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Soul Doctor + Black Rose + Burning Black
9
dicembre 2006 - Bologna – Der Kindergarten |
La serata di sabato
9 dicembre si profilava in tono dimesso, già
a seguito dell’annunciato e prevedibile epilogo
della collaborazione tra Bolognarockcity ed il locale
Kindergarten. I Soul Doctor sono gli ultimi “animali
da palcoscenico” che ci è concesso
di ammirare nella gabbia del “Kinder…Zoo”.
I presagi della vigilia trovano purtroppo conferma
nella quasi totale disertazione del locale, che
richiamerà complessivamente non più
di 50 persone, addetti inclusi. L’organizzatore
mi confidava, prima dell’inizio della serata,
un forte senso di delusione per la mancata risposta
alle sue iniziative da parte del pubblico bolognese,
che assommate alla carenza in città di strutture
alternative idonee, verosimilmente porteranno BRC
a spostare il tiro verso altre sedi più recettive
nei confronti di questi eventi. Certo che è
abbastanza paradossale, per un progetto dichiaratamente
nato proprio con l’intento di riportare il
rock che conta a Bologna, doversi ritrovare ad operare
altrove, ma sicuramente finora la città ed
alcuni partners (o presunti tali…) hanno dimostrato
di non saper apprezzare gli sforzi di quello che
al momento è il promoter di concerti più
attivo in Italia nel settore dell’hard rock
melodico, e dunque di non meritare il fortunato
privilegio di vedersi servita letteralmente a casa
la parte alta del “bill” del recente
Firefest inglese…
La serata bolognese
viene aperta dai trevigiani Burning
Black, che propongono un heavy metal
classico in bilico tra Iron Maiden
e Judas Priest, e comunque fortemente
ispirato ai gruppi storici della scena metal degli
anni ’80. I ragazzi ci danno dentro con molta
determinazione, e tecnicamente appaiono ben dotati.
Se le composizioni non brillano per originalità,
la band ha comunque il “tiro” giusto
per coinvolgere lo sparuto pubblico. Impressiona
favorevolmente il vocalist, che nelle tonalità
più acute ricorda da vicino Rob Halford,
ma tutta la band suona bene, ed anche in considerazione
della giovane età media dei componenti, ritengo
che i margini di crescita siano molto ampi. La maturazione
artistica li dovrebbe portare ad esprimere una più
spiccata personalità in fase compositiva.
Avanti così!!!
I trevigiani cedono
la scena ai locali Black
Rose, che nell’occasione presentano
il proprio album “The return of the Black
Rose”, proprio in coincidenza con la data
di uscita ufficiale del prodotto. I musicisti sul
palco si dimostrano più “navigati”
rispetto alla band precedente, e propongono un sound
decisamente più ricercato e d’atmosfera,
che però punta meno sull’impatto sonoro.
Le coordinate musicali sono molto più settantiane,
e si va dai Deep Purple ai primi
Whitesnake. Nei brani più
tirati si potrebbe forse azzardare un accostamento
ai Thin Lizzy. Il cd formerà
oggetto di una più approfondita recensione
nell’apposita rubrica, mentre la prestazione
live è stata probabilmente condizionata da
un pizzico di delusione, nei pur bravi musicisti,
per l’esordio discografico “in sordina”,
considerata la assenza di pubblico, e soprattutto
dall’infelice contesto in cui la band si è
dovuta esibire, incastrata tra gruppi dal sound
molto più aggressivo. Da rivedere…
Finalmente giunge il
momento dei Soul
Doctor. E’ molto tardi e forse
per questo motivo, oltre che per la già evidenziata
scarsa consistenza dell’audience, la scaletta
dei brani viene, a più riprese, drasticamente
decurtata di almeno quattro canzoni, impietosamente
defalcate sui promemoria appoggiati a terra sul
palco. Ed è un vero peccato, perché
la formazione capitanata da Tommy Heart propone
un hard rock di gran presa, grazie all’indiscussa
abilità dello stesso vocalist ed alla perizia
del sorprendente chitarrista Chris Lyne. Per queste
date live, oltretutto, il muro sonoro è alimentato
da un secondo chitarrista, mentre la sezione ritmica
è affidata al nuovo innesto alla batteria
Michael Wolpers ed al simpatico bassista/cowboy
Jogy Rautenberg (ex Skew Siskin), con cui avevo
avuto modo di intrattenermi in conversazione prima
del concerto. Questa esibizione mi aveva dato occasione
nei giorni precedenti di andare rispolverare i lavori
della band tedesca, potendone apprezzare la validità
della proposta musicale, in bilico tra Gotthard,
AC/DC ed, ovviamente, Fair
Warning. La scaletta si riduce ad una dozzina
di pezzi ed è alquanto focalizzata sull’ultimo
album “For a fistful of dollars”. Un
pizzico di delusione per la assenza di “Livin’
the life”, facente parte anche della colonna
sonora del cult movie Rockstar, anche se il pezzo
non figurava nemmeno tra quelli depennati dalla
tracklist originaria. Concerto tutto sommato molto
piacevole, per una band che forse in questi anni
non ha ottenuto un adeguato supporto ad opera della
Frontiers, dalla quale peraltro i Soul Doctor si
sono recentemente staccati per firmare un contratto
con la bavarese Metal Heaven.
