduti
ultimamente. Che dire, niente di svenevole, ma almeno
sono ascoltabili. Sarà che suonano una mezz’ora
scarsa e non ho il tempo di rompermi troppo, ma
alla fine direi che non è un supporto malvagio.
Sicuramente meglio di tante altre bands sconosciute
che tocca di solito sorbolarsi.
Ok, ora la folla straripante
si prepara all’esibizione del quintetto nordico
che si fa attendere per un buon 40 minuti. Mi sfrecciano
davanti due ragazzini con le magliette dei Nirvana
e io mi chiedo dove cacchio sono finita.
Finalmente appaiono Burton, Gas, Mige, Linde e Ville
in ultimo, questa volta senza il cappello calato
sugli occhi, ma con la chioma fluente al vento,
per la gioia della sottoscritta (permettetemi di
dirlo) e dei miliardi di ragazzine presenti. Aprono
con "Soul On Fire" e Ville lancia un urlaccio
che mi fa seriamente riflettere sul fatto di scappare
via a gambe levate. Poi una doppietta "Your
Sweet 666" e "Join Me In Death" così
tanto per gradire, che manda il pubblico in visibilio.
Il gruppo pesca i brani dai vari album con una certa
predilezione per l’ultimo "Love Metal"
e "Razorblade Romance". La platea partecipa
con gran fervore e canta a squarciagola i brani
proposti. Particolarmente intensa l’esecuzione
di "Heartache Every Moment" anche per
l’effetto rievocativo che ha prodotto su di
me, fantastica.
Il buon Ville, sempre
discretamente impalato, continua ad offrire una
performance canora notevole, che lo redime al 100%
dallo scivolone iniziale. Con l’onnipresente
sigaretta tra le dita prosegue con "In Joy
And Sorrow", la sorpresa di "It’s
All Tears (Drown In This Love)", "The
Sacrament", "Poison Girl", "Lose
You Tonight". La versione di "The Funeral
Of Hearts" viene salutata da un boato e all’unisono
il pubblico accompagna l’esecuzione di Ville,
che si concede qualche virtuosismo vocale che non
si può apprezzare su disco. La voce è
ben supportata dalla chitarra di Linde. Accompagnamento
di sole tastiere (a dire il vero non perfette nel
suono) e basso per l’inizio di Pretending
rendono la versione estremamente affascinante. Poi
si prosegue ancora con "Wicked Game",
"Right Here in My Arms", "Buried
Alive By Love", che scatena l’energia
di chi continua a sgomitare per cercare di farsi
largo nella bolgia in cui si è trasformato
il locale, Sweet Pandemonium, pezzo di grande atmosfera
che spezza il ritmo e concede un attimo di pausa.
Un Valo particolarmente chiacchierone introduce
il nuovo singolo di prossima uscita "Solitary
Man", prima dell’ultima tranche di canzoni.
Purtroppo manca all’appello la mia preferita
"Resurrection", aspetto più di
un’ora e mezza e 76 sigarette di Valo, ma
niente di fatto. Pazienza, si chiude con la splendida
"Gone With The Sin". Nel complesso una
buona prova. Certo, non passeranno alla storia per
essere una band coreografica, ma testi e musica
riescono a creare un’atmosfera romantica e
oscura. Peccato che Ville se la tiri un pò
troppo, il che, alla lunga, risulta fastidioso.
Si accendono le luci del locale che illuminano il
pentacolo cuoricioso sullo sfondo del palco. Mi
avvio verso l’uscita dove scorgo il mio vero
idolo della serata: un signore sulla cinquantina
che ha accompagnato al concerto le figlie, cuore
di papà!
Claudia Schiavone
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GOOD CHARLOTTE + Sugarcult+Mest
Brixton Academy, London
– 17 Dicembre 2003
Davvero tutti
odiano i Good Charlotte? Dunque, questo sold out
a Brixton… Un linciaggio organizzato? Temendo
per l’incolumita’ dei quattro californiani,
eccomi apparire sul luogo del presunto imminente
delitto.
Aprono i Mest,
nota band di amici degli headliners, che in verita’
a parte quello difficilmente potrebbero permettersi
una scenografia tanto sontuosa. La guest appearance
di Benji e’ probabilmente l’highlight
dell’esibizione.
Secondo opening act, stavolta di lusso, gli
Sugarcult,
che mandano gia’ in visibilio le ragazzine
presenti. E quando dico ragazzine intendo ragazzine…
Cerco di avvicinare il palco per qualche foto, ma
proprio non reggo: queste poppunkettare in miniatura
hanno un’eta’ media di 11 anni e sfondano
i timpani, in preda probabilmente a quello che di
piu’ vicino a un orgasmo hanno provato in
vita loro.
