GLAM FEST Main Event, Estragon Bologna 3 aprile 2011
Il main event del Glamfest edizione 2011 è forse il più appetitoso appuntamento rivolto ai glamsters e chic rockers nostrani programmato per l’anno corrente da Bologna Rock City. Impegni personali mi consentono di raggiungere la location solo in concomitanza con l’avvento sul palco degli scandinavi Crazy Lixx, dunque non sono in grado di riferire in merito alle performances dei primi tre gruppi italiani in scaletta, ossia Pollution, Deadly tide e Hell in the Club. Ammetto che dagli svedesi mi aspettavo molto di più. Convincono solo a tratti ed hanno un impatto sonoro tutto sommato ordinario, oramai ampiamente alla portata di numerose bands nostrane. La assenza di propria strumentazione, sopperita grazie alla disponibilità delle bands precedenti, nonché la mancanza del fenomenale Vic Zino, approdato da qualche anno alla corte dei lanciatissimi Hardcore Superstar non mi sembrano elementi sufficienti a giustificare una performance che raggiunge a stento, nel suo complesso, la sufficienza.
Archiviati una cinquantina di minuti di festival tutt’altro che memorabili, ecco finalmente la prima vera “chicca”, ossia il controverso androgino Robby Valentine. Il polistrumentista olandese è di quei personaggi che si amano o si odiano, genio puro per alcuni, affetto da sterili manie di grandezza per altri. Di certo non si può dire che proponga un genere musicale scontato o privo di estro, ma a volte le sue soluzioni musicali risultano eccessivamente stravaganti o stucchevoli. Purtroppo su un’oretta di concerto, le rivisitazioni dei primi e più acclamati albums si riducono alle sole “Over and Over again” e “Angel”. Mentre la gran parte del concerto è imperniata su un impianto compositivo strutturato su soluzioni musicali estremamente eclettiche, che appaiono vagamente inquadrabili in un contesto improntato all’hard rock sinfonico e che, seppur nella mia benevola ammirazione verso Robby Valentine, ho trovato un po’ indigesto. Alcuni spunti di più convenzionale A.O.R., comunque dal gusto sopraffino, non bastano a promuovere una performance peraltro adombrata dal pesante sospetto di una base preregistrata non limitata alla sola sezione orchestrale.C’è un attimo in cui il microfono di Robby dà forfait, e per quanto il musicista si scomponga nell’ intento di sistemarlo, dagli altoparlanti continua a fluire il cantato!!! Ancor di più insospettisce, dopo questo episodio, l’ascesa sul palco della corista Maria che, per tutta la seconda parte del concerto, si impegna alacremente e brillantemente a sostenere e a dar colore alle parti vocali. Tentativo di salvare le apparenze con implicita ammissione di colpa??? Il sospetto è forte… Tra le note positive è comunque da segnalare una cover di S.O.S. degli Abba, interpretata dalla ammaliante bassista Liselotte Hegt. Ed inoltre sul piano umano, nel successivo meet & greet, Robby si dimostrerà persona disponibilissima.
Bologna Rock City, per questa edizione del Glamfest, è riuscita a scovare una band di nicchia che, nei bei tempi che furono, suscitò un moderato clamore con un buon album auto titolato: Little Caesar.
Ammetto di essere io stesso rimasto sorpreso dalla calorosa risposta del pubblico nei confronti di una formazione che ritengo davvero misconosciuta, tuttavia c’è da dire che il sound proposto è quell’hard rock boogie dal ritmo sornione che ti sembra di conoscere anche senza aver mai ascoltato prima i brani.
La band di arzilli veterani appare ottimamente rodata e molto professionale, forse sulle ali del rilancio in scena attraverso il cd “Redemption” del 2009, il resto lo fa un impatto sonoro irresistibile e coinvolgente, che decreta l’ inatteso, ma meritato trionfo degli americani, suggellato sulle note della conclusiva cover della celeberrima, “Chain of fools” di Aretha Franklin.
I tempi di performance concessi ai gruppi sono evidentemente dilatati per sopperire alla inopinata defezione dei Wig Wam, che avrei desiderato vedere all’ opera…Ma tant’è: arriviamo al penultimo gruppo in scaletta, che in effetti è un gradito ritorno: i glamsters gallesi Tigertailz. E’ la seconda volta che la band calca le assi dell’ Estragon, dopo una precedente edizione che vide svettare gli Hardcore Superstar. Rispetto a quella circostanza, in cui i gallesi vennerò inevitabilmente offuscati dallo strapotere sonoro di Vic Zino e soci, stavolta la band vanta il felice innesto di un drummer davvero formidabile, Robin Guy, che dà letteralmente la carica agli altri creando un possente tappeto ritmico su cui il frontman Kim Hooker, il chitarrista Jay Pepper (in versione Mago Forrest!!!) e la bassista Sarah Firebrand sono fortemente agevolati nel mettere su una performance molto più brillante ed incisiva rispetto alla precedente.
Prevedibilmente, la scaletta dei brani continua a ruotare attorno a Bezerk, ma stavolta non ci sono concessioni ai sentimentalismi in commemorazione di Pepsi Tate, e Kim si concede sul finale un tentativo di emulazione del suo più illustre sosia Ace Frehley, eseguendo una cover version di “Deuce”. Non male, anche se nell’assolo l’ esecuzione originale rimane una spanna abbondante al di sopra… Nell’ edizione di quest’anno il “colpo a sensazione” di Emiliano Nanni è rappresentato dall’ingaggio di quel che resta dei nuovamente dissolti Ratt, ossia l’illustre vocalist Stephen Pearcy, accompagnato tra gli altri dal drummer storico dei White Lion Greg D’Angelo e dal bassista Mike Duda, ex Wasp..
E’ davvero un peccato che la sparuta presenza di pubblico all’ Estragon (si conteranno all’incirca 300 persone) stia a dimostrare come tanti, troppi rockers italici non abbiano saputo cogliere la forse irripetibile opportunità offera da BRC di vedere eseguiti, per la prima volta in Italia, i classici cavalli di battaglia di una formazione seminale per tutto il movimento dell’hard rock americano degli anni ‘80. Sebbene il lineup originario si riduca al solo frontman, apparso in buona forma, le classiche sonorità dei Ratt sono riprodotte assai fedelmente dai musicisti sul palco, con un plauso particolare per il chitarrista Erik Ferentinos che non ha fatto rimpiangere più di tanto l’assenza del titolare Warren De Martini. Ed è stato autentico, esaltante Ratt n’roll per buoni settantacinque minuti, che mi hanno personalmente lasciato la consapevolezza di aver assistito, considerando le attuali incognite sul futuro della band ufficiale, ad una performance da ritenersi storica, per il suolo italico….
Ma come al solito, tra il pubblico, più che i presenti si sono fatti notare…gli assenti.Se tanto mi dà tanto questo genere di eventi, già divenuti alquanto sporadici negli ultimi dodici mesi, almeno sulla piazza di Bologna, rischiano seriamente di essere definitivamente cancellati dalla programmazione di BRC…spero tanto di sbagliarmi, e come sempre, per quanto mi riguarda, esprimo un attestato di vivo apprezzamento per l’operato ed il coraggio di Emiliano e di tutto lo staff di Bologna Rock City. Never give up, ragazzi! Alessandro Lilli
Sweden Rocks Festival Bologna Sottotetto 2 maggio 2010
Serata davvero memorabile al Sottotetto. La portata dell’evento è data dalla legittima incertezza sul nome degli headliners e sull’ordine di avvicendamento delle bands sul palco:in effetti le tre formazioni in programma sarebbero tutte potenzialmente degne del ruolo di main attraction, e la cosa che impressiona è che il comune Paese di origine, la Svezia, come fucina di talenti hard rock è ben lungi dall’ esaurirsi a questi nomi.Comunque stasera la rappresentativa scandinava mette in campo the H.E.A.T, the Poodles e i Treat, ed è meglio lasciarli vincere a tavolino… Per giocarcela, piuttosto aspettiamo i mondiali… in cui la Svezia è assente!!!
Ad inizio serata si prospettava una equa suddivisione del tempo a disposizione di ciascuna band per la propria performance, nell’ ordine di circa un’ora di concerto ciascuna. Ma un intoppo nel tragitto verso Bologna deve aver scombinato un po’ i programmi, ed a pagarne maggiormente lo scotto sono gli H.E.A.T., primi a salire sul palco per un set limitato a 35 minuti. Ai ragazzi vengono concesse una mezza dozzina di canzoni, e rispetto alla prima volta in cui li sentii suonare al Firefest, ho percepito meno l’esuberanza sul palco del vent’anni (ed il grande talento del cappelluto chitarrista Dave Dalone), mentre ho potuto finalmente apprezzare il formidabile frontman titolare, Kenny Leckremo, dotato di un’ugola notevolissima ma assente a Nottingham per malattia, ed anche un set integralmente basato su composizioni della band, che ha già all’attivo diverse hits (“1.000 miles” su tutte) ed anche un nuovo promettentissimo disco finora uscito solo in Giappone, di cui la band propone il singolo “Beg, beg, beg” subito prima di congedarsi dal pubblico. Performance breve ma intensa, con il solo rammarico di non averli potuti vedere più a lungo all’opera. Questi ragazzi sanno ampiamente il fatto loro, e meritano il successo che stanno riscuotendo, al di là dell’immagine (che comunque li aiuta…)
Dopo il cambio della strumentazione, è la volta dei The Poodles, formazione con tre ottimi albums all’attivo che le hanno meritatamente consentito di assurgere ad un buon grado di notorietà. Al pari degli H.E.A.T., i the Poodles debbono in rilevante misura la propria fama all’esposizione mediatica ottenuta grazie alla partecipazione ad un festival televisivo.
Rispetto però agli H.E.A.T., con i dischi successivi i thePoodles hanno saputo solo mantenere, ma non ulteriormente accrescere, la propria reputazione. Per chi scrive, le più convincenti pubblicazioni della band restano le prime due, e l’aver voluto incentrare il set sul più recente lavoro “The clash of the elements”, sicuramente valido ed intrigante sul piano compositivo, ma meno adatto alla trasposizione live, è forse risultata una scelta non vincente. Per carità, le hits ci sono tutte, da “Streets of Fire” a “Seven Seas” fino alla celeberrima “A night of passion”, ma il grosso dello show non ritengo abbia offerto al pubblico spunti di vera esaltazione: Samuel Jakob emula Steve Lee dei Gotthard, pur senza averne lo stesso carisma, e tiene dignitosamente il palco, aiutandosi scenicamente da svariati cambi d’abito. A livello vocale però non è apparso un fuoriclasse. Il resto della formazione si esprime bene musicalmente, anche se non risulta incisiva e coinvolgente quanto era lecito attendersi, forse anche a causa dei brani proposti. Per quanto mi riguarda, pur senza dichiararmi deluso, è senz’altro la performance meno memorabile della serata.
Headliners sono dunque i mitici Treat, band da culto nei bei tempi che furono che, al contrario delle formazioni che li hanno preceduti, forti di una consistente esposizione mediatica, non hanno invece mai goduto di notorietà a livello individuale, bensì solo in virtù del glorioso moniker, che fu in cima al cartellone anche nella passata edizione del prestigioso Firefest. Avevo già avuto modo di vedere la band all’opera in un recente passato, grazie al gradevolissimo dvd allegato come bonus alla reissue del megaclassico “Scratch and bite”, quindi sapevo cosa attendermi come scaletta. In più i Treat si sono recentemente riaffacciati sul mercato con l’eccellente “Coup de grace”, di cui caldeggio vivamente l’acquisto.Dunque il set di canzoni, ampliato da diversi estratti del nuovo album, risulta decisamente avvincente, nonostante la band mostri visibilmente qualche segno dell’età. I Treat rifuggono atteggiamenti da posers e dimostrano di concentrarsi sul rock’n roll, che interpretano con assoluta naturalezza, ricordandomi nell’attitudine da genuini rockers gli olandesi Vengeance (anche se l’axeman Anders “Gary” Wickstrom risulta un po’ al di sotto delle mie aspettative). Il concerto si protrae per circa 75 minuti ottenendo un coinvolgimento da parte del pubblico assolutamente inaspettato, e sicuramente superiore sia rispetto a H.E.A.T. che ai The Poodles.
L’irruzione sul palco, a fine concerto, dei membri degli H.E.A.T. con aria deferente rispetto agli headliners è la fotografia della serata, con i discepoli che tributano una doverosa attestazione di riconoscenza verso chi, nell’ombra e senza… "conti alla rovescia finali”, ha contribuito a fare la storia di questa musica nel loro Paese. Ed il trionfo dei Treat appare legittimo ed ampiamente meritato. Una grande serata, targata, manco a dirlo, Bolognarockcity! Alessandro Lilli
Roxx Zone Party: Crashdiet, Johnny Burning, Pollution Bologna-Sottotetto 16.4.2010
Assai inopinatamente, la interessantissima serata del Sottotetto patrocinata dalla webzine Roxx Zone è stata pesantemente segnata in negativo da una resa inaccettabile dell’ impianto acustico.
Già con gli openers Pollution, che mi avevano molto favorevolmente impressionato in una loro precedente performance ad Argelato, ad un certo punto ho dovuto desistere, sebbene confermi la validità del loro set di canzoni e la loro buona levatura tecnica.
Ero molto curioso di vedere all’ opera i Johnny Burning, già apprezzati sul cd pubblicato l’anno scorso. La formazione imolese interpreta il suo sleaze rock con molto brio, risultando decisamente convincente. Il set di canzoni è lungo ed articolato, ma anche qui la godibilità della performance è fortemente penalizzata dall’ acustica scadente. Spero di avere presto occasione di apprezzarli più compiutamente. Comunque bravi….