Ma in definitiva il
contesto generale, per musicisti, organizzatori
ed anche per i pochi aficionados locali, è
tutt’altro che esaltante… Certo è
che, visto l’impegno profuso, Bologna Rock
City meritava di chiudere l’attività
2006 con un riscontro di pubblico e con prospettive
per il futuro ben diverse…
Alessandro Lilli
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BONFIRE + RAIN + Guests
26
novembre 2006 - Bologna – Der Kindergarten |
Non credo che fossi
il solo a cullare da anni il sogno di vedere dal
vivo i Bonfire. Bolognarockcity, nei cui confronti
non spenderò mai abbastanza elogi per quanto
sta riuscendo a concretizzare in questa città
dopo anni di immobilismo pressochè totale
(megafestivals a parte), è riuscita a regalare
una esaltante serata ai circa 150 presenti del Kindergarten
(invero decisamente pochini, in relazione alla levatura
dell’evento).
Avvio letteralmente con il botto per i rockers tedeschi,
che piazzano in sequenza due outtakes dall’ultimo
studio album “Double X”, vale a dire
“Day 911” e, soprattutto “But
we still rock”, tanto per mettere a tacere
tutti coloro (me incluso), che negli ultimi anni
li avevano ritenuti un po’… “alla
frutta”. L’unico ulteriore brano estratto
dal nuovo album sarà, più avanti,
“Blink of an eye”, mentre il resto dello
show si basa su classici inclusi nei primi tre albums
dei tedeschi e nel più recente “Fuel
to the flames”. In scaletta si susseguono
“Never mind”, “Under blue skies”
ed “Hot to rock”, con Claus Lessmann
molto comunicativo e prodigo di strette di mano
(ad un certo punto scenderà letteralmente
dal palco, salutando i presenti in giro per la sala…).
L’ambiente è
caldissimo, ed il pubblico accoglie entusiasticamente
i brani che si susseguono in scaletta. Per l’occasione
i Bonfire presentano per la prima volta dal vivo
“Tony’s roulette”, estratto dal
fortunato “Point Blank”, quindi “Proud
of my country”, preceduta da un preambolo
contro il nazismo, durante il quale Claus trova
anche modo di infilare un elogio all’Italia
per il recente successo ai Mondiali di Germania.