La band non e’ niente male per il suo genere,
un solare e spensierato poppunk da classifica, senza
troppe pretese ma interpretato con una professionalita’
degna della cornice maestosa del Brixton Academy.
Pezzi come “You’re the one” e
“Pretty girl” rimangono facilmente incastrati
tra le orecchie e il cervello, dove continureranno
a risuonare finche’ qualcosa di piu’
incisivo le sbattera’ fuori, compito decisamente
alla portata dei protagonisti di questa sera.
Finiti gli Sugarcult
la situazione non migliora per i miei timpani, gridolini
acuti e stridenti salutano il telo dei Good
Charlotte che
scende a coprire il palco, ogni movimento dei roadies,
ogni prova strumenti. E finalmente arrivano le 21.30,
tutto e’ pronto, il quartetto californiano
entra in scena accompagnato dalle note di “A
New Beginning” che apre il loro piu’
recente lavoro. E’ delirio.
Fare foto e’ un’utopia, tutte le mani
sono protese verso i quattro, cerco di arrangiarmi
come posso e poi arretro in preda a crisi isteriche
e finalmente inizio a godermi lo spettacolo. Devo
ammetterlo, sono qui un po’ per curiosita’,
un po’ per esplorare nuovi mondi, un po’
perche’ “The Young and the Hopeless”
e’ uno dei miei album preferiti dell’anno,
ma non mi aspetto troppo. I GC appaiono un po’
come la tipica band da MTV, costruita, bei video,
ma in genere e’ dal vivo che artisti come
questi crollano inesorabilmente. Invece attenzione,
mai giudicare dalle apparenze! Questo e’ stato
di sicuro il concerto piu’ sorprendente del
2003 per me, oltre ad entrare di diritto nella mia
top 5 live.
I pezzi vecchi
e nuovi sono tutti estremamente godibili, i suoni
non hanno nulla da invidiare a quelli di un album
prodotto ad arte, anzi pompano le note con overdosi
di energia e voglia di divertirsi. I quattro saltano
mai paghi, il pubblico con loro, e la prima ora
passa come fossero 10 minuti. Tra le perle a inizio
serata una delle mie preferite, “Riot Girl”,
con citazione per i Social Distortion e sberleffo
a Britney e Christina, ma davvero volendo trovare
delle highlights c’e’ l’imbarazzo
della scelta. Un party senza tregua, tra “The
Anthem”, “Wandering” e pezzi piu’
vecchi, come una “powerpoppunkballad”
spensierata, a cui segue “My bloody Valentine”.
In questo momento “tenero con verve”,
il fastidio per le urla da asilo d’infanzia
svanisce di fronte ad un bacio tra tredicenni con
l’acne e gli occhi sognanti; tra le scarpe
da ginnastica e jeans oversize calati su fianchi
inesistenti, le t-shirt rosa confetto dei GC battono
i vari Limp Bizkit, e uniti per
un futuro migliore tutti insieme cantiamo “Girls
& Boys”. Una dedica a Londra, il posto
dove un giorno vorrebbe morire, dice Joel, proponendo
a tutti di ritrovarsi esattamente qui tra 70 anni
e farlo insieme. Saro’ ultracentenaria, affare
fatto. “The day that I die”, “The
young & the hopeless”, non senza un ringraziamento
a quel pubblico senza il quale, stavolta parla Benji,
nessuna radio, tv o giornale si sarebbe mai occupato
di loro.
E attenzione,
anche gli speech sono ritmati dalla chitarra di
Paul. A parte la vera ballad della serata, “Emotionless”,
con i tre in schieramento sgabello e chitarra, questo
show non perde il ritmo per un solo minuto. Pompa
ininterrottamente, non da’ fiato, noia, tempo
per un drink, non c’e’ “skip”
da premere. E’ come correre i cento metri.
So gia’ da meta’ show che non ci sara’
un break con bis a seguire, e’ inspiegabile
ma sai che il ciclone Good Charlotte non puo’
fermarsi al semaforo. E infatti, quando e’
passata un’ora e mezza e lo show e’
vivo esattamente come un’ora fa, Joel comunica
che devono abbandonare il palco. E’ cosi che
va, noi ora dovremmo sparire e voi dovreste gridare
“One more song, one more song”…
Il pubblico grida gia’, perche’ scendere,
perche’ spezzare l’alta tensione che
percorre la sala? “Lifestyle of the rich &
the famous”, singolo dell’anno, da’
l’ultima sferzata di adrenalina. Saltiamo
tutti, anch’io che per l’occasione sfoggio,
ehm, Nike e pantaloni larghi ovviamente calati.