E veniamo finalmente agli headliners, la cui esibizione per lo scrivente rappresenta molto più del sassolino tolto dalla scarpa, dopo averli persi dal vivo un paio di anni orsono a Cervia a causa di un malaugurato intoppo fisico. I Crashdiet evocano in me suggestioni particolarissime, che spaziano dall’esaltazione per la scoperta del loro irresistibile “Rest in sleaze” fino allo sgomento per la notizia del siucidio del compianto Dave Lepard, avvenuto a distanza di pochissimi giorni dal completamento della mia intervista per Slam! al chitarrista Martin Sweet.
Sono note a tutti le vicissitudini attraversate dalla band svedese dopo quel devastante evento, e le difficoltà a risollevarsi dopo il mezzo passo falso di “The unattractive revolution”. Dunque stasera si tratta di un significativo banco di prova per la band, con un buon prodotto, “Generation wild”, freschissimo di stampa, ed un nuovo frontman da presentare alle platee.
Complice anche il generoso spazio concesso ai Johnny Burning, sono oramai le 23,30 quando il quartetto si presenta al cospetto di un pubblico invero meno numeroso rispetto alle mie aspettative (anche se c’è da dire che quella bolognese non è l’unica data italiana dei Crashdiet). L’avvio è affidato ad “Armageddon”, opener del nuovo disco. Una canzone dall’ impatto non particolare, ma che consente comunque di apprezzare le qualità del nuovo innesto Simon Cruz, sicuramente dotato di ottima presenza scenica e buona estensione vocale verso gli acuti. L’impianto di amplificazione continua a rendere in maniera scadente, cosicchè nel complesso i suoni risultano piuttosto impastati.
Bene la sezione ritmica, mente impressionerà negativamente, per l’intera durata del concerto, la quasi totale assenza di validi assoli di chitarra. In effetti proprio Martin Sweet si rivela il tallone d’achille della formazione, forse condizionando persino la durata del set che, seppure articolato su ben 14 brani, raggiunge a stento l’oretta piena, includendoci anche i bis…In definitiva una esibizione che, almeno per quanto mi riguarda, risulta inaspettatamente deludente. Il nuovo materiale, comunque di buona fattura soprattutto in songs come “So Alive”, “Rebel”, “Native nature”, riesce a fare un figurone rispetto ai brani, potenzialmente esplosivi, estratti da “Rest in sleaze”. Quello che sconcerta è la incapacità della band di sprigionare dal vivo la carica che songs come “Riot in everyone”,”Breakin’ the chainz” e “Queen Obscene” avevano su disco. Nel finale, persino la major hit dei Crashdiet, ossia “It’s a miracle”, viene svilita da una opaca interpretazione.E quando ancora attendo finalmente di ascoltare un assolo degno di tale nome, o quantomeno una svisata di chitarra capace di liberare l’adrenalina che dovrebbe scorrere a fiumi sulle note dell’ intero reperorio musicale degli svedesi, mi tocca invece realizzare che, con l’ anthemica “Generation wild” i Crashdiet si stanno definitivamente congedando dal pubblico…
Che dire? Sarà colpa dell’ impianto? Sarà la classica malaugurata serata di scarsa vena? Sarà l’incolmabile vuoto artistico lasciato da Dave? Certo è che, in un ipotetico raffronto con il Glamfest 3 andato in scena alla fine dello scorso anno, Jay Pepper dei Tigertailz passa per un guitarhero (mentre Vic Zino degli Hardcore Superstar lo è per davvero…) Quella volta gli Hardcore Superstar, pur senza avere un repertorio sfavillante quanto quello dei connazionali, seppero esaltare il pubblico, stasera i Crashdiet, con brani oggettivamente da paura, hanno avuto un impatto live molto inferiore alle versioni incise su disco. Insomma, nulla di veramente memorabile, almeno per chi scrive, e quasi una trasposizione al maschile delle Crucified Barbara. Alessandro Lilli
Winger+Markonee+Pollution KeMeMeo-Argelato 21 novembre 2009
Tornano i Winger in Italia per una mini tournee che fa tappa anche al KeMeMeo di Argelato, a promuovere il loro recentissimo quinto disco, Karma. Stavolta non si avverte la sensazione dell’ “evento”, che aleggiava nell’ occasione della apparizione bolognese di un paio di anni fa, quando persino alcuni emissari della loro casa discografica, la Frontiers, salirono da Napoli per presenziare al concerto. Ad ogni modo, però, una esibizione dei Winger è ineluttabilmente sinonimo di altissima qualità.
La serata di Argelato si apre, per quanto mi riguarda, con la performance dei gagliardi Pollution, band già all’opera al momento del mio arrivo. Musicalmente non ravviso nulla di particolarmente innovativo, ma la grinta e la perizia tecnica sfoderate sul palco da questi ragazzi sono tali da indurmi a richiedere un promo del loro mini cd, che conto di recensire a breve.
Openers ufficiali dei Winger, anche nelle prossime date europee che gli americani hanno pianificato, sono i lanciatissimi Markonee, con il nuovo disco oramai in circolazione, e disponibile persino in vinile per i nostalgici dell’analogico. Fare da spalla ad una band forse fin troppo dotata e prestigiosa rappresenterà il definitivo banco di prova per le concrete ambizioni dei Markonee, che potranno finalmente riuscire a farsi apprezzare anche in un contesto internazionale, se solo sapranno tenere dignitosamente testa alla immensa classe e perizia tecnica di un headliner di rango veramente superiore. Per l’intanto, comunque, i Markonee incassano un lusinghiero 85/100 dal recensore del sito australiano di riferimento per tutti i cultori del rock melodico sparsi per il mondo… Non male!
I Winger salgono sul palco qualche minuto prima delle 23, ed eseguono un set prevedibilmente ridotto, data l’ora. Prima della loro esibizione riesco ad avvicinare Reb Beach, rammentandogli come, la volta precedente, avesse rischiato di farmi passare un guaio per…”lesa maestà”, scambiandomi dal palco per un pezzo grosso della Frontiers. Sembra ancora memore di quel singolare episodio, ed annuisce con una fragorosa risata, quindi corre via a prepararsi. Sul palco è l’immenso chitarrista di sempre, ed impressiona la disinvoltura con cui muove le dita sulla tastiera della sua sei corde, producendo valanghe di note come se fosse la cosa più naturale del mondo. L’avvio del concerto è ingannevole, a causa di un apparente decadimento vocale di Kip Winger che in realtà si rivela essere dovuto ad un mero problema iniziale di amplificazione, presto risolto. Chi continua per diversi minuti a smadonnare verso i fonici è il secondo chitarrista John Roth, la cui chitarra ad un certo punto viene azzittita da un fragoroso scoppio. A cose risolte, egli avrà modo di rifarsi con un bell’assolo dalle forti tinte blues, dimostrando, nonostante la propria estrazione musicale piuttosto distante dai canoni usuali, di essersi integrato molto meglio nell’economia della band rispetto alla precedente esibizione bolognese. Rod Morgenstein si dimostra come al solito puntuale ed ipertecnico, e c’è spazio anche per il suo estro in un avvincente assolo di batteria.
Di Kip Winger, detto che ben presto dimostra che le sue qualità vocali sono perfettamente integre, c’è da rilevare che, nelle tre volte in cui ho avuto occasione di vederlo, per lui pare che le lancette girino all’incontrario, dimostrandosi progressivamente ringiovanito anziché invecchiato (complice però anche una tinta per capelli…) Meno loquace che in altre circostanze, si alterna tra basso e tastiere, facendo posto sul palco, nelle tre circostanze in cui si siede alla pianola elettrica per eseguire le varie Miles away, Headed for a heartbreak e Rainbow in the rose, al composto bassista dei Markonee Gigi Frati, che esegue con elegante discrezione il prestigioso incarico potendo, un domani, raccontare ai propri nipotini di aver suonato con i Winger!!! E del resto Kip non è nuovo ad invitare sul palco artisti nostrani, come già accaduto in occasione di una sua sessione acustica al Transylvania di Bologna, in cui invitò Michele Luppi a duettare con lui (a proposito del vocalist italiano, presente anche stasera tra il pubblico, ne approfitto per segnalare lo strepitoso secondo capitolo del suo progetto Los Angeles, assolutamente imperdibile!!!).
Tornando al concerto, i Winger già in apertura propongono un paio di nuovi brani tratti da Karma, che nel corso del concerto verrà ulteriormente celebrato con l’esecuzione dell’ irresistibile opener Deal with the devil. Viene quasi totalmente ignorato Pull, al pari di IV, mentre al di là dei vari assoli il grosso della esibizione non può non attingere dai megaclassici dei primi due dischi, da Easy come, easy go a Can’t get enough, da Seventeen (con la oramai consueta attualizzazione dell’ età della ex adolescente a Thirtyfive, anche se oramai sarebbe in effetti più prossima alla quarantina…) fino alla conclusiva Madaleine. Continuo a non capire perché Kip Winger sembri aver irrevocabilmente escluso dal set la sua prima hit “Hungry”, ma considerando anche le travagliate vicissitudini personali e familiari dell’ artista, suppongo che avrà le sue intime motivazioni, sulle quali preferisco non indagare…
Nel complesso un concerto ottimo ma breve, ad opera di una band superlativa ed in gran forma Alessandro Lilli
SEE YOU IN HEAVEN FEST 15 Novembre 2009 - Soundtrack, Arcene ( Bg )
Prima edizione di questo festival che nelle intenzioni del buon Emiliano di Bologna Rock City dovrebbe diventare un appuntamento fisso nel panorama nazionale, dedicato ogni anno ad un’artista che è passato a miglior vita... quest’anno dedicato a Marcel Jacob, bassista dei Talisman scomparso qualche mese fa.
La location scelta è alle porte di Bergamo, il Soundtrack infatti è una famosa discoteca di qualche anno fa riadattata a locale per la musica dal vivo e che ultimamente si sta facendo conoscere con l’organizzazione di diversi concerti in campo Hard Rock/Metal.
Giunto al locale con buon anticipo, nonostante una serata di nebbia e pioggia, vengo a sapere che gli headliner The Poodles hanno dato forfait causa una perdita di voce del cantante la sera prima in Germania e che mancheranno anche i Dynazty che dei Poodles erano la band di supporto dell’intero tour.
Peccato, due band che avrei visto davvero volentieri, ma stavolta non possiamo certo lamentare la scarsa affidabilità delle organizzazioni in Italia, un imprevisto come questo è semplicemente… sfiga.
Posticipato dunque l’inizio del tutto, fatto che ci consiglia la ricerca di una pizzeria per ingannare l’attesa.
Questo fa si che ci perdiamo il primo gruppo, Kane’d, che mi dicono essere la band di spalla dell’intero tour degli House of Lords, band che vede la presenza di tre sorelle inglesi con mamma e papà al seguito in veste di tour manager.
La prima band che riesco dunque a vedere sono i John Doe, giovane quartetto nostrano che dopo un inizio zoppicante si fa apprezzare con un’energia non indifferente, con una sorta di hard rock con venature punkeggianti e tastiere di ispirazione Bluvertigo..un bel macello insomma.
Dopo di loro è la volta dei Planet Hard che mi convincono decisamente con il loro Class Hard Rock che già avevo avuto modo di apprezzare sul disco d’esordio..menzione particolare per Marco Sivo, cantante di indubbia bravura e per il chitarrista Marco D’Andrea, tecnico e dotato di ottimo gusto.
Sono circa le 21,15 quando sul palco irrompono i Junkyard, per la prima volta in Italia ed all’ultima data di un tour che li ha portati a spasso per l’Europa.
Era dal lontano 2001, da quando avevo avuto occasione di vederli in quel di Los Angeles, che bramavo per poter riassaporare una delle mie band preferite di sempre, e caso ha voluto che l’occasione fosse proprio nella mia provincia…
Davanti a circa un centinaio di spettatori (argomento su cui tornerò dopo) è “Life Sentence” ad aprire le danze e subito si capisce come sarà lo show… incendiario!
Un tarantolato David Roach prende subito possesso dello stage con un’energia che molti sui colleghi con 20 anni di meno si possono solo sognare, mentre il possente Chris Gates comincia a macinare riff su riff che via via ci regalano perle come “All the Time in the World”, “Nowhere to go but Down”, “Killing Time” e una trascinante “Back in the Streets”, uno degli highlights della serata.
Quando poi le influenze southern della band vengono fuori è il momento di “Simple Man” e della toccante “Slippin’ Away”, per chi scrive una delle ballad migliori di sempre.
La band è chiaramente rilassata, questa è l’ultima data del tour e per cui c’è anche tempo per una Misery Loves Company” che a detta dello stesso Gates “è circa 20 anni che non suoniamo.”
Ci si avvia verso la fine e i fuochi d’artificio si chiamano “Blooze”,“Texas” e “Hollywood”, un tris d’assi che stenderebbe un toro ma… non è ancora finita perché il punto esclamativo arriva con una terremotante versione di “Ace of Spades” di cui lo zio Lemmy sarebbe stato più che fiero.
Passano cinque minuti e tutta la band è già disponibile per foto e autografi… anche questo un segnale della loro grandezza.
Fare meglio di così sarebbe stato difficile per chiunque, ingrato compito dunque tocca agli House of Lords, che complice un cambio di palco piuttosto lungo e l’ora avanzata, si ritrovano a suonare davanti a circa 60-70 persone..che perlomeno si accalcano tutte sotto il palco rendendo la cosa meno visibile.
Nonostante tutto comunque James Christian e compagnia ce la mettono tutta per presentare uno show di livello e alla fine la missione può dirsi riuscita. Diversi pezzi nuovi dal nuovo “Cartesian Dreams, tra cui la title-track e la trascinante “Born to be Your Baby”, altre cose abbastanza recenti tipo “Come to My Kingdom” e vecchi classici come “Love Don’t Lie” e “I Wanna be Loved” rendono lo show coinvolgente fino alla fine.
Ottima la prova di un James Christian in forma vocale notevole e del chitarrista Rob Marcello, in “prestito” dai Danger Danger e autore di una prova senza sbavature.