La suggestiva “Give it a try” e l’assolo
di batteria consentono alla band di tirare un po’
il fiato, prima dell’ arrembaggio finale basato
su “American Nights”, “Sweet obsession”,
“What’s on your mind” e “Hard
on me”. Stranamente manca all’ appello
la più volte invocata “Champion”,
di cui viene giusto offerta una breve reprise durante
la conclusiva “Ready for reaction” (ma
non è che in realtà i ragazzi hanno
ancora sullo stomaco le due “pizze”
di Dortmund???). Altro grande assente è il
primo grosso hit della band “Starin’
eyes”, che sembra essere stato in qualche
modo ripudiato dai Bonfire, come del resto aveva
già dimostrato anche la mancata inclusione,
qualche anno fa, nel doppio autocelebrativo “29
golden bullets”. Senza voler tornare sulla
questione Kindergarten, è significativo segnalare
come lo stesso Claus Lessmann, durante uno dei suoi
monologhi, tenti di sdammatizzare la presenza del
reticolato attorno al palco, liquidando l’argomento
con la frase: “There’s no problem. We’re
here to have some fun. It’ s only rock’
n roll”. Salvo però, in un secondo
tempo, mostrare un dito insanguinato per la ferita
riportata durante una delle acrobazie compiute per
superare l’ostacolo della grata e raggiungere
i fans più defilati …
Gli encores prevedono un tuffo nel passato con la
classica ballad “You make me feel “
e “SDI”, sino a giungere alla conclusiva
“ Bang down the door”.
Il concerto dovrebbe
essere terminato, ma il pubblico in visibilio invoca
la band che, generosamente, si concede per un ulteriore
brano a richiesta (ma nemmeno tanto…), optando
alla fine per “Sweet home Alabama”.
Claus Lessmann addirittura mi affida in consegna
la sigaretta post-concerto che aveva già
pronta nelle mani (e che gli restituirò a
fine brano, anche se il fumo fa male…). Al
tirar delle somme, una esibizione davvero esaltante,
con i Bonfire che hanno dato una bella lustrata
allo scettro di miglior band teutonica, guadagnato
ai bei tempi che furono. Un po’ come accaduto
per i Gotthard, la morale è che non è
necessario essere musicisti tecnicamente mostruosi
(Hans Ziller, alquanto appesantito, svolge diligentemente
il suo ruolo pur tenendosi piuttosto defilato, e
facendosi supportare dal secondo chitarrista Chris
Limburg) Il segreto sta nell’avere un repertorio
di canzoni coinvolgenti al punto giusto, e nel riuscire
a divertirsi nel suonarle, con professionalità,
ma senza forzature o eccessi. It’s only rock’
n roll… Semplice!!! Serata memorabile, che
personalmente ricorderò come il regalo di
Natale da parte di BRC. Grazie di cuore, Emiliano,
e tanti auguri anche a Bolognarockcity!!!
Alessandro Lilli
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WHITE LION + MARKONEE
Sabato
18 novembre 2006 - Bologna – Der Kindergarten |
Dopo una serata memorabile
(ma in senso negativo…) al Kindergarten di
Bologna in occasione della data dei bravi ma sottovalutati
House of Shakira, che mi aveva indotto ad esternare
preoccupati commenti, in merito al locale, all’incolpevole
promoter di Bologna Rock City, quella di sabato
sera era un po’ la prova del fuoco per verificare
l’adeguatezza della venue agli eventi, di
rilevanza nazionale, che l’ ammirevole Emiliano
di BRC si sta sforzando di portare a Bologna…
Purtoppo ho dovuto constatare che un po’ tutti
gli aspetti negativi oggetto delle mie precedenti
perplessità hanno trovato una nuova conferma.
A partire da quell’orribile reticolato stile
gabbia di giardino zoologico che avvolge quasi interamente
il palco, penalizzando fortemente la visuale sia
per il pubblico, sia per chi dovrebbe cercare di
realizzare un report della serata. Come si vede
dalle foto a corredo di questo servizio, la collocazione
di chi scrive non era certo ideale, ed ho visto
fotografi molto più professionali di me finire
per darci su, sconfortati… Confermata poi
l’assurda “tassa” imposta dai
gestori del locale, costituita dal tesseramento
obbligatorio Arci (12 euro oltre al prezzo del biglietto),
che trovo francamente inaccettabile per chi ha raggiunto
Bologna per quest’unica circostanza, e magari
non avrà più occasione di rimettere
piede al Kindergarten né in altri locali
Arci…
Temevo potesse succedere
il finimondo, invece per fortuna il pubblico ha
dato ancora una volta prova di civiltà, alla
faccia dei preconcetti denigratori sui rocchettari…
Inevitabile effetto di questa “schedatura
al botteghino” è stato il dilungarsi
delle operazioni presso la biglietteria, che unitamente
ad alcuni “capricci” da star di Mike
Tramp, ha provocato come conseguenza un eccessivo
ritardo dell’orario di inizio dello spettacolo.