Lascio la sala,
non prima che l’ultima nota si sia spenta
e ogni strumento sia stato lanciato. Davanti a me,
un papa’ punk in pelle e megacresta fucsia,
tiene per mano un bambino rasato a quadretti arancioni
e una bambina con bandana a teschi rosa.
Cristina Massei
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THE DARKNESS + Ted Benson & Young Heart Attack
Brixton Academy, London
- 5/6 Dicembre 2003
Doppio sold out in un
venue a capacita' 4.700, questo malgrado un'estate
di Festivals e 4 concerti da headliners in 3 mesi:
i londinesi sembrano non essere mai sazi dei Darkness,
new sensation britannica che si e' gia' aggiudicata
un doppio platino e svariati awards con il debutto
"Permission to Land", uscito lo scorso
Luglio.
L'attesa dell'evento e' dominata dall'interrogativo
riservato immancabilmente a ogni new sensation:
fu vera gloria? Al palco l'ardua sentenza... Si
tratta dunque dell'ennesimo prodotto "usa e
getta" o dell’icona rock dei prossimi
anni? Stasera gli esaminati nell’Aula di Brixton
sono Justin e Dan Hawkins, Frank Poullain e Ed Graham.
E noi siamo pronti, paletta in mano, a metterli
ai voti senza pieta’.
In fila fuori c'e' una delle folle piu' varie che
mi sia mai capitato di vedere: da ragazzini dodicenni
a coppie sulla cinquantina, da poppettari a metallari
e gotici, stivaloni a zeppa si mischiano a scarpe
da ginnastica, felpe a pvc, mentre i fans "illustri"
vanno dal colosso Brian May all'ex Take That Mark
Owen. Di tutto e di piu', come lo spettacolo a cui
ci accingiamo ad assistere.
La prima support band
di questa sera viene da Austin, Texas, si chiama
Young Heart Attack, e propone una
formazione abbastanza anomala: due lead singers,
un uomo e una donna con due timbri vocali estremamente
differenti, ma che si intrecciano in maniera straordinariamente
gradevole. I YHA si presentano al pubblico londinese
con un pezzo di puro e grezzo rock'n'roll, un sound
che potremmo essere tentati di definire retro' 80
ma che in realta' potrebbe (proprio come i Darkness)
collocarsi in qualsiasi epoca musicale.
I brani che seguono confermano nel songwriting e
nell'esecuzione il talento di questi giovani artisti,
e i gustosi assaggi "Tommy Shots", "Over
and Over" e il singolo uscito in questi giorni
"Misty Rowe" mi mettono l'acquolina in
bocca. Pertanto, segno sulla mia agenda e vi consiglio
l'album di debutto dei Young Heart Attack "Mouthful
of Love" in uscita a Marzo, e passo ai prossimi
in scaletta, tali Ted
Benson.
Personalmente li trovo
fastidiosi alla vista e all'ascolto, ma si sa, "de
gustibus". Look: camionisti vestiti per la
partita di baseball della domenica; tutti con gli
stessi jeans, cappellino e magliettina traforata,
cantante capellone anoressico. Voce: brutta e atrocemente
fastidiosa. Musica: prendete i 10 secondi piu' violenti
dei Rage Against The Machine e
ripetete, ripetete, ripetete. A parte un paio di
pezzi, di cui uno totalmente dissonante col resto
e incentrato sulla solita tastiera ottantiana tornata
fashionable di recente, melodia e chiave maggiore
sembrano latitare. Finali che vanno avanti all'infinito
ripetendo lo stesso motivo, fosse almeno orecchiabile.
Nota di colore: le signorine ponpon dei TB, dal
fisico non proprio invidiabile... Veder agitare
con tale disinvoltura un beer belly e un sedere
simile sul palco del Brixton Academy avra' avuto
senz'altro degli effetti notevoli sul morale delle
femmine presenti e sulle vendite dei bar interni.
Le avra' imposte la Carling?
E finalmente fu il silenzio… Un telo nero
cala davanti al palco per la preparazione delle
scenografie di questo pluridecorato main act; il
pubblico sbircia, rumoreggia, e quando si spengono
le luci in platea 4700 voci si alzano in un grido
unico: signori, bambini, curiosi… ecco a voi
i Darkness.