Trenta minuti dopo la mezzanotte si conclude dunque la prima edizione di questo festival che sicuramente ricorderemo per due ottime esibizioni e per il forfait dei Poodles che anche numericamente parlando ha segnato in negativo la serata…
Permettetemi però di ringraziare Emiliano e Bologna Rock City per il coraggio dimostrato nel portare bands come i Junkyard, che non avranno l’appeal di qualche caricatura che tutti corrono ancora a vedere nonostante ci sia magari solo un componente originale, ma che al contrario sanno ancora regalare emozioni a go-go.
Scena rock’n’roll in Italia? Ma fatemi il piacere… Federico Martinelli
GLAMFEST 3 Bologna, Estragon - 7 novembre 2009
Ritengo di aver assistito, sabato scorso, alla esibizione live di gran lunga più convincente dell’ intero 2009. E pensare che era stata unicamente la presenza dei Tigertailz ad indurmi a presenziare a questo terzo appuntamento con il GlamFest, un po’ come furono Britny Fox e soprattutto Bulletboys le mie bands di richiamo in occasione della prima edizione. Ma se in quella circostanza gli headliners Pretty Boys Floyd non riuscirono a catturare più di tanto la mia attenzione, l’altra sera gli Hardcore Superstar hanno dispensato uno spettacolo di levatura realmente superiore, offuscando le pur buone prestazioni di quanti li avevano preceduti sul palco, inclusi i miei idoli gallesi.
Eppure i Tigertailz, formazione capace di assurgere allo status di capiscuola del genere glam in virtù di un paio di albums, ed in particolare del devastante Bezerk datato 1990, e di viverne di rendita persino vent’anni dopo, hanno offerto una onestissima esibizione, riproponendo ovviamente in larga parte, durante il set, proprio le hits dei primi due albums. C’è giusto lo spazio per una nuova composizione, francamente mediocre, e per un paio di covers di brani di Metallica e Megadeth, che difficilmente ti aspetti da vecchie glorie dell’ hairspray. Da notare in proposito la totale assenza di chiome platinate, in passato sfoggiate dal 50% dei componenti della band, incluso il compianto bassista Pepsy Tate. La lineup originale conserva il vocalist Kim Hooker, ancora capace di tenere bene il palco, anche se ovviamente meno esuberante di quanto fosse nel fiore degli anni, ed il chitarrista Jay Pepper, nulla più che un musicista ordinario.
Anche i nuovi innesti non brillano per particolare attitudine al virtuosismo, ma del resto punto di forza della formazione rimane l’efficacia delle songs, semplici, ma infarcite di ritornelli orecchiabili ed a presa rapida. Il devastante impatto di Bezerk in questa occasione risulta palesemente annacquato, ma resta la valida esecuzione di canzoni comunque sempre coinvolgenti e godibilissime, e soprattutto, dal mio personale punto di vista, l’ennesimo miracolo targato BRC, che mi ha posto al cospetto di chi, guardando vent’anni orsono il volto animalesco di Kim raffigurato sulla copertina di Bezerk, mai avrei sperato di riuscire a vedere un giorno in carne ed ossa. Nel congedarsi dal pubblico, Hooker preannuncia un tour per il prossimo anno, per festeggiare il ventennale del disco appena citato. Insomma: come campare di rendita sulle ali di un’ unico album azzeccato alla grande…
Riflettendoci, verrebbe quasi da chiedersi se, tra vent’anni, gli Hardcore Superstar potranno ancora vantare richieste per tours internazionali e rievocazioni da festeggiare, non avendo ad oggi nel loro repertorio, almeno per quanto consta a chi scrive, alcun album particolarmente significativo o realmente memorabile…
Paradossalmente tuttavia, nel brevissimo periodo, questa band svedese merita le più alte attestazioni di elogio per una performance che si rivela un autentico tripudio ed offusca impietosamente lo show appena concluso dei più blasonati gallesi. A differenza dei Tigertailz, qui alla base non ci sono tanto le canzoni quanto una tecnica strumentale sorprendentemente elevata da parte di tutti i musicisti (oltre ad un’età media inferiore quantomeno di una decina di anni…).
Il vocalist Jocke Berg riesce con estrema disinvoltura a raggiungere tonalità elevatissime, ed ha una timbrica che ricorda a tratti il grandissimo Jeff Keith dei Tesla. Denota grande carisma e sa tenere il palco da consumato frontman, sebbene la sua presenza scenica attinga un po’ da Bruce Dikinson e un po’ da Axl Rose. Il batterista picchia come un dannato e ricorda, non solo nella fisionomia, il miglior Tommy Lee. Il basso è puntuale e corposo al pari del musicista che lo imbraccia. Ma la vera rivelazione è Vic Zino, unico chitarrista, subentrato in formazione in epoche relativamente recenti. L’axeman intarsia infaticabilmente il possente muro sonoro con pregevolissimi riffs al fulmicotone, e nel suo stile chitarristico ha spesso riportato alla mente il leggendario Randy Rhoads, impreziosendo di molto il sound crudo e diretto prodotto dalla band. Quando Jocke lo introduce al pubblico come il miglior chitarrista attualmente in circolazione, sicuramente non dice un’eresia…
Così come alla resa dei conti non è risultato nemmeno troppo velleitario il guanto di sfida inizialmente lanciato ai Motley Crue… Di fronte a musicisti di tale spessore risulta impossibile anche a chi, come me, non aveva mai seguito gli Hardcore Superstar con particolare attenzione, non lasciarsi contagiare dall’esaltazione generale di un pubblico raramente visto così consistente e partecipe. Insomma, un concerto strepitoso, assolutamente memorabile e, per quanto mi riguarda, realmente impressionante…Tanto di cappello agli Hardcore Superstar, di cui non mi resta che riconsiderare in fretta l’ultimo lavoro “Beg for it”…Chissà che non riesca ad intravederci un novello Bezerk, per ricucire il paradosso e dare un senso pieno e compiuto al trionfo indiscusso a cui abbiamo assistito all’ Estragon di Bologna… Alessandro Lilli Photos: courtesy of Anna Minguzzi
Over the Rainbow + Markonee + Ancient Bard Bologna, Estragon, 17 ottobre 2009
Corposa serata di hardrock, sabato, all’ Estragon di Bologna.
Il ruolo di openers spetta ai romagnoli Ancient Bard, ennesima formazione italica di belle speranze. Il sound oscilla tra lo speed epico degli Helloween ed il symphonic metal dei Nightwish, fino a diventare una sfacciata emulazione di questi ultimi quando la dotata vocalist Sara, nel brano conclusivo, si presenta sul palco con un mantello e relativo cappuccio di palese impronta Turunen. Brava tutta la band nel creare atmosfere sonore epicheggianti, anche se il musicista di maggior personalità nella formazione riminese mi è sembrato essere il tastierista. Sono giovani, e confido che, col tempo e con l’esperienza, sapranno opportunamente cucirsi addosso una propria identità artistica.
Gli Ancient Bard lasciano il palco ai Markonee, che fanno il proprio ingresso onstage preceduti da un insolito solo di batteria eseguito da Ivano Zanotti con bacchette fluorescenti. In sala è disponibile in anteprima assoluta il loro nuovo album “See the thunder”, a cui già da tempo è stato dato ampio risalto per la produzione affidata a Beau Hill. La pubblicazione ufficiale del cd è prevista per il 13 novembre, sotto l’egida della Escape, dunque è un momento topico per la band felsinea. Costretti ad un set di canzoni abbastanza stringato, i Markonee carburano in progressione, e Gabriele Gozzi appare assumere un ruolo sempre più catalizzante all’ interno della formazione. Nel complesso una buona performance, ovviamente incentrata su estratti dall’imminente album, anche se la band risulta meno entusiasmante che in altre circostanze, forse tradita da un pizzico di tensione emotiva. Tra l’altro la resa acustica non sembra ottimale, a discapito degli sforzi profusi in particolare proprio dal vocalist.
I Rainbow non sono mai stati tra le mie bands predilette, ed il principale richiamo per me è dato dalla possibilità di vedere all’ opera Joe Lynn Turner. Al di là delle illazioni che potrebbe suscitare la sua chioma corvina, pettinata e fluente anche al momento del secondo bis, ciò che conta è la performance vocale, che non delude affatto, anzi testimonia doti tuttora spiccatissime, nonostante una età prossima alla sessantina. Per quanto mi riguarda, è un peccato dover ascoltare J.L.Turner su repertori non suoi propri, avendo egli alle spalle una sfavillante carriera solista ed una discografia di hard rock melodico di assoluta eccellenza. Ma tant’è…dal vivo il sempreverde vocalist finisce spesso per interpretare i più richiesti repertori vicini ai Deep Purple/Rainbow, sia che si esibisca al fianco di Glenn Hughes, sia che ne esplori territori limitrofi prestando la propria voce a Nicolo Kotzev nei Brazen Abbot o a Manfred Mann. Del resto anche questa reincarnazione dei Rainbow, ribattezzata “Over the rainbow”, ha sucuramente il flavour dell’ operazione commerciale finalizzata a sfruttarne il glorioso marchio. Neanche stasera si registra un pienone, tuttavia il pubblico risponde sicuramente molto più numeroso del consueto, per i canoni a cui siamo purtroppo oramai abituati a Bologna, e si osserva una età mediamente più elevata del solito, frutto della presenza di tanti attempati nostalgici.
E, guarda caso, i vecchi cd dei Rainbow sono tutt’oggi reperibili persino nei centri commerciali, a differenza dei cd solisti dello stesso Joe Lynn Turner (tanto per restare in tema…), a riprova del fatto che tantissima ottima musica hard-rock prodotta negli ultimi vent’anni o forse più ha avuto in Italia una distribuzione ed una esposizione mediatica del tutto inadeguate al livello qualitativo dei contenuti proposti. Per tornare al concerto, sul palco c’è spazio per lunghi assoli praticamente da parte di quasi tutti i musicisti, anche se ad onor del vero il “figlio d’arte” Jurgen Blackmore non mi sembra un talento inarrivabile. Molto più convincente l’assolo del massiccio, leggendario drummer, Bobby Rondinelli. Ovviamente comunque nelle due ore di concerto c’è modo per gli estimatori della band di riassaporare, in una abbondante scorpacciata, tutto il gusto del Rainbow-sound, riproposto da un line-up quasi integralmente originale. Personalmente ho apprezzato lo spettacolo solo a tratti, gradendo in particolare l’esecuzione del megaclassico anthem “Long live Rock’n roll” e di “Since you’ve been gone”, mentre il pubblico degli “aficionados”, a fine concerto, appariva visibilmente soddisfatto.
Una strameritata piccola grande rivincita per Emiliano Nanni che, nel breve attimo in cui l’ ho incrociato all’ ingresso, mi è sembrato ancora piuttosto contrariato (comprensibilmente…) per la inopinata ed improvvisa defezione, due sere prima,da parte dei Magnum.
Alessandro Lilli
SOCIAL DISTORTION + THE BONES LONDRA, O2 SHEPHERD’S BUSH EMPIRE – 8 LUGLIO 2009
Come se non bastasse l’estasi di rivedere finalmente i Social Distortion in quel di Londra (e stavolta con foto pass, che mi pone a distanza insperata da Sua Santita’ Dio Vivente del Punk Mike Ness), mi ci buttano li anche The Bones di supporto... Cosa vuoi di piu’ dalla vita? E pazienza se ho residui di febbre suina e mi perdo i Durango Riot per vari dissidi organizzativi, questa sara’ probabilmente la serata di punta del mio 2009, forse anche 2010 e 2011, una di quelle che durassero anche dieci ore non sarebbe abbastanza, quindi vediamo di godercela.
E si inizia con il quartetto svedese, che e’ in giro da dieci anni, ha fatto quattro album ma per motivi misteriosi quantomeno a me e’ rimasto un gruppo abbastanza “di nicchia”. The Bones hanno tutto, pezzi punk rock’n’roll di quelli sporchi, rustici, orecchiabili ma non sputtanati, due lead singers (Beef and Boner, giuro) e un atteggiamento sul palco proprio niente male. Si accattivano il pubblico e giocano con il mio obiettivo, sorridenti ed energici, regalandoci quarantacinque minuti di qualita’ e sudore. Non conosco tutti i pezzi (peccato da cui mi sto redimendo in questi giorni), ma saltano all’occhio il debutto “Screwed blued and tattooed” e soprattutto “Gasoline business”, che diventa al primo ascolto la mia preferita e mi si fissa in testa per giorni a venire. L’ultimo album di The Bones e’ “Burnout Boulevard” del 2007, e non mi dispiacerebbe sapere cosa stanno facendo e quando prevedono di deliziarci con un po’ di materiale nuovo. Con la carenza di buona musica in giro di questi tempi, si finisce per diventare avidi...
E alle nove e mezza come da copione (coprifuoco alle undici), ecco finalmente arrivare sul palco i Social Distortion. La band ha di recente sostituito il decennale batterista Charlie Quintana, alla ricerca di nuove esperienze, con il giovane Atom Willard (Rocket from the Crypt, Offspring), una gradita iniezione di energia resa ancora piu’ evidente dall’ottimo sistema audio dell’Empire. Mike Ness fa il suo ingresso, sul suo viso un po’ di barba e qualche linea in piu’, linee che parlano di vita vissuta, di eccessi, di alti e bassi e della fortuna di poterlo raccontare, di saggezza e crescita che non hanno scalfito l’amore per la musica che lo ha portato fin qui. Chitarra alle ginocchia e cappello sugli occhi, sembra sentirsi a casa di fronte a duemila persone, e attacca sulle note di “The Creeps”.