Inizio quindi verso le 22:30 ad opera degli ormai
onnipresenti Markonee,
innanzi ad un pubblico davvero folto (sicuramente
parecchie centinaia di persone). Ennesima conferma
da parte dei bolognesi di essere una delle realtà
emergenti del panorama hard rock nazionale, con
uno show trascinante e molto dinamico, accolto dall’
audience con partecipazione e calore. La scaletta
proposta si basa su una buona metà dei brani
presenti sull’ album “The spirit of
Radio”, che nella dimensione live acquistano
un “tiro” notevole, con l’aggiunta
del tuttora inedito anthem “Markonee”,
di cui si attende con trepidazione l’ uscita
come singolo.
Come nelle precedenti occasioni in cui ho avuto
modo di vederlo onstage, il quintetto bolognese
abbandona il palco collezionando un figurone pressochè
trionfale.
Sono abbondantemente
passate le 23:00 quando la “mane attraction”
(per parafrasare uno dei loro albums) White Lion
si presenta onstage. Mike
Tramp sfoggia un fisico invidiabile
sotto una t-shitr attillata ed un notevole tatuaggio
colorato lungo tutto il braccio sinistro. La tenuta
scenica del frontman danese è buona, ed il
pubblico non si risparmia nell’osannarlo.
Sotto il palco si accalcano fans dotati di sciarpe,
vinili ed addirittura qualche striscione. Ad un
certo punto c’è persino modo di inneggiare
a Mike con un coro da stadio, da lui stesso orchestrato.
Il concerto, fatti salvi gli encores cui lo scrivente
non ha assistito, si è protratto per circa
90 minuti (quindi presumibilmente la durata complessiva
avrà sfiorato le due ore) ed il pubblico
ha mostrato di gradire molto l’ esibizione
dei White Lion. Io personalmente vado controcorrente,
e non nascondo di essere rimasto piuttosto deluso
dalla performance offerta non tanto da Mike, quanto
da alcuni elementi della band di supporto. In particolare
dal chitarrista Jamie Law, il cui paragone col grandissimo
Vito Bratta, tecnicamente lontano anni luce, è
decisamente imbarazzante. Ed a proposito di luce,
c’è da segnalare la scadente resa dell’
impianto in dotazione al Kindergarten, con il tecnico
che scuoteva spesso il capo sconfortato, tanto che
ad un certo punto sono stato testimone dell’intervento
alla consolle delle luci (durante un solo di chitarra)
del bravissimo batterista Troy Patrick Farrell,
molto contrariato dalla pochezza degli spots in
funzione.
Riguardo poi alla setlist
di brani proposti, mi sarei aspettato una sorta
di greatest hits live, che puntasse decisamente
sui brani più celebri e sul disco di maggior
successo della rediviva band, “Pride”.
Invece i White Lion hanno proposto una scaletta
decisamente heavy, attingendo dalla propria produzione
meno nota e risultando, a tratti, noiosi (almeno
per chi scrive) nell’insistere su un genere
che non li rappresenta appieno, salvo piazzare qua
e là qualche pietra miliare su cui si fondò
la propria celebrità di fine anni ‘80.
Nel complesso uno show con più ombre (è
proprio il caso di dirlo…) che luci, ma sostanzialmente
non per demerito dei White Lion. E ciò desta
preoccupazione in prospettiva della imminente data
dei Bonfire. L’augurio è che i partners
di Bologna Rock City si decidano a collaborare per
davvero con il coraggioso Emiliano, dandogli un
supporto logistico all’altezza della situazione,
anziché irrigidirsi su posizioni autolesioniste
che rischiano di affossare, anziché sostenere,
gli ammirevoli sforzi e gli ambiziosi progetti di
BRC.