Ed e’ gia’ chiaro dall’ingresso
sicuro di Justin, dalle prime note del B-side “Bareback”,
dalla reazione uniforme della folla che l’attesa
e’ finita. Stavolta non e’ il solito
falso allarme: l’Inghilterra, all’eterna
errante ricerca della “next big thing”,
ha finalmente qualcuno da coronare, e per gli stranieri
scettici dopo tanti “al lupo al lupo”
non rimane che prenotare i biglietti. Lo show abbia
inizio, e’ “Black Shuck”, rockeggiante
apertura da stadio, seguita dal singolo che ha per
la prima volta conquistato la massa, “Growing
on me”.
E soffermiamoci subito
su quello che ormai e’ un classico, perche’
“Growing on me” racchiude tutti gli
elementi dell’inimitabile formula Darkness:
c’e’ un pezzo cosi perfettamente catchy
da farti chiedere dove lo hai gia’ sentito
e rendersi inconfondibile allo stesso tempo; c’e’
l’espressione di un’innegabile talento
artistico da parte di ogni singolo componente della
band; c’e’ l’ironia trademark
delle lyrics, che sotto le mentite spoglie di una
canzone d’amore raccontano apparentemente
di un fungo ai genitali.
Ad un pezzo tanto geniale fanno da cornice la teatralita’
del leader Justin Hawkins e delle sue ormai famose
catsuits custom made. Non che Justin sia solo questo,
e non che la sua voce sia solo il falsetto di cui
tanto si parla: va su su su, giu, giu e su ancora,
senza difficolta’ o sbavature, privilegi di
quegli eletti che hanno un vero e proprio strumento
anziche’ comuni corde vocali. E gli altri
musicisti non sono da meno, grazie anche a oltre
tre anni di intensa esperienza, passione e perseveranza.
A ulteriore dimostrazione che dietro a tanto fumo
c’e’ dell’arrosto, la scaletta
di stasera non si limita a proporci pezzi dal pluridecorato
“Permission to Land”, ma sfodera diversi
b-side che poco o niente hanno da invidiare ai piu’
noti numeri uno. “The best of me” (apparso
sull’ormai introvabile singolo “Get
your hands off my woman”) e’ un potenziale
pezzo d’alta classifica che mi ritrovo a canticchiare
dopo un solo ascolto, seguita da “Makin’out”
(da “I believe in a thing called love”).
“Volete una power
ballad?”, chiede Justin, introducendo “Love
is only a feeling”. Segue “Physical
Sex” (altro b-side da “I believe…”),
poi il frontman si rivolge di nuovo al pubblico,
invitato a scegliere tra la versione originale e
quella censurata di “Get your hands off my
woman”, l’unico brano contenente le
parole “muthafucker” e “cunt”
mai entrato in classifica. “Dirty”,
decreta la folla senza dubbi. 4700 persone fanno
del loro meglio per accompagnare il celebre falsetto
justiniano in quello che probabilmente e’
il picco di questa perfetta serata.
“Stuck in a rut”, la nostalgica “Friday
night” e la hit “I believe in a thing
called love” ci accompagnano cantando verso
la fine. Ovviamente Justin torna con gli stessi
compagni e una catsuit differente, proponendoci
per il bis “Givin’Up” e “Love
on the Rocks with No Ice”, mai pubblicato
come singolo ma uno dei preferiti dai fans della
band. Ed e’ in omaggio ai suoi fans che il
cantante si fa sollevare da un omone per continuare
l’assolo di chitarra sfilando tra il pubblico;
e in omaggio a un fan speciale, Brian May,
che li segue a ogni concerto londinese, il motivo
di “Love on the Rocks” si trasforma
in quello di “We will rock you”, con
l’intera Academy che canta e batte le mani
insieme a Hawkins in omaggio al suo dichiarato idolo
Freddy Mercury.
Non e’ finita,
stavolta il nostro esce e rientra vestito da Santa
Claus con un coro di bambini di tutte le razze,
e’ ora di “Christmas Time (don’t
let the bells end)”, IL singolo natalizio
cosi come deve essere. Finisce tra pyros, neve e
coriandoli d’argento la festa per il ritorno
del rock, di cui Justin e Dan Hawkins, Frank Poullain
e Ed Graham si laureano prossime icone a pieni voti.
Che dire ancora? Caro Babbo Natale… Give me
a D! Give me an ARKNESS! Give me the DARKNESS e
1000 serate come questa nel prossimo decennio! God
Bless Rock’n’Roll…
Cristina Massei
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