Come sempre con i Social D la set list e’ una parziale sorpresa, non c’e’ nessun album nuovo in promozione quindi si pesca qua e la da una discografia ricca e tutta di alta qualita’. Ci sono i vecchi classici, come “Mommy’s Little Monster”, “Ball and Chain” e “Prison Bound”; ci sono pezzi dall’eccellente ultimo album “Sex Love and Rock’n’Roll” targato 2004, come “Reach for the Sky”, “Highway 101” e “Nickels and Dimes”; ci sono pezzi meno conosciuti, come “Won’t run no more” e “Can’t take it with you”; c’e’ il momento accendino con la bellissima “Sometimes I do”; si balla con l’immancabile “Ring of Fire” di Johnny Cash. Il bis si apre con un tributo a Hank Williams, senza di lui non sarebbero qui, il pezzo e’ “Alone and forsaken” e supersopresa, si chiude con un nuovo singolo, “Still alive”, un altro indubbio capolavoro che purtroppo (e ho controllato ovunque) non e’ ancora reperibile. Vi terro’ informati!
Con cinque minuti rimasti prima del bastardissimo coprifuoco, Mr Ness torna sul palco ancora una volta. Chiede se ci sono sognatori tra il pubblico, alzano la mano, loro sono quelli che “ce la faranno”, dice Mike. A loro e’ dedicata “Story of my life”. A tutti coloro che, negli alti e bassi della vita, si sono trovati a chiedersi perche’ i momenti belli sembrano non durare mai abbastanza. A tutti coloro che si sono trovati con una chitarra sulle ginocchia a cantare una canzone aspettando che qualcuno tornasse da loro e chiedendosi quando. A tutti noi duemila qui presenti, a cui questa serata e’ parsa troppo breve, noi che speriamo di non dover aspettare altri quattro anni ma, fossero anche dieci, saremo qui. Cristina Massei
STEEL PANTHER Londra, Club 229 – 16 Giugno 2009
La prima volta che mi sono imbattuta negli Steel Panther era nel 2000 a LA. Gli Enuff’z’Nuff suonavano al Viper Room di lunedi, di supporto alla band residente, tali Metal Shop... “Ma chi m****ia sono?”, mi chiedevo. Quando finalmente sono arrivati sul palco, sono andata in estasi totale: non solo questi tipi potevano cantare, suonare e ballare “Nothing but a good time” meglio di Bret Michaels & Co., ma erano di gran lunga piu’ divertenti! Dovevo saperne di piu’. Meno di un anno piu’ tardi, intervistavo Ralph Saenz (aka Michael Starr), una delle persone piu’ gradevoli e professionali che ho mai incontrato in questo ambiente, e sviluppavo una pericolosa dipendenza ai lunedi del Viper Room.
Sono tornata a Londra raccontando a tutti di questa favolosa comedy/cover band, chiedendomi perche’ a nessuno venisse in mente di portare almeno in Inghilterra (in Italia la barriera linguistica sarebbe un problema) uno spettacolo che fa regolarmente il tutto esaurito ogni settimana su Sunset Strip. Nel 2004 ho scoperto che avevano cambiato nome in Metal Skool e avevano inciso un album originale, “Hole Patrol”, con gemme come “Big Boobs” e “Stripper girl”, e si erano trasferiti al Roxy dove continuavano a fare sold out tutti i lunedi. E si, sono tornata a LA e andata al Roxy a controllare, e di nuovo non ho smesso un attimo di ridere. Ma ancora nessun tour internazionale in vista.
Siamo al 2009, e mi arrivano mail supereccitate che parlano di questi magnifici Steel Panther in concerto a Londra: ma chi m****ia sono? Non troppo conquistata dal nome (suona troppo Spinal Tap!), dimentico il tutto finche’ mi capita per caso davanti il loro video di presentazione su MySpace: sono i Metal Shop/Skool, nome nuovo, album nuovo e finalmente uno show londinese piu’ uno slot a Download!
Il concerto e’ tutto cio’ che mi aspettavo e di piu’. La fila fuori e’ lunghissima, avevano inizialmente prenotato un posto intimo per un centinaio di persone, ma ha venduto cosi velocemente che lo hanno spostato in un locale da 800 e ha fatto sold out comunque. La maggior parte dei fans inglesi hanno solo ascoltato l’album (parecchie volte a giudicare da come cantano ogni parola), quindi i pezzi di commedia qui sono totalmente nuovi e scatenano l’audience come una tempesta. Le discussioni sulle “chicks” tra Michael e Satchel, Lexxi e il suo specchio, l’”assolo di capelli” (mia parte preferita), le ragazze tirate su per ballare la richiestissima “Community property” e il momento piu’ spontaneo, imbarazzante ma troppo esilarante quando si accorgono di aver tirato su un truccatissimo maschietto (dude, it’s a dude!!), semplicemente non puoi smettere di ridere. C’e’ tempo per suonare praticamente tutto l’album e qualche cover (Motley Crue e David Lee Roth) come bis, insieme alla hit “Death to all but metal”. Ma questa audience starebbe qui tutta la notte se decidessero di suonare tutti i pezzi hair metal 80 che conoscono.
Gli Steel Panther sono puro genio. C’erano un casino di gruppi negli 80 che avevano pezzi tipo “Stripper Girl”: si sono presi troppo sul serio e non ci e’ voluto molto prima che finissero a servire skinny latte da Starbucks. I Panther, magari dopo ripetute visioni di “Decline of Western Civilization II”, si sono resi conto di quanta commedia e’ racchiusa tra le righe di “The Dirt”, e dopo ben oltre 10 anni di spettacoli settimanali su Sunset Strip, non mi sorprenderebbe se potessero permettersi di comprarselo qualche Starbucks...
Se qualcuno di voi si sente offeso dagli Steel Panther, unitevi alla brigata del “Politicamente Corretto” o prendete appuntamento con uno psicologo, ipocriti, perche’ pezzi come “Community Property”, “Turn out the lights” o “Girl from Oklahoma” sono parecchio piu’ oneste di “I’ll be there for you”, specialmente nel magico mondo del rock’n’roll.
Solo una piccolissima delusione: abituata a veder saltare sul palco degli Steel Panther gente del calibro di Steven Tyler, e considerato che il concerto cadeva due giorni dopo il Download Festival, mi aspettavo che gli annunciati “special guests” fossero un po’ piu’ speciali della meteora Justin Hawkins (ricordate i Darkness?), per quanto abbia apprezzato l’esecuzione live di “I believe in a thing called love”. Comunque, apparentemente ci sono ulteriori collaborazioni in vista tra Justin e gli Steel Panther e ho sentito che si e’ unito sul palco anche agli Spinal Tap di recente, quindi in bocca al lupo a lui con questa nuova avventura rock-comedy, speriamo vada meglio degli Hot Leg.
E parlando di buone notizie, ho anche sentito che gli Steel Panther saranno di ritorno in Inghilterra alla fine di Settembre... Accaparratevi i biglietti appena arrivano, perche’ (a meno che seguiate regolarmente “Rock of Love”) difficilmente riderete mai cosi tanto per un rock show targato anni 80 per il resto della vostra vita. Cristina Massei
RICKY WARWICK & EDDIE SPAGHETTI London, Camden Underworld, 1 Luglio 2009
E’ un caldo mercoledi londinese quando arrivo all’Underworld per il concerto di Ricky Warwick ed Eddie Spaghetti. Cosa aspettarsi dall’unione di Almighty e Supersuckers? Certamente qualcosa di speciale. Il locale e’ piuttosto buio, il bar principale e’ chiuso, Eddie Spaghetti e’ vicino allo stand del merchandise con la sua famiglia, sorridendo e parlando alla gente. Le luci basse e i fans che si aggirano tranquilli intorno all’area palco creano un’atmosfera piacevolmente rilassata, per quello che si preannuncia come una jamming session tra vecchi amici piu’ che un concerto rock.
Eddie Spaghetti apre, suonando molti dei suoi pezzi da “The Sauce” e “Old No 2”, pezzi “feel-good” al sapore country, e la folla immediatamente si lascia coinvolgere, ballando e cantando. La fine di ogni canzone e’ marcata da un “cha-cha-cha” che, come spiega Eddie, e’ un segno che il pezzo e’ finito e possiamo far casino. A me piace molto “Without love”, mentre il tipo vicino a me (probabilmente il fan numero uno di Eddie) continua a chiedere “Breaking the law”, e presto viene accontentato. Segue “Killer Weed”, tutti a cantare il ritornello a gran voce, e lo stesso tipo ringrazia Eddie deponendo un “misterioso” pacchettino a terra vicino al microfono... Finisce nel segno dei magnifici Supersuckers, con “Pretty Fucked Up” (con la mia solita lacrimuccia) e il richiestissimo bis “Born with a tail”.
Ora di Ricky Warwick. Sorprendentemente, Mr Almighty non e’ soltanto un brillante musicista, ma anche un buon intrattenitore. Tra un “Wild and Wonderful” e un “Belfast Confetti”, trova il tempo di raccontarci la storia del giovane Nord Irlandese alla guida di un trattore, del rock’n’roll come necessita’ (per trombare) piuttosto che scelta, e altre favolette di campagna e atipici scenari adolescenziali. Beh, atipici per un londinese suppongo... Trova anche il tempo di ricordare la vittoria dell’Irlanda del Nord sull’Inghilterra nel 2005 presentando “The Arms of Belfast Town” e uscire dall’Underworld tutto in un pezzo, che non e’ poco. Altri pezzi accattivanti sono “Throwin’ Dirt” dall’ultima fatica “Belfast Confetti”, “Three sides to every story” e una delle mie preferite “Jesus love you but I don’t”. C’e’ poi il tributo ai Motorhead con “Ace of Spades”, nelle parole di Ricky “la piu’ grande canzone d’amore mai scritta”.
Il concerto raggiunge l’apice quando Eddie Spaghetti si unisce a Ricky Warwick sul palco per una brillante interpretazione di “Ring of fire” di Johnny Cash. Il giovane figlio di Eddie guarda papa’ dal lato del palco con un sorriso orgoglioso. E infine e’ di nuovo Ricky, da solo, a salutarci con “I fought the law”, lasciandoci tutti con dei sorrisi enormi in faccia.
Un consiglio: la prossima volta che vi trovate in un negozio di dischi, accaparratevi “Old No 2” e “Belfast Confetti”, andate a casa e metteteli proprio vicino al Johnny Cash Greatest Hits nella sezione “Feel-Good” del la vostra collezione. Suonare con luci soffuse e “killer weed” per massimo godimento. Cristina Massei
BUCKCHERRY London, O2 Academy Islington – June 12th 2009
La musica, come ogni forma d’arte, e’ uno strumento per descrivere cose per le quali le parole non basterebbero: un’anima, un sentimento, un momento di profonda gioia o disperazione. Ho sempre pensato che chi e’ in capace di creare musica e’ fottutamente fortunato, vorrei poter gridare con la loro voce, e occasionalmente trovo una canzone che grida per me. Ma purtroppo non e’ sempre cosi. Spesso oggi la musica non grida, anzi dice poco e niente, non parla per nessuno, e’ solo la voce dell’ingordigia e desiderio di immeritato successo. Segue mode e ricerche di mercato, usa noiosi reality shows come piattaforma ed e’ usa e getta come il debole messaggio che porta con se’. Non parla per l’artista, ma per l’audience di X Factor...
E poi, ogni tanto, capita un Buckcherry, e sai che c’e’ ancora qualcosa di reale da qualche parte.
La caratteristica impronta rock’n’roll di Buckcherry non segue nessuna moda, e’ sempre stata al di fuori dei tempi, eppure l’O2 e’ tutto esaurito stasera, malgrado molti rockers inglesi siano alle prese con il fango di Donington (Download Festival). Questi ragazzi non cantano solo di cocaina, SONO cocaina, del tipo legale, ma altrettanto potenti ed energetici. Questi ragazzi non cantano solo di sesso e pornostars, sono grezzi, esaltanti e liberatori come un orgasmo inaspettato da un perfetto sconosciuto.
“Next to you” e’ il dinamitardo brano di apertura per questo gig, che ci porta attraverso l’intera carriera di Buckcherry. “Riding” ti fa venir voglia di fare follie tutta la notte, poi “Sorry” ti ricorda che anche i cattivi ragazzi hanno un cuore. “Questa parla della prima volta che ho provato la cocaina!”: “Lit up” arriva forse un po’ troppo presto, ma chi si lamenta? L’O2 viene giu’, gridando e saltando, mentre Josh Todd lascia andare la giacca e ci toglie il respiro, ballando come fosse posseduto. A me e’ piaciuta in particolare “Everything”, mentre “Too drunk” dall’ultimo album “Black Butterfly” rende decisamente meglio dal vivo, e “Pornostars” e’ la cosa piu’ sexy che abbia visto o sentito negli ultimi due anni, e lavoravo in spiaggia... E’ l’ora dei saluti, con “Crazy Bitch”, e dal momento che “Lit up” l’hanno gia’ fatta probabilmente e’ davvero finito... O no? Con la stessa energia e ancor piu’ sudato sex appeal, Josh Todd & Co tornano con “To the movies” e una sorpresa finale: la bellissima “Lawless and Lulu”, inspiegabilmente spesso tagliata fuori dal vivo, da quel primo album che ha dato un’iniezione di adrenalina al rock’n’roll proprio quando il suo cuore sembrava fermarsi.
E ora e’ davvero finita. Mi sento come se mi fossi fatta dieci lattine di Redbull, ma molto piu’ contenta e sana. Ho un po’ di energia da buttare... “All the way from the west side of town we get up and we never come down got the juice and we're loose cause we want to get wasted”... La notte e’ giovane! Cristina Massei
Shakra + Eclipse + Polution Bologna, Sottotetto 26 aprile 2009
E chi lo ha detto che, per assurgere allo “status” di miti del rock, si debba necessariamente eccellere nel calcare le assi di uno stage o in virtuosismi strumentali??? Emiliano Nanni, patron di Bologna Rock City è la prova provata di quanto asserisco, perchè ci vogliono formidabili doti di acume artistico ed abnegazione, nonche una dose di temerarietà fuori dal comune, per riuscire a compiere l’autentico prodigio di coronare l’insperato desiderio dei pochi cultori del genere portando in Italia, magari in date uniche nazionali, misconosciute bands straniere per eventi qui da noi realisticamente impensabili. Ed allora, ritenendo di farmi portavoce del senso di gratitudine ed apprezzamento di tutti gli estimatori dell’ hard rock melodico italiano, anche dei tanti stavolta inopinatamente assenti, mi sento di affermare con autentica e profonda ammirazione: "Emiliano, sei un mito"!!!