Alessandro Lilli
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WINGER + MARKONEE + FATAL SMILE
22
ottobre 2006 - Bologna, Nuovo Estragon |
La organizzazione, il giorno antecedente, di una
cerimonia familiare, con sostanzioso afflusso di
parenti (di cui una buona mezza dozzina con doti
naturali di “screamers” alla Miljenko
Matijevic…) ed un picco di compresenze nel
mio appartamento di ben 22 persone, aveva reso quantomai
agognato il momento della gig dei Winger previsto
per la sera di domenica 22 ottobre, anche per il
suo intrinseco significato “liberatorio”…
Liquidata definitivamente la pratica “ricevimento”
appena qualche ora prima dello spettacolo, con un’
ultima corsa in aeroporto per accompagnare alcuni
dei 12 invitati ospitati durante il weekend, mi
sono recato presso il Nuovo Estragon letteralmente
a pezzi…
Il tempo di fare un
po’ di “training autogeno” in
macchina, ascoltando il promo dell’ottimo
cd degli Accomplice di Michael T. Ross, che recensirò
più dettagliatamente nell’apposita
rubrica, ed eccomi finalmente di fronte al palco
per seguire la gig degli openers della serata, gli
svedesi Fatal
Smile. Sarà forse per via
della stanchezza, ma la breve scaletta proposta
scivola via senza destare in me alcuna particolare
impressione… Hard rock abbastanza anonimo,
band molto statica sul palco, un vocalist un tantino
pacchiano, che si presenta onstage in un orribile
gessato da cerimonia (che per fortuna vola via a
metà del primo brano…) quasi a volermi
prendere per i fondelli!!! Lo sparuto pubblico è
abbastanza freddo e forse solo nel finale la band
riesce ad accendere un po’ di entusiasmo.
Classico opening act, che faccio fatica ad immaginare
nelle vesti di potenziale headliner…
Secondi a calcare le
scene sono i beniamini locali Markonee,
che ultimamente stanno facendo parlare molto, e
bene, di sé. I Fatal Smile vengono surclassati
su tutti i fronti, il dinamismo e l’ energia
onstage sono decisamente più marcati, al
punto che al termine della serata la esibizione
dei bolognesi risulterà di gran lunga la
più tirata e spettacolare. In versione live,
i brani dei Markonee acquistano un’ incisività
che non sempre traspare sulle tracce incluse nell’
album “The spirit of Radio”. Ottimo
dunque l’ impatto onstage, anche se continuo
a nutrire qualche riserva sulla resa sonora del
cantato, troppo spesso soffocato dalla restante
strumentazione (cosa che non era invece accaduta
ai Fatal Smile).
Alle 10,30 in punto
si presentano finalmente sul palco gli attesissimi
Winger,
in formazione quasi originale. Manca all’appello
il tastierista Paul Taylor, ma in compenso è
rientrato nei ranghi un sublime Reb Beach, ora supportato
dal secondo chitarrista ritmico John Roth. Winger
si alterna tra basso e tastiere, ed anche se i segni
dell’ età un po’ si notano, Kip
mantiene una buona forma fisica e, soprattutto,
una voce eccellente. Dietro i tamburi c’ è
il solito, stratosferico, Rod Morgestein, un autentico
mostro di bravura. L’impianto luci alquanto
scarno ed una forse eccessiva staticità dei
musicisti sul palco non contribuiscono ad alimentare
il tasso di spettacolarità della performance,
ma per fortuna c’ è la musica, fatta
di tanti classici entrati a far parte della colonna
sonora delle esistenze di molti dei presenti.
La scaletta alterna
nuovi brani (invero forse un po’ troppo “sofisticati”…)
al repertorio storico dei primi due dischi. Alla
fine della esibizione mancherà all’appello
solo l’ invocata “Hungry”. Indiscutibilmente
gran musicisti per un concerto che non delude le
aspettative dei numerosi fans accalcatisi nel frattempo
sotto il palco. Durante gli encores, per lo scrivente
si verificano due curiosi episodi degni di menzione:
prima viene scambiato da Reb Beach per Mario della
Frontiers, cui viene tributata un’ ovazione
su invito dei musicisti… (dubito comunque
che a Mario il malinteso abbia dato fastidio, giacchè
a fine concerto ci abbiamo riso su in un brevissimo
scambio di battute…).