L’antefatto qualche mese fa, alla fine dello scorso anno, quando balzai dalla sedia leggendo il programma di eventi live del Transilvania di Bologna, che menzionava una data degli Eclipse. Incredulo ed esaltato, contattai immediatamente gli organizzatori per avere conferma che si trattasse proprio della band svedese, accasata con la nostrana Frontiers, e con un terzo disco all’epoca freschissimo di stampa, “Are you ready to rock” rivelatosi come uno dei migliori lavori del 2008. Ma fui subito riportato alla dura realtà di un semplice caso di omonimia…
Neanche il tempo di aspettare il Natale successivo, e nemmeno la necessità di scrivere una letterina a Santa Claus, e ci pensa Emiliano “io sono leggenda” Nanni (la cui analogia al fiabesco personaggio è finalizzata esclusivamente ad esaltarne la molto maggiore efficienza) a materializzare prontamente il mio desiderio…Se non è magia questa!!!
E cosi, a “grande” richiesta (si fa per dire… eravano una trentina…), direttamente dalla Svezia ecco serviti a Bologna gli Eclipse, quelli veri!!!
E dire che qualche imprevisto mi ha portato ad accedere al Sottotetto con la band già all’opera, avendo essi a sorpresa anticipato la propria esibizione, ed oltretutto dopo aver perso, con un certo rammarico, anche i sets precedenti, in particolare quello dei quotati Edge of Forever. Ma gli Eclipse sul palco eclissano davvero qualsiasi mesta considerazione, con un tiro micidiale pur nella melodicità del proprio repertorio, ed una resa sonora praticamente impeccabile. La band dà ampio spazio al suo terzo e più maturo album, autentica delizia per gli appassionati del genere, e si esalta essa stessa in una performance trascinante, in cui trovano particolare risalto le qualità del frontman Erik Martensson e del chitarrista Magnus Henriksson. Concerto breve ma intenso, che non delude le aspettative e che anzi, al contrario di considerazioni suggeritemi da un’altra formazione svedese vista all’ opera anni fa (e mi riferisco ai Fatal Smile), che all’epoca faticavo a immaginare nel ruolo di headliner, consacra gli Eclipse a pieno titolo come main attraction morale di questa serata. E per quanti avessero sinora ignorato il loro “Are you ready to rock”, l’esortazione è quella di provvedere al più presto a procurarsi tale eccellente album. Dopo la rituale pausa è il turno sul palco, a seguito dell’ inversione di programma, degli svizzeri Polution, freschi autori del debut “Overheated”. Ebbene, superato il primo impatto visivo abbastanza sconcertante e, per i miei gusti, persino “preoccupante”, giacchè pareva di trovarsi di fronte al manipolo di scialbi disoccupati che, nel celebre “Full Monty”, si sarebbero trasformati in… spogliarellisti integrali (!!!), in realtà questi ragazzi dimostrano di sapere decisamente il fatto loro, snocciolando una performance di sano hard rock che ruota tra Ac/Dc ed Accept e che, se non spicca per originalità, è comunque eseguito con indubbia competenza. Nonostante una molto deficitaria presenza scenica ed una staticità sul palco da anonima formazione di primo pelo, la musica è coinvolgente al punto giusto e la band pare ben affiatata (e non a caso, essendo per 4/5 imparentati…).
Sebbene difettino palesemente di personalità, i Polution rappresentano, a mio avviso, la rivelazione della serata, ed un pizzico di considerazione anche per il loro album sarebbe più che meritato. Nota di plauso dunque anche agli Shakra, per averli scelti come proprio opening act. E finalmente arriva il turno degli headliners della serata, mediamente più alti di una buona spanna rispetto a chi li ha preceduti. Tornano a vedersi sul palco chiome fluenti e look metallari in piena regola, oltre ad un fondale inconsueto per il Sottotetto, con due pannelli laterali su cui campeggia il logo del recentissimo album Everest. Da un fugace ascolto, quest’ultima release sembra aver ricondotto gli Shakra alle sonorità delle origini, quando la stampa elvetica, e non solo, li acclamava come novelli Gotthard. Certo la band mantiene un approccio decisamente più heavy rispetto ai più blasonati connazionali, ma indubbiamente il nuovo lavoro ritrova un po’ di quella melodia e di quella qualità compositiva che parevano essersi perse sulla precedente release, lo scadente “Infected”. Lo show si articola su una dozzina di pezzi attraverso cui la band riesce a catturare e coinvolgere lo scarso pubblico, manifestando ottime doti strumentali ed una tenuta del palco da consumati rockers. La voce del tenebroso frontman Mark Fox è molto tagliente, ed anche se non brilla per estensione, si rivela funzionale alle massicce sonorità prodotte dai bandmates. Lo show acquista di intensità in costante progressione, cosicchè, dopo un paio di encores, gli Shakra si congedano dal pubblico raccogliendo convinti consensi. Inutile che aggiunga che chi a Bologna si professa rocchettaro, ma l’altra sera ha preferito andare a bivaccare fino a tarda notte in qualche disco-pub o peggio in qualche piazza del centro ascoltando improvvisati percussionisti di bongo, dovrebbe cercare, dopo essersi guardato allo specchio, di rivolgere il viso al soffitto, per riuscire a sputarsi in faccia da solo. Long live to Emiliano… Long live to Rock and roll. BRC rules!!! Alessandro Lilli
Jeff Scott Soto + Sex for cash Bologna, Sottotetto 15 aprile 2009
Serata strana ieri al Sottotetto. Di scena uno di quei nomi per i quali non è possibile disertare l’appuntamento, e che personalmente ho finora avuto il privilegio e la fortuna di vedere dal vivo per ben tre volte: Jeff Scott Soto. Inevitabili dunque raffronti con le precedenti esibizioni, oltretutto abbastanza ravvicinate nel tempo, ma in contesti tra loro diversi. La prima, circa un anno fa, in questa stessa location, come guest star degli emergenti brasiliani Tempestt. La seconda, a fine ottobre 2008, con la sua classica lineup, per il pirotecnico show del Firefest inglese (una delle migliori performances dell’ intero festival). La terza ieri sera, sempre in veste solista, ma accompagnato da una formazione totalmente rinnovata. Forse un certo rammarico per l’ assenza di Howie Simon e di Gary Schutt, che al Firefest furono tutt’altro che comparse, bensì superbi comprimari di Jeff, mi aveva predisposto in maniera non ottimale al nuovo show di mr. Soto, che peraltro promuove un album, Beautiful Mess, sicuramente meno avvincente di altri suoi lavori, sebbene intriso di quella qualità artistica che difficilmente potrebbe difettare a prodotti di un personaggio così talentuoso e poliedrico, i cui unici flops musicali ritengo vadano individuati nella discografia rilasciata come Human Clay…
Le mie perplessità erano ulteriormente alimentate dalla scelta dei musicisti reclutati per la nuova formazione. Sebbene un paio fossero già transitati al “Soto-tetto” (locale così ribattezzato dallo stesso Jeff, divenutone oramai un…frequentatore abituale) nelle file dei Tempestt, mi sarei aspettato che la scelta tra costoro fosse ricaduta in primis sul formidabile bassista Paulo Soza, che non ho esitazioni ad elevare a livelli di assoluta eccellenza, quelli di un Marcel Jacobs, tanto per fornire un termine di paragone. Il basso viene invece affidato ad uno sconosciuto musicista spagnolo, al pari del ruolo di chitarra solista, ricoperto dal più noto axeman iberico Jorge Salan, già autore di vari dischi solisti e militante nei Mago de Oz, ed ultimamente in stretto sodalizio artistico con Jeff. Valido chitarrista, ma a mio parere Howie Simon, autentica belva della sei corde, è superiore di ben più di una spanna …Dai Tempestt mr. Soto convoca il vispo batterista Edu Cominato e, a sorpresa, il frontman BJ. Quest’ultima scelta, apparentemente inspiegabile (a mr. Soto tutto potrebbe occorrere fuorchè un’ ugola di sostegno), in realtà acquista senso verso la fine dello show, quando emerge chiaramente la versatilità del componente, chiamato di volta in volta a supportare la band attraverso chitarra ritmica, tastiere, cori e persino voce solista (in un breve frangente). Se non brilla per perizia tecnica, BJ può a ragione essere considerato il jolly della formazione.
Venendo alla performance, Jeff sul palco lamenta subito una imperfetta condizione vocale, dovuta ad un fastidioso raffreddore. Questo handycap, unito ad una resa dell’impianto acustico mai così scadente e ad una prestazione generale della band ben al di sotto delle mie aspettative, nella prima parte dello spettacolo legittimano le mie perplessità ed il rammarico per i grandi assenti già citati. Lo show si snoda senza grossi sussulti attraverso vari estratti dall’ ultimo album, e nemmeno cavalli di battaglia come “Color my x-tacy” e “Eyes of love” sembrano stasera avere la consueta incisività… Persino la jam funky, che al Firefest aveva mandato il pubblico in visibilio, grazie appunto al fattivo apporto della premiata ditta Simon/Schutt, stasera appare eseguita sottotono e dunque risulta poco coinvolgente. Poi, ad un certo punto, la insperata metamorfosi… Forse Jeff si sarà ricordato di avere un carisma inesauribile da cui poter e dover attingere, o forse sarà stato l’ influsso magico di quel cappello, essenziale accessorio indossato per la porzione di concerto eseguita alla pianola, fatto sta che mr Soto ritorna ai suoi consueti fasti di animale da palcoscenico, influenzando beneficamente tutta la band, che comincia a carburare ed a girare su ben altri livelli.
La setlist programmata viene stravolta e dilatata oltre ogni più rosea previsione, forse a conferma della ritrovata verve da parte dei musicisti. Così, dopo un paio di splendide ballads cantate a cappella da Jeff (stavolta però manca la consueta citazione degli Eyes attraverso l’ accenno di “Nobody said it was easy”) e l’inatteso passsaggio di consegne provvisorio a BJ per un paio di ridotte interpretazioni vocali di “Carrie” degli Europe e di “Who cries now” dei Journey (con Soto che si limita all’ accompagnamento pianistico, senza volerne sapere di intonare da ex canzoni tratte dal repertorio di quest’ ultima band), un ritrovato Jeff comincia finalmente a dimenarsi sul palco da autentico fuoriclasse, e come solo lui sa fare. Ma a quel punto lo show programmato volgeva oramai al termine, con appena un paio di brani ancora in scaletta. Originariamente la chiusura, senza encores, era ovviamente affidata all hit dei Talisman “I’ll be waiting”, ma Soto improvvisamente decide, durante l’esecuzione, di conferire al pezzo un tocco di inusualità incastonandogli nel mezzo un brano integrale di Jorge Salan (No salvation) al posto del consueto intermezzo corale col pubblico.
Forse, magari, anche in considerazione del fatto che nel locale si contavano a malapena un’ ottantina di persone…Consueto finale trionfale con la reprise di “I’ll be waiting”, ed in base alla setlist originaria sarebbe finita qui. Ma dopo una breve sosta nei camerini la band torna sul palco, per piazzare un micidiale uno-due attingendo dalla ormai celeberrima colonna sonora del Rockstar movie. Così abbiamo ancora modo di goderci le perfette interpretazioni di “Stand up and shout” e di “Living the life”, prima di ritirarci soddisfatti a nanna… Concerto in due atti: poco brillante e travagliato il primo, superbo, ispirato ed appagante il secondo.
Il tutto per circa un’ ora e mezza di musica, anche se va aggiunto che in precedenza avevano aperto i volenterosi Sex for Cash, bravi ma forse un po’ troppo legati a clichè scontati di motleyana memoria. Alessandro Lilli
TYKETTO+Markonee+Planet Hard 31 Gennaio 2009 - Nuovo Sottotetto - Bologna
Comincia dai Tyketto, almeno per chi scrive, la nuova stagione di eventi hardrock targata Bologna Rock City. Invero i cultori della N.W.O.B.H.M. hanno già avuto, nel primo scorcio del 2009, quantomeno un paio di ghiotte occasioni per fare tappa al Sottotetto di Bologna. Per chi, come me, è invece dichiaratamente più incline all’hard-rock di matrice americana che ebbe la sua epoca aurea nella seconda metà degli anni ’80, l’appuntamento con una band come i Tyketto è decisamente più invitante, se non addirittura assolutamente imperdibile. Tra le ragguardevoli imprese di cui il mitico Emiliano Nanni ha il sacrosanto diritto di fregiarsi in qualità di titolare di BRC (che peraltro festeggia proprio in questi giorni tre anni di attività: auguri di cuore!), c’è anche quella di essere riuscito a portare in Italia, e segnatamente a Bologna, entrambi gli headliners del Firefest, festival europeo per eccellenza del 2008, quasi in concomitanza con le loro apparizioni in quel prestigioso contesto. Così, dopo la data bolognese di rodaggio dei Firehouse, che precedette di appena qualche giorno la loro esibizione come gruppo di punta della seconda giornata del Firefest inglese di fine ottobre, ecco arrivare a Bologna anche gli headliners del sabato, i Tyketto dello stratosferico Danny Vaughn.
La serata al Sottotetto si apre con gli italiani Planet Hard, aggiunti al bill proprio in extremis. Seppur con un disco di sano e corposo hard rock all’ attivo, il quartetto milanese sfodera una prestazione in verità non particolarmente altisonante, finendo con l’impressionare solo in virtù delle indiscutibili doti vocali del superbo cantante Marco Sivo, il quale peraltro al Sottotetto aveva già accompagnato un paio di anni orsono Matt Filippini nella frazione di concerto dei Moonstone Project che aveva preceduto l’avvento sul palco dell’ospite d’eccezione Glenn Hughes. Forse la band avrebbe avuto solo bisogno di esprimersi onstage con maggiore convinzione, fatto sta che, pur senza demerito, i Planet Hard (non me ne vogliano!!!) vengono decisamente oscurati dai successivi Markonee, per i quali i tempi sembrano maturi per il nuovo album, e le cui nuove canzoni suonano sempre più convincenti, ascolto dopo ascolto. Con un Pera un po’ sottotono rispetto ad altre esuberanti esibizioni, la band sembra aver trovato un giusto equilibrio che dia risalto a tutti i componenti della formazione, ed il risultato è la solita trascinante esibizione che strappa applausi convinti tra il pubblico. Alla lunga, i nuovi brani sembrano persino più coinvolgenti dei classici cavalli di battaglia che hanno portato alla band una considerevole attenzione da parte degli appassionati in Italia. Del resto la lusinghiera lista di nomi altisonanti per i quali i bolognesi hanno sin qui avuto il privilegio di aprire, dovrebbe aver garantito ai Markonee una serie di importanti agganci da far valere per muoversi al meglio nell’ ambiente anche a livello internazionale… Staremo a vedere…
Chi ha letto il mio precedente report sul Firefest, sa già che in quella occasione i Tyketto sovvertirono brillantemente un mio iniziale scetticismo finendo per strapparmi un convinto plauso e conquistando la mia incondizionata ammirazione. Pertanto stasera essi non costituiscono per me una incognita, bensì mi attendo una conferma da questa formazione viva e vegeta che forse ha raggiunto, durante la sua carriera, un livello di notorietà non adeguato alla eccelsa caratura artistica di buona parte della propria produzione discografica. In effetti stasera la risposta di pubblico, sebbene superiore alla media, non è pari a quella fatta registrare dai White Lion e dagli stessi Firehouse nel recente passato, anche se c’è da dire che il tour italo/elvetico dei Tyketto è articolato su più date.Non male per una formazione sino a qualche mese fa intenzionata, con il Firefest, a dare il definitivo addio alle scene…
Proprio l’altisonante riscontro di acclamazioni raccolto con quella memorabile performance ha invece indotto Danny Vaughn e soci a smentire clamorosamente lo stesso mesto titolo della loro ultima uscita discografica: “The last Sunset:farewell 2007”, ed a pianificare per il 2009 un tour mondiale sulla scia di un rinnovato entusiasmo. I fortunati spettatori non possono che ringraziare, godendo della ispirata esibizione di un superlativo Danny Vaughn, che sembra realmente intenzionato ad incarnare nei fatti il proprio celeberrimo motto: “Forever young”… Artisticamente, debbo ammetterlo, avevo trovato Vaughn alquanto stucchevole nelle sue produzioni soliste di inizio decade, pur senza disconoscergli il merito di aver dato voce ad alcuni tra i più memorabili classici dell’ hard rock, a partire da quell’ “Heaven tonight” interpretato nel lontano 1986 con i Waysted e brano di punta di un capolavoro assoluto del calibro di “Save your prayers”, sino alle ultimissime formidabili composizioni pubblicate come “From the Inside”, e raccolte in un disco, “Visions” che personalmente ho eletto tra i top del 2008.
Stasera Danny è a dir poco superbo, e ruba ovviamente la scena a quasi tutto il resto della band, composta in larga parte dalla lineup originaria (invero piuttosto statica, nel bassista Jimi Kennedy, ed appesantita, nel batterista Michael Clayton Arbeeny) Manca il secondo chitarrista Tony Marshall, ma la sua assenza viene minimizzata dallo strepitoso lavoro alla chitarra dell’ eccezionale PJ Zitarosa. Connubio di tecnica chitarristica e fisicità atletica, il “gommoso” PJ diverte tantissimo sprigionando onstage quella voglia di suonare che stasera l’aveva visto in impaziente attesa sul palco già ben prima che il resto della formazione si presentasse al cospetto del pubblico. Avvantaggiato dalla precedente esperienza del Firefest, mi sono appositamente posizionato in corrispondenza del calvo chitarrista, godendomi così appieno l’esibizione offerta dall’unico vero polo di attrazione alternativo, ed in grado di tenere testa a Vaughn sul piano dello spettacolo.
Il set di canzoni proposte è stato un autentico concentrato di perle di sano hard-rock melodico, senza peraltro disdegnare qualche capatina nell’ultimo prodotto discografico, che tuttavia è in definitiva una raccolta di inediti e di reincisioni di materiale comunque datato. Nel complesso si è trattato di un concerto semplicemente splendido, infarcito di tanta bella musica, che ritengo abbia ampiamente ripagato le aspettative del pubblico e che rilancia tanto vertiginosamente quanto meritatamente le quotazioni e le ambizioni dei Tyketto. Per Danny Vaughn è la indiscutibile dimostrazione di una caratura artistica di rango superiore, con buona pace di qualche nome ben più altisonante che lo ha ultimamente preceduto al Sottotetto di Bologna… Alessandro Lilli
Vengeance + Houston! + Hollywood Vampires 7
novembre 2008 Nuovo Sottotetto - Bologna
Dopo il Firefest
pensavo di aver visto tutto il meglio che l’hard
rock melodico avesse da offrire. Invece no! Mi sbagliavo,
e di grosso… Forse avevo perso un po’
di vista la vera essenza del rock, di quello più
genuino, suonato con il cuore, frutto di un mix
innato di passione e divertimento, autentica filosofia
di vita che si sprigiona onstage con istintiva naturalezza,
noncurante di mode e del proprio grado di notorietà,
e soprattutto senza la pretesa di giudicare e il
timore di essere giudicati. I Vengeance hanno incarnato
l’anima più schietta del rock, portando
in scena lo spettacolo di gran lunga più
divertente e coinvolgente tra tutti quelli sinora
visti dallo scrivente a Bologna. Padroni del palco
il vocalist Leon Goewie, che conferma di possedere
una invidiabile presenza scenica di chiara ispirazione
Coverdale, oltre ad un’ ugola notevolissima
che ricorda Paul Shortino, e lo storico chitarrista
Jan Somers, che ha snocciolato riffs “a presa
rapida” per tutto il corso della serata, divertendosi
lui per primo a dare un trascinantissimo impatto
sonoro ai propri accordi. Qualche birra di troppo?
Probabile, ma dov’è il problema? Anzi
proprio l’ elevato tasso alcolemico anche
sotto al palco ha in un certo senso dato una impronta
indelebile alla serata, sul finale del concerto,
rendendolo davvero un evento memorabile.
Anche il resto del
quintetto olandese ha fatto la sua brava figura,
con una menzione particolare per il drummer Erik
Stout, autentica piovra multitentacolare con la
“grazia” di un fabbroferraio. Pur privi
dell’ elemento storicamente di maggior spicco,
quell’ Arjen Lucassen oggi dedito ad un sofisticato
hard rock progressive con alcuni propri progetti,
a partire da Ayreon fino a Star One e Stream of
passion, i Vengeance continuano a regalare musica
che attinge a piene mani, ma sapientemente, da formule
di sicuro impatto sul pubblico già abbondantemente
collaudate da gente del calibro di Whitesnake, AC/DC,
Accept e persino Saxon. Non c’è magari
la ricerca sonora che ha inteso perseguire Lucassen,
né una spiccata originalità, ma è
solo irresistibile, fottutissimo, rock’n roll.
Con una recente incisione live nei negozi dal titolo
“Same, same…but different”, celebrativa
di 25 anni di onorata carriera, ovvio attendersi
una scaletta che ne ricalchi sostanzialmente i contenuti,
anche se ulteriormente ampliata ad una quindicina
di brani, ed in diversa sequenza.
La sera precedente
la band si era esibita a Piacenza, ospite degli
openers Houston!, giovani di belle speranze che
si erano già visti di recente a Bologna di
spalla ai Backyard Babies e che, reduci da alcune
date guardacaso in Olanda, promuovono il proprio
disco d’esordio “Fast in elegance”,
proponendo un originale mix di sleaze e rock moderno,
infarcito qua e la di qualche accenno punk. Musicalmente
questi ragazzi sanno bene il fatto loro, dimostrano
personalità ed una apprezzabile originalità
compositiva, e sembrano anche avere le idee ben
chiare sulla strada che intendono percorrere. Noi
gli auguriamo di riuscire a coronare le proprie
legittime ambizioni attraverso la giusta determinazione
palesata anche stasera, riservandoci di approfondire
il discorso sulla loro direzione musicale attraverso
la recensione del cd che seguirà a breve.
A Piacenza, si diceva, il pubblico era più
folto (ma va?...), tuttavia mi viene riferito che
i Vengeance non fossero in serata di grazia come
invece stasera. Il gradimento dello sparuto pubblico
va senz’altro emblematicamente sintetizzato
nell’ iperattività, proprio sotto al
palco, di un corpulento personaggio che, cappellino
paramilitare alla Vasco in testa e, soprattutto,
ettolitri di alcolici in corpo, ha dato spettacolo
nello spettacolo. Già durante l’esecuzione
di “Dream world” Jan Somers era sceso
dal palco per dedicargli l’assolo suonandoglielo
letteralmente in faccia, ma è sul finale
del concerto che il tipo riceve la giusta consacrazione
ed assurge a vero protagonista della serata. Oltre
al cilindrone indossato da Goewie per presentarsi
al pubblico, le trovate sceniche dei Vengeance includono,
per la conclusiva Rock’n roll shower, la doccia
onstage del cantante con l’utilizzo di una
autentica “damigiana” di Jack Daniels
(caricata però… a salve…) portata
da lui stesso in verticale sulla propria testa attraverso
una lenta manovra di braccia.
Mentre gli astanti
retrocedevano prudentemente di qualche passo, in
prima fila il personaggio descritto pocanzi restava
imperterrito ad infradiciarsi proprio sotto Goewie.
Parlavo prima di assenza di preconcetti tra i veri
rockers: ben lungi dal risultare una presenza scomoda
o fastidiosa per gli stessi musicisti, a quel punto
il soggetto viene issato di peso sul palco, dove
Somers gli fa indossare la propria Gibson, che suona
cingendolo da tergo per regalargli l’illusione
di essere un membro della band. E lì il tipo
si sfrena… divincolatosi dal chitarrista rivolge
le spalle al pubblico e… voilà: giù
le braghe!!! Interviene provvidenzialmente Goewie,
che lo prende in consegna e tenta di placarlo invitandolo
a cantare. Ma il nostro è talmente “andato”
che non ha più un filo di voce… Allora
il genio dell’ estroso vocalist partorisce
una trovata magistrale per ricondurre nei ranghi
il fan esagitato: viene intimato a tutti gli astanti
di salire sul palco per un karaoke collettivo.
Ad uno ad uno (incluso
chi scrive) ci ritroviamo onstage per un finale
surreale di fronte alla hall rimasta deserta!!!
Tutto il pubblico in 30 metri quadri, musicisti
e strumentazione inclusi…credo che questo
renda meglio di qualunque altra possibile descrizione
l’idea dell’ affluenza di spettatori
al Sottotetto!!! In realtà sono stati attimi
memorabili, sull’accenno del chorus di Highway
to hell, soprattutto per chi ha avuto l’irripetibile
opportunità di immortalarsi in foto con i
musicisti mentre questi erano ancora intenti a suonare
sul palco!!! Serata indimenticabile, che sancisce
l’ennesimo ”capolavoro… incompreso”,
targato BRC. Alessandro Lilli
FIREFEST V Nottingham
– City Hall 25/26 ottobre 2008
Qualche mese fa,
un grave problema di salute aveva talmente allontanato
la musica dalla mia realtà al punto da ricondurre
gli artisti con cui ho avuto in questi anni la fortuna
di entrare spesso in contatto a ciò che rappresentavano
per me venti anni fa: praticamente abitanti di un
altro pianeta, distante anni luce… In tal
senso questa sorta di viaggio su… Marte ha,
paradossalmente, significato per me un ritorno alla
vita reale!!! Idea cullata da circa un anno, ma
poi definitivamente accantonata a causa delle vicissitudini
di cui sopra, questa trasferta inglese si è
invece concretizzata quasi per volontà del
destino, e forse per provare qualcosa a me stesso.
Tempo fa mi ritrovai con tutt’altri intenti
sul sito del Firefest, e venni attratto dal form
per la richiesta di accrediti stampa. Come un bimbo
discolo, e senza l’assenso del buon Moreno,
mi venne l’istinto di compilarlo, fondamentalmente
per vedere di quanta considerazione potesse ancora
godere il sottoscritto, e lo stesso Slam!, in questo
ambiente ed a livello internazionale. La risposta
sono stati due biglietti per l’intero festival
ed un photopass. Credo che Moreno mi perdonerà
la marachella e magari si compiacerà di sapere
che, per quel che mi risulta, quasi sicuramente
l’unico sito italiano accreditato al Firefest
V è stato Slamrocks…
Eccomi dunque a sgomitare
nel photopit di un evento di portata internazionale,
con il mio… "pistolino", tra una
selva di teleobiettivi modello “siffredi”
provenienti da ogni parte del mondo, Giappone compreso!
In realtà il mio accesso al Rock City di
Nottingham è avvenuto ad evento già
iniziato, così non sono in grado di riportare
impressioni sulle prime esibizioni del sabato, che
vedevano impegnati Talon e Loud n’ Clear.
Il rammarico è principalmente per questi
ultimi, che nella prova da studio denotavano un
sound fortemente influenzato dai Danger Danger.