Poi, nel corso della
conclusiva Madeleine, lo scrivente viene invitato
assieme ad altri ad abbandonare la fossa dei fotografi,
presumo per una condotta forse divenuta troppo partecipe
e poco professionale. Ma chi se ne frega, a quel
punto la scheda di memoria della fotocamera era
bella che esaurita, e non rimaneva altro da fare
che godersi lo spettacolo da quella postazione privilegiata…
Dunque poco male… Resta il ricordo di una
bella serata, che conclude degnamente un weekend
particolarmente intenso e carico di emozioni.
Alessandro Lilli
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GOTTHARD + MARKONEE
Domenica
17 dicembre. Nuovo Estragon, Bologna |
Dopo la “buca”
rimediata al Venice Rock Festival nell’agosto
dello scorso anno quando i Gotthard disertarono
l’appuntamento (con gran lungimiranza…),
attendevo con una certa impazienza una nuova opportunità
per vedere finalmente sul palco la band svizzera.
Grazie al mirabile impegno dell’ associazione
Bologna Rock City (www.bolognarockcity.it), che
sta allestendo interessanti iniziative ed una serie
di appuntamenti live nell’ intento di ridare
alla città felsinea la dimensione di importante
crocevia lungo le rotte on tour delle bands più
importanti della scena hard and heavy mondiale,
l’ occasione si è concretizzata domenica
17 settembre presso il nuovo Estragon, struttura
in grado di accogliere qualche migliaio di spettatori.
Invero, forse anche
per colpa di un tempo infame, il pubblico presente
era quantificabile in circa duecento unità,
ma ciò altro non è che lo specchio
dell’annosa ghettizzazione che l’hard
rock ha subito e continua a subire da parte dei
mass media che contano. Il vecchio falso teorema
“rocchettari= brutti e cattivi” continua
a farci considerare paese da terzo mondo anche agli
occhi di una band che nella meno popolosa natia
Svizzera riempie puntualmente piazze e palasport.
Non a caso dal palco Steve Lee, nel suo perfetto
italiano, ad un certo punto si consola commentando
che gli astanti sono “pochi, ma buoni”.
E quale band meglio dei Gotthard, grintosi ma sempre
misurati, simpatici sul palco ed estemamente positivi
nella loro attitudine musicale, potrebbe riuscire
a schiodare radio e tv nazionali dai soliti preconcetti
riguardo al rock duro?
L’istrionico Steve
Lee, formidabile vocalist dall’enorme carisma
ma sempre garbato e mai scomposto negli atteggiamenti,
l’ allegro Leo Leoni, simpaticissimo nel simularsi
assopito durante un assolo oppure nell’inscenare
una gag con il secondo chitarrista Freddy Scherer
per il possesso di una bottiglia di Jack Daniels,
ed il resto della band, musicalmente impeccabile
ma disarmente nella sua semplice concretezza, dovrebbero
riuscire a convincere chiunque che il buon sano
hard rock non è sottocultura o fenomeno da
demonizzare, quando suonato con tale gusto musicale,
brio, classe e senza (falsi) eccessi o smanie di
protagonismo…
Cosa dire della gig
dei Gotthard? Semplicemente perfetta!!! I Gotthard
“SONO” l’Hard Rock, quello sano,
vitale, divertente, trascinante. Non a caso all
‘estero gli svizzeri godono di un seguito
di pubblico estremamente eterogeneo e non necessariamente
“di settore”. Merito forse anche di
un repertorio ricco di splendide ballate, magari
un tantino “ruffiane” ma che comunque
non scalfiscono l'anima decisamente rock della band.
Davvero bravi tutti i musicisti nel proporre una
scaletta che ricalca quasi integralmente quella
del recente “Made in Switzerland” in
quasi due ore di musica, contraddistinte da due
riapparizioni della band sul palco per concedere
gli agognati encores.
Piccola annotazione
meritano anche gli openers, i locali Markonee, che
hanno proposto un grintoso hard rock legato a doppia
mandata alle sonorità degli anni ’80
in stile USA. Tanta energia, dinamismo e belle canzoni
per musicisti saliti sul palco con l’ attitudine
di chi ambisce a diventare una rockstar. Una determinazione
senz’ altro salutare in una band all’
esordio discografico che, con un manipolo di canzoni
molto accattivanti, merita senz’ altro una
particolare attenzione da parte del pubblico.