Ma in fondo perché darsi rammarico per le
imitazioni, sapendo che ci aspettano gli…
originali??? E giustappunto sul palco ce ne viene
immediatamente servito un assaggio, attraverso la
performance solista di Paul
Laine. Il frontman canadese, appesantito
ed apparso un po’ impacciato, mantiene una
buona estensione vocale e snocciola anche qualche
apprezzabile assolo di chitarra, ma il suo set è
decisamente sorretto e nobilitato dalla presenza
di altri due componenti dei citati Danger Danger.
Mi riferisco al sempreverde bassista originario
Bruno Ravel, ed al nuovo axeman Rob Marcello (di
cui approfitto per segnalare l’eccellente
cd realizzato in coppia con il vocalist Vestry).
Sebbene Laine attinga dal repertorio di Stick
it to your ears, riesce a coinvolgere il pubblico
solo con la conclusiva "Dorianna", sua
più celebre hit.
A seguire salgono
sul palco i Valentine,
che bissano la presenza al Firefest dello scorso
anno, immortalata da un dvd a tiratura limitata,
e promuovono il disco della rinascita, intitolato
Soul Salvation (anche attraverso la “casuale”
citazione del boss di Melodicrock.com, l’australiano
Mc.Neice). In verità anche stavolta è
presente una troupe televisiva per filmare le esibizioni,
in vista di un imminente dvd celebrativo dell’
evento. Nel corso del festival resterò tuttavia
sconcertato dall’assenza di riprese per tutti
i nomi principali in palinsesto, molti dei quali
accasati con la nostrana Frontiers… Non capisco
a questo punto quanto rappresentativo dell’intera
quinta edizione del Firefest potrà essere
tale prodotto… davvero strano… Comunque,
per tornare alla musica, la presenza di Hugo Valenti
rappresenta per chi scrive la prima intensa emozione,
giacchè siamo al cospetto di colui a cui
sarebbe spettato di diritto, a mio avviso, il ruolo
di successore di Steve Perry. Estremamente simile
nella timbrica vocale, praticamente identico per
fisionomia e gestualità, Hugo mi ha regalato
la irrealizzabile illusione di vedere all’
opera il mio idolo di sempre.
Superlativa, ovviamente, la performance vocale,
anche se curiosamente il cantante ha dimostrato
di trovarsi in leggera difficoltà nell’interpretazione
dei nuovi brani, rispetto al vecchio repertorio
del classico debut, che ha comunque costituito l’ossatura
dello spettacolo. La formazione è quasi integralmente
quella originaria, da Adam Holland a Gerard Zappa
(curiosamente simile all’ex mezzala romanista
e nazionale Bruno Conti), e tiene il palco con scioltezza
nonostante i lunghi anni di inattività. Siamo
già sufficientemente caldi per accogliere
la trascinante esibizione di quell’ “animale
da palcoscenico” che risponde al nome di Jeff
Scott Soto.
Messe alle spalle
le delusioni collegate al divorzio dai Journey (Jeff
è il primo vero ex in scena, tra i sostituti
di Steve Perry), ed il precedente sodalizio discografico,
questo fantastico artista dimostra di aver ritrovato
lo smalto dei giorni migliori e, ripartendo dalla
lineup che lo ha accompagnato durante la sua ormai
decennale carriera solista, dà pieno sfoggio
del suo istrionico carisma, alternando canzoni di
trascinante rock melodico a 24 carati a brani vecchi
e nuovi che lasciano intravedere la sua anima funky.
I brani proposti dal nuovissimo album Beautiful
Mess rendono in sede live molto più che sull’
incisione, e le incursioni al fulmicotone dello
stratosferico axeman Howie Simon, assieme alla pulita
sezione ritmica guidata da un giovanile e simpaticissimo
Gary Schutt, accompagnano una esibizione divertentissima.
C’è anche spazio per un medley acustico
che vede Jeff impegnato alle tastiere, dietro le
quali trova modo di piazzare una simpatica gag,
litigando con un foglio incollato alla pianola.
L’encore poi è mitico, e non fa rimpiangere
la omessa "Stand up and shout" (brano
tratto dalla colonna sonora del film “Rockstar”,
presente in scaletta ma non eseguita). La band,
partendo da una base funky, divaga dai Queen fino
in territori disco, accennando citazioni ai Village
People ed ai Bee Gees. Esilarante il momento in
cui la band si sincronizza nell’imitare all’unisono
le celeberrime movenze del ballerino Tony Manero.
Musica a tutto tondo per un artista dalle doti praticamente
illimitate, nonostante la stanchezza del viaggio
da oltreoceano affrontato poche ore prima. Il primo
grande highlight del festival.
Compito improbo,
per i successivi Pink
Cream 69, riuscire a tener testa
ad una prestazione tanto ispirata e dinamica. I
tedeschi, purtroppo, sbagliano decisamente impostazione,
proponendo un set che ignora quasi totalmente il
loro autentico capolavoro “Thunderdome”,
e creando un massiccio muro sonoro che esalta ancora
di più l’estro di chi li ha preceduti.
I brani si susseguono pesanti e monotoni, nonostante
una prestazione strumentale di tutto rispetto. Incuriosisce
la singolare tecnica chitarristica di Alfred Koffler
che predilige l’uso, nella mano sinistra,
di indice e mignolo, sopperendo in tal modo ad un
vecchio problema fisico che lo limita nell’
uso dell’ arto. Una spiccata dose di autolesionismo
induce i PC69, in chiusura di spettacolo, ad intentare
una specie di duello con Soto sfidandolo laddove
questi è inbattibile, ossia nell’improvvisazione…
E così, mentre la platea invoca "Thunderdome",
i tedeschi pensano bene di uscirsene con una scialba
cover di “So lonely” dei Police, inframezzata
da una breve escursione reggae che cita Peter Tosh…
Clamoroso e penoso autogol!!! Arriva così
il momento degli headliners del sabato, i redivivi
Tyketto.
Prima del concerto
ero scettico sulla loro reale meritevolezza del
ruolo di main attraction, ma è bastato vedere
un Danny Vaughn in forma smagliante muoversi agilmente
sul palco per capire che la leadership della serata
è ampiamente meritata. Concerto semplicemente
stupendo, con Vaughn a tenere autorevolmente la
scena sfoderando una prestazione vocale memorabile,
che ha dato modo a chi scrive di riscoprire tanti
classici del repertorio dei Tyketto, al di là
delle solite "Wings" e "Forever Young".
Band ampiamente rinnovata (oltre a Vaughn l’unico
componente originario è il bassista Jimi
Kennedy). Tra i nuovi chitarristi si distingue per
abilità tecnica PJ Zitarosa, mentre il secondo
axeman Tony Mitchell accompagna da anni Vaughn nei
suoi progetti solisti, ed è anche un componente
dell’ organizzazione dell’evento. Al
momento delle presentazioni viene fischiato da un
gruppo di presenti, ma ritengo più per qualche
oscuro dissapore personale che non per demeriti
artistici o organizzativi. Archiviato in gloria
un sabato già ampiamente appagante, la domenica
siamo di nuovo in trincea per David Readman, dopo
aver deliberatamente risparmiato i timpani durante
l’esibizione degli openers Burn. Il frontman
inglese dei PC69 gioca in casa, e sembra decisamente
disinvolto e a proprio agio. Qualche chiletto di
troppo, ma una voce possente e ben impostata. Ripropone
brani tratti dal suo recente lavoro solista, ed
in definitiva convince e coinvolge più che
con la sua band principale. Si avvicina per il sottoscritto
uno dei momenti più attesi ed emozionanti
del festival, e con esso la possibilità di
concretizzare un sogno che è stata una delle
motivazioni principali ad indurmi a questa avventura:
l’incontro di persona con i miei prediletti
Rox Diamond! Mentre il palco viene allestito per
gli H.E.A.T., l’urgenza di riuscire in qualche
modo ad incrociare Paul Daniels si accresce, non
essendo accreditato per l’accesso al backstage.
E qui incappo in una singolare gaffe che, per certi
versi, potrebbe all’opposto rappresentare
un episodio ampiamente gratificante o quantomeno
una dimostrazione della potenza di myspace. Dal
photopit richiamo l’attenzione di un personaggio
fermo dietro al palco in prossimità dei camerini.
Gli dico il mio nome e gli chiedo la cortesia di
rintracciarmi Paul Daniels. La sua risposta mi lascia
senza parole: "so benissimo chi sei…
io sono Steve Newman! Grazie per la tua ottima recensione
di Decade su Slam!”
…Gli H.E.A.T
vengono introdotti, a ragione, come
la nuova sensazione scandinava. Forti di un album
grandioso che facilmente finirà nelle mie
polls di quest’anno, questi novelli Europe
arrivano al Firefest come rimpiazzo dei defezionari
Pretty Maids, e sono oltretutto costretti a rinunciare
al frontman, rimasto in Svezia per motivi personali.
A sostituirlo, peraltro egregiamente, due amici
della band: il vocalist degli Eclipse Eric e Pekka,
cantante dell’altro gruppo rivelazione Brother
Firetribe. Questa situazione incide purtroppo sulla
scelta dei brani in scaletta, che dà spazio
a covers di pezzi noti per agevolare i vocalists
supplenti, ma a discapito di brani propri degli
H.E.A.T., di cui si rende peraltro necessaria la
trascrizione delle lyrics su fogli incollati al
palco… Facendo leva sull’esuberanza
dei vent’anni, la giovanissima band dimostra
tutto il suo potenziale, a mio avviso soprattutto
attraverso la propria produzione, sebbene limitata
a soli quattro brani. Paradossalmente tuttavia riescono
a coinvolgere anche chi non li conosce ancora, interpretando
alla grande covers illustri come “Cherokee”
degli Europe, “Fool for your loving”
dei Whitesnake e “Separate Ways” dei
Journey.
E finalmente giunge
il momento da me tanto atteso: tocca ai Rox
Diamond!!! Il primo a comparire
sul palco è il chitarrista Kevin Bach che,
bontà sua, mi riconosce e viene a stringermi
la mano. Poco dopo arriva Paul Daniels: un caloroso
saluto e un grosso in bocca al lupo… ma l’emozione
e la tensione gli si leggono negli occhi, dunque
preferisco non importunarlo troppo. A sorpresa sbuca
anche Phil Wolfe, componente aggiunto alle tastiere
che la band impiega in sede live. Un cenno di intesa,
e si china dal palco ad abbracciarmi. E, dietro
di me,… il Rock City… muto! (come direbbe
il filosofo di Zelig…) Paul mi lancia una
shirt della band, che indosso un attimo prima che
inizi lo show. La performance è praticamente
perfetta. Sono loro, senza ombra di dubbio! Pare
che non siano realmente trascorsi 16 anni, come
poi mi confermerà Kevin Bach, dalla loro
ultima esibizione in Giappone, nel lontano 1992.
I Rox Diamond detengono un singolare primato: il
100% delle loro apparizioni live è stato
filmato professionalmente per la edizione in dvd,
eppure non hanno un contratto discografico!!! Dopo
il concerto, davanti ad una birra (per me provvidenziale
per smaltire un imbarazzante olezzo del kebab che
avevo consumato poco prima… che figura del
cavolo!!!) Paul, Kevin e Dwain Miller mi confermano
che la band avrebbe già pronti i brani per
un reale comeback, dopo l’arrangiato (e pur
ottimo) Powerdrive, figlio autofinanziato di travagliate
vicissitudini discografiche. Negli occhi di Paul,
nonostante la eccellente performance offerta da
tutta la band sul palco, leggo una vena di delusione
per ma mancata ricezione di proposte contrattuali,
ed in particolare per un appuntamento probabilmente
fissato ma disertato da chi di dovere…Gli
altri invece appaiono soddisfatti, avendola forse
vissuta come una vacanza europea con tanto di famiglie
al seguito…
Mitch
Malloy si presenta sul palco in
forma smagliante.Non altrettanto può dirsi
dell’ospite di eccezione che lo accompagna
alla chitarra, Tommy Denander, ingrassato in misura
spopositata. Prima del concerto riesco a salutarlo
presentandomi, e Tommy dice di ricordarsi di me
e di Slam! Peccato che però si fosse dimenticato
di mandarmi le risposte ad una intervista che avevo
preparato per lui un paio di anni fa… Il concerto
è gradevolissimo, ed il pubblico dimostra
ampiamente di apprezzare. Mitch ha un pregevole
repertorio di canzoni molto radiofoniche ed al limite
del westcoast. Non pigia mai sull’ accelleratore,
puntando invece sul ritmo e sull’appeal molto
catchy della sua musica. Si permette anche il lusso
di proporre una coversong dei Journey e, nel complesso,
fa un’ottima impressione, e non solo esteticamente
con quell’ aspetto da lungocrinito belloccio
californiano.
La presenza al Firefest
dei White Sister,
pomp rockers da culto che ebbero il loro momento
di notorietà a metà anni ‘80
in particolare grazie al disco “Passion by
fashon” suppongo risponda, analogamente a
quella dei Rox Diamond, allo sfizio personale di
qualcuno degli organizzatori, che ha voluto regalare
a se stesso la libidine di vedere suonare qualche
vecchio mito della propria gioventù. In effetti
l’accoglienza del pubblico è stata
freddina, per volti perfettamente sconosciuti che,
dal palco, insistevano nel rievocare nostalgicamente
i bei tempi i bei tempi che furono, tentando in
tal modo di raccogliere consensi. Musica molto keyboard-oriented,
ma tutto sommato con un buon tiro rispetto alle
mie aspettative. Facendo leva sulla propria vocazione
all’airplay, la band si è offerta spudoratamente
per tornare in qualche modo ad incidere. Gli auguro
tanta fortuna, ma ho il sospetto che dovranno accontentarsi
dell’apparizione sul dvd celebrativo dell’evento,
se mai dovesse effettivamente essere pubblicato…
L’approccio
al gran finale avviene attraverso una gig piuttosto
tranquilla, che tuttavia consente di vedere all’opera
un altro ex Journey, il dotatissimo Steve
Augeri. In buona forma fisica e
vocale, anche Steve è tornato all’antico,
riesumando i gloriosi Tall Stories che lo lanciarono
ad inizio anni ’90 nell’ olimpo rock.