Grande serata all’
insegna dell’hard rock di qualità,
cui va dato atto agli organizzatori di Bologna Rock
City. Ed a breve si replica con Winger, Bonfire
ed House of Shakira, oltre a tante altre iniziative
in chiave hard and heavy. Finalmente non toccherà
più “emigrare” all’ estero
per sentirsi… “normali” e godersi
tranquillamente una serata di buona musica sorseggiando
un’ innocua birra… 10 e lode!!!!
Alessandro Lilli
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BACKYARD BABIES + SUPAGROUP + TRASHLIGHT VISION
Venerdì
26 Maggio 2006 - Rainbow Club - Milano |
Odissea rock…
Non è possibile, i concerti a Milano iniziano
troppo presto. Non che il sottoscritto sia una creatura
della notte, ma per arrivare da una parte all’altra
della città – da via Settala zona stazione
Centrale a via Besenzanica Forze Armate –
serve una buona mezz’ora. Il tempo di mangiare
una pizza dello Spizzico, una Coca Cola, una porzione
abbondante di patatine… Dodici o tredici fermate
di metropolitana insomma. Fuori dal Rainbow, nel
parcheggio del mitico Pam – più a meno
– incontro Cristian degli Stinking
Polecats, ci coccoliamo e parliamo dei
bei tempi andati, si stava meglio quando si stava
peggio – I don’t wanna be with a hippie
girl.
Il nostro è un
amore sincero, un amore vero, di quelli che durano
negli anni… Dentro il locale fa esageratamente
caldo, ovviamente perdo i Trashlight
Vision che hanno già suonato
all’ora dell’aperitivo e quando incontro
Simone Parato sul palco ci sono i… boh, non
mi ricordo il nome. Hard rock da New Orleans comunque
e io, che sono maledetto, penso all’alluvione
e a quelle tragedie lì. Pubblico variopinto:
glamster di quarta categoria, tipi gotici, qualche
punk rocker, una crew di biker, rasta da parco Sempione…
Ce n’è per tutti i gusti, ma il vincitore
morale è Dario dei Good Ol’
Boys con il suo curioso copricapo, un cappello
di paglia tipo boss di Panama.
Dunque, poco prima che
i Backyard Babies
comincino a suonare, dalle casse esce “Sick
of Drugs” dei Wildhearts.
Immediatamente faccio notare alla mia fidanzata
il fatto che Dregen e amici abbiano ricalcato pari
pari il riff della canzone. E qui potrei iniziare
a parlare dei Backyard Babies che sono un ottimo
gruppo che sapientemente mischia tutte le proprie
influenze: Social Distortion, Dogs
D’Amour, Guns and Roses
e vabbé. I Backyard Babies non sono certo
una band originale, ma se volete un gruppo con mille
idee interessanti cambiate genere musicale, buttatevi
sul jazz o sull’elettronica e lasciate il
rock a noi ignoranti. Prima canzone in scaletta,
almeno credo, “Ghetto you”. Sembra che
la band sia in sala prove, sono smorti e il suono
è moscio.
“Look at you”,
“U.f.o romeo”, “Made me madman”
da “Total 13” – periodo zozzo
glam. “Brand new hate”, “Star
war”, “Heaven 2.9” da “Makin
enemies is good”. Ecco, presente quando poco
fa vi dicevo di “Sick of drugs” dei
Wildhearts? “Heaven 2.9”
appunto. Nicke dice qualcosa sull’Italia,
sullo stare sempre in tour, la nostalgia. Nostalgia,
nostalgia canaglia, cantavano Al Bano e Romina Power.
Ora approfitterò del concerto di questi simpatici
svedesi per recensire anche il loro nuovo album,
“People like…”. Titolo geniale,
copertina orrenda. Il booklet fa cagare (o cacare,
per quelli di Roma), il codice a barre al centro
del libretto non si spiega, le foto fanno schifo
e… Dregen ha lo stesso golfino che aveva a
Milano qualche anno addietro, a torso nudo.