Nonostante un nuovo disco, il set di canzoni è
inevitabilmente incentrato sull’ omonimo album
di debutto, dando modo di riassaporare le tante
belle melodie che ne costituirono l’ossatura.
Gli occhi sono ovviamente tutti puntati su Steve,
che concede al pubblico una citazione del suo non
lontanissimo passato nei Journey solo attraverso
un parziale accenno a "Stone in Love",
sul finale del concerto. Ritengo che, per la giornata
di domenica, sarebbe più equo parlare quantomeno
di co-headliners del Firefest, giacchè in
effetti l’aspettativa per i Danger
Danger non era meno febbrile di
quella per i Firehouse.
La presenza di Paul
Laine nella giornata di sabato aveva alimentato
foschi presagi di un motore a regime ridotto, ma
giacchè nel corso di questo evento non abbiamo
voluto farci mancare niente, ecco a sorpresa sul
palco il grande Ted Poley!!! Per ¾ la formazione
è quella classica, con il solo innesto di
uno strepitoso Rob Marcello al posto di Andy Timmons.
Per Paul Laine c’è spazio solo su “Under
the gun”, in cui si sostituisce a Ted dietro
al microfono, e fa quasi pena vedergli in mano una
bottiglia di scotch pressochè scolata…
Ted invece, nonostante un accenno di pancetta, è
vitale come sempre e, per mia fortuna, preferisce
acqua (soffiandone sorsate in aria mi ha innaffiato
per ben tre volte nel photopit, mortacci…).
La band ha intatto lo smalto dei giorni migliori,
ed i primi due albums sono rivisitati pressochè
integralmente. Faccio prima ad elencare ciò
che mancava e, per quanto mi riguarda, rimpiango
solamente l’assenza di "Rock America".
Durante uno dei brani conclusivi, "Monkey Business",
Danny Vaughn non riesce a trattenersi, ed irrompe
sul palco a cantare i cori a supporto di Bruno Ravel!!!
Un trionfo assoluto… La band saluta preannunciando
un nuovo disco per il prossimo anno.
Tocca ai Firehouse
chiudere degnamente questo memorabile evento. Con
il pubblico adrenalinico dopo la performance dei
Danger Danger, non è compito facile per CJ
Snare e soci tenere testa a chi li ha preceduti…
Sicuramente più in palla e determinati rispetto
all’esibizione bolognese di nemmeno una settimana
prima, i Firehouse danno la sensazione di indulgere
un po’ troppo in assoli di chitarra ed intermezzi
riempitivi. CJ Snare ha miracolosamente recuperato
la forma in pochi giorni, ma non è mai stato
un’ugola possente, e forse ha bisogno di qualche
pausa. A Bologna si era avvalso del bassista, che
lo aveva egregiamente sostituito nel cantare una
cover degli AC/DC (Highway to hell), qui spetta
al batterista Michael Foster, peraltro forse il
più in palla del gruppo, far cantare l’audience
durante un lungo intermezzo ritmico. La scaletta
ricalca quasi integralmente quella di Bologna e,
pur non essendo invero molto lunga (circa 75 minuti)
attinge, come oramai consuetudine per tutte le hairbands
ancora in circolazione, alla prima produzione discografica,
snocciolando tutte le copiose ed indimenticabili
hits, ed ignorando invece tutto il resto, incluso
il pur ottimo Prime Time.
Si chiude in bellezza, poco dopo le 23, con la puntualità
di un orologio svizzero. Un grosso plauso va all’organizzazione,
e personalmente ringrazio in particolare Phil Ashcroft,
per aver saputo gestire in maniera impeccabile un
evento di tale levatura ed ampiezza. Una corsa notturna
nella contea di Sherwood (ma Robin Hood non si è
visto…) verso l’aeroporto per il volo
di rientro dove, distrutto ma entusiasta, posso
tracciare il primo bilancio di un’avventura
esaltante ed indimenticabile. Confido che il buon
Moreno mi perdonerà la “marachella”,
ma a mia moglie chi lo dice che avrei già
una mezza intenzione di tornare anche il prossimo
anno??? Alessandro Lilli
LA FAMIGLIA SUPERSTAR + LIZHARD 3
Ottobre 2008 Bologna
GLAM FEST 5
Ottobre 2008 Argelato
Una quindicina. Non
più di tanti erano i presenti che l’altra
sera “affollavano” (che parolone!) il
Sottotetto di Bologna: Siccome mi sono rotto ufficialmente
le scatole di rinnovare ogni volta la stessa tirata
di orecchie agli assenti, mi rivolgo invece ai quei
soliti 15, taluni accorsi dal Veneto, dalla Toscana
o dalla capitale, per tributargli un semplice ma
sentito: “hey guys, you rock!”. E che
dire poi di musicisti accorsi da Los Angeles per
esibirsi complessivamente, nelle due date già
svolte in Italia, di fronte a non più di
cento persone? Mi viene riferito che la sera precedente,
a Cermenate, vi fossero circa una settantina di
paganti, ma c’è anche da dire che lì
gli openers Lizhard giocavano in
casa…E, tra le “bistrattate” superstars,
stiamo parlando anche di un certo Marco Mendoza,
tuttora componente di una “misconosciuta”
band chiamata Whitesnake!!! Quindici spettatori:
che vergogna per l’ Italia rocchettara…
E proprio l’aitante
bassista, presentatosi cosparso da ettolitri di
profumo che mi sono portato per tutta la serata
dopo una semplice stretta di mano, è stato
la rivelazione dello show.
Ma andiamo con ordine. Aprono i lombardi Lizhard,
con il proprio omonimo cd di esordio freschissimo
di stampa. La band ha il merito di non voler strafare,
dimostrando una volta di più che la buona
musica non ha bisogno di funambolismi. Mi hanno
riportato alla mente un po’ i Gotthard, se
non musicalmente proprio per questa attitudine a
tenere benissimo il palco senza dover ricorrere
ad eccessi per lasciare il segno. Performance impeccabile
e mai noiosa. Il miglior complimento alla band è
senz’altro il cenno di convinta approvazione
che Terry Ilous abbozza sentendoli suonare. Meritano
attenzione.
La main attraction
ha un nome probabilmente sconosciuto a molti, essendo
effettivamente il progetto del valente chitarrista
di origini trevigiane Steve Saluto, ma le superstar
che compongono la famiglia sono nomi da paura: oltre
al citato Mendoza, sul palco è dato di ammirare
Terry Ilous, noto per essere stato frontman dei
class-rockers XYZ, ed il formidabile drummer di
colore Atma Anur, che ha alle spalle numerose collaborazioni
soprattutto con ipertecnici vituosi della chitarra,
senza però dimenticare i Journey… Incentrando
in questo contesto la valutazione su Steve Saluto,
si coglie una estrazione musicale di origini alquanto
eterogenee, dal soulblues al jazz,al funk e qui
abilmente calata in un contesto rock in cui il musicista
dimostra di trovarsi perfettamente a suo agio. Come
per tutte le performances più disertate dal
pubblico cui ho avuto la fortuna di assistere, la
consistenza dell’audience è spesso
inversamente proporzionale in misura clamorosa alla
qualità artistica ed al gusto musicale espressi
sul palco. E che si parli di professionisti con
i controattributi lo testimonia un singolare episodio
occorso durante la penultima track in scaletta:
all’ improvviso Mendoza, forse infastidito
da un problema all’ amplificazione, o forse
in preda ad una crisi da incontinenza urinaria,
molla a terra il proprio basso e si precipita giù
dal palco attraversando la hall di corsa tra lo
stupore degli stessi bandmates. Senza scomporsi
o interrompere l’esecuzione, Terry Ilous si
china a raccogliere lo strumento, improvvisandosi
bassista. Quando Mendoza ricompare dopo qualche
istante, Terry accenna a restituirgli il basso,
ma Marco declina l’offerta e dà un
saggio della propria abilità vocale lasciando
a Ilous il compito di strimpellare fino alla conclusione
della canzone. Spettacolo nello spettacolo, anche
se per pochi intimi! Peraltro Mendoza aveva già
rivelato doti vocali da far invidia a Glenn Hughes
interpretando in precedenza un proprio brano,”Still
in me”, tratto dal suo recente disco solista.A
proposito della scaletta, articolata su appena una
decina di brani, perlopiù firmati da Steve
Saluto, spiccano una interpretazione vocale molto
intimista del classico dei Whitesnake “Here
i go again”, ed un paio di tributi alla carriera
di Terry Ilous, costituiti da “Got to believe”
E dalla conclusiva “Inside out”. Bella
serata, in cui il solo rammarico per lo scrivente
è stata l’assenza dell’ invocata,
attesissima, “Face down in the gutter”.
Ma stasera il piede era staccato dall’accelleratore,
pur trattandosi di una proposta musicale comunque
di primissima qualità. Onore al merito per
tutti, pubblico incluso!
In appendice qualche
considerazione sul Glamfest
tenutosi il 5 ottobre ad Argelato. Questo non intende
essere un report esaustivo della serata, cui ho
preso parte giusto per godermi le esibizioni di
Britny Fox e Bulletboys.
Di fronte ad un pubblico di circa 150 glamsters
vecchio stile, con look ed accessori adatti alla
circostanza, i BritnyFox,
rinnovati nella formazione al punto tale da essersi
resa necessaria la loro presentazione, hanno dato
vita ad uno show abbastanza intenso ed incisivo,
che tuttavia ha lasciato meno spazio del previsto
al disco d’esordio, per concentrarsi soprattutto
sui due lavori successivi. Una decina i brani in
scaletta, molto apprezzati dal pubblico che ha tributato
notevoli acclamazioni all’ unico superstite
della formazione originaria, Billy Childs.
A seguire sul palco
i sempre grandissimi Bulletboys.
Anche qui unico superstite il frontman Marq Torien,
che pur rinunciando alla folta criniera ossigenata
dei bei tempi, mantiene intatto un fisico asciutto
e, soprattutto, le grandi doti di screamer che lo
resero personaggio istrionico di rara levatura.
Da segnalare l’ottimo lavoro svolto dal nuovo
chitarrista, impegnato nel non facile compito di
rimpiazzare un funambolo della sei corde del calibro
del desaparecido Mick Sweda. I brani in scaletta
sono appena otto (più una cover di “Whole
lotta love” dei Led Zeppelin come encore),
ma stavolta i classici più attesi ci sono
tutti. Chiudono degnamente la serata i Pretty
Boys Floyd, tutto sommato in ottima forma,
anche se l’attenzione di chi scrive cala vistosamente
durante la loro gig. Sarà perché la
band si spara i propri due cavalli di battaglia
già all’inizio dello spettacolo, o
forse perche di fianco al palco vanno in scena gli…
heavy pettin’.
No, non mi riferisco
alla band britannica di metà anni 80, ma
alle intense effusioni che hanno visto per protagonisti,
lungo il corridoio di accesso al backstage, prima
Billy Childs, strafatto di birre, con una bella
mora in autoreggenti, poi il vispo chitarrista dei
Bulletboys con una groupie, quindi una specie di
ammucchiata promiscua di criniere colorate…
Al contrario, stranamente in disparte e taciturno
Marq Torien, rientrato in sodina in sala, nascosto
da un cappuccio a quadrettini rosanero, con tanto
di orecchiette in stile Teletubbles… ed io
che a suo tempo ritenevo essere Mick Sweda l’introverso
e tenebroso della band!!!
Comunque una serata
davvero divertente, anche se personalmente sono
andato in bianco…
Il raffronto con l’evento di un paio di sere
prima, offre forse la chiave di lettura per comprendere
una così diversa risposta di pubblico a due
serate egualmente appetibili. In questo caso, più
che un concerto, si è trattato di un vero
e proprio happening, che ha dato modo ai presenti
di rievocare ed esprimere uno stile di vita con
maggiore partecipazione. La famiglia superstar era
invece una esibizione di vecchie glorie, da godere
come semplici spettatori. Forse sta qui la differenza… Alessandro Lilli
ROCK OF AGES 13
settembre 2008 - PalaSharp (Milano)
Giungo al palazzetto
proprio mentre la band inglese inizia a suonare,
e già dopo un paio di minuti le mie aspettative
sono confermate: i Quireboys non
deludono mai. C’è un Nigel Mogg in
meno, un disco in più da ascoltare e promuovere,
e la solita grinta da navigate rockstar da gustarsi
in un sol boccone. Spike e soci attraversano la
loro carriera tra brani vecchi e nuovi, e non lesinano
impegno e grinta, condendo la loro prova con melodie
di spessore e con sapore di polvere sollevata dagli
stivali texani, un buon bicchiere di whisky tra
le mani e una sigaretta tra le dita.
Naturalmente nel loro set c’è posto
sia per i pezzi più festaioli come “Sex
Party” e “7 o’clock”, che
per qualche pezzo del disco di fresca pubblicazione,
più qualche canzone di puro romantic-rock
tanto gradito alle fans della band. Spike si conferma
splendido frontman, bello&solare, ben visto
da tutti e amato da tantissime ex-teenager, accompagnato
da una band che ormai ha passato i picchi storici
di popolarità ma che è ben conscia
del proprio valore. Bel concerto, è sempre
un piacere vederli.
Zio Duff… ma
cosa mi combini???? Sono un vecchio e invasato fan
del platinato bassista, e devo dire che sono rimasto
deluso. Intendiamoci: non è certo lui come
musicista che mi preoccupa, ma la sua band e la
loro proposta musicale. In veste di cantante/chitarrista,
il nostro eroe di Seattle ci propone una band chiassosa,
monocorde e senza una direzione ben precisa. In
sincerità, questi