“Cockblocker blues”
è valida, il Metius degli Stp dice che è
bruttissima, che se l’avesse proposta a quelli
che suonano con lui, lo avrebbero mandato a cagare
eccetera, eccetera. Secondo me è un pezzo
senza senso, ma mi piace. Un bel riff, uno stacco
alla Ac/Dc e tante belle cose.
Nicke vuole essere come Mike Ness,
Dregen come Andy McCoy. “Dysfunctional
professional” ha un bellissimo ritornello,
può piacere anche agli amanti dell’oi!
Più becero, ma la strofa… Bé,
la strofa è da Social Distortion.
Idem “Blitzkrieg loveshock” che gasa
non poco il pubblico del Rainbow che chissà
se conosce i Social Distortion.
Ma sì, tutti conoscono i Social Distortion.
Nicke potrebbe togliersi il giubbino prima di iniziare
a suonare, ma aspetta un tot di tempo. Poi rimane
con una camicia d’amianto, nera. Col caldo
che fa avrà le formiche sotto le ascelle.
Sempre meglio le formiche che le anguille sul petto
di Dregen, chiodo a contatto con la pelle nuda,
sai che freschezza e sai che comodità.
Il cappello con la piuma…
Mica sei zingaro tu. Andy McCoy
è sì gitano, tu no. Peder è
un orso barra scimmione. Non ho con me le noccioline,
ma mi sento un po’ come allo zoo comunale
e lo spio di nascosto. Grido aiuto aiuto è
scappato il leone quando con la chitarra acustica
attaccano “Roads”. Dio mio, la chitarra
acustica no. Lasciamola a Mike Ness
per i suoi dischi country, oppure a quelli che suonano
“Knockin on heaven’s door”. Di
questo passo al prossimo tour Nicke si presenta
con la chitarra doppia, tipo Jimmy Page.
“Roads” è bellissima e ricorda
un po’ un’altra canzone dei Backyard
Babies, una che c’è su “Diesel
and power”. Capitolo Johan, bassista. Per
me è un po’ sfigato, il classico tipo
che a scuola veniva preso per il culo, lasciato
in disparte, considerato meno di zero. Immaginate
la scena: foto di gruppo in gita, tutti in posa,
arriva lui e si ficca dietro, tanto per esserci.
Poi giù scoppoloni, mai fatta la lampada
a un compagno di classe? Ora gira il mondo come
Sampei, i suoi ex-amici-nemici saranno impiegati
alle poste svedesi e viva viva il rock and roll.
Johan posa, canta, Backyard Babies al 100%, ma io
so tutto del suo passato e sono contento per lui.
“Mess age”
la canta Dregen. Strofa in stile Warrior
Soul, ritornello accattivante, ottima canzone
ma chissà perché l’hanno scelta
come singolo. Nel finale, anzi – nei bis,
i ragazzi si ricordano di “Stockholm Syndrome”
e sparano “Minus celsius… “People
like, people like, people like us”. Il merchandise
è orrendo, t-shirt scandalose, cappellini
orrendi, spille schifose. Compro una toppa che non
so ancora dove mettere e un sacchetto di plastica,
questo sì davvero figo. Perché le
band, più passano gli anni, più diventano
famose e più producono magliette oscene?
Teschi, nero, sobrietà: questo voglio, non
chiedo tanto. Quindici euro per il cd dei Trashlight
Vision, le tipe al banchetto bestemmiano, potrei
farmi autografare il disco, ma l’unico autografo
che mi sono fatto fare in tutta la mia vita è
quello di Steven Adler –
re dei perdenti.
L’autografo è
da sfigati, poi un cd autografato dai Trashlight
Vision mi sembra davvero eccessivo. Fossero i Take
That almeno. Lester (Landslide
Ladies) sostiene ci sia una festa nei pressi del
chiosco, del furgoncino che vende birre e wuerstel…
C’è effettivamente un po’ di
gente, arriva anche l’orso dei Backyard Babies,
Peder, saluta, si fa due foto, regala sorrisi distesi
ai suoi elettori e ai bambini bon bon. Anche per
stasera è tutto.
I Black Halos sono tutta un’altra
cosa però.
Miguel Basetta
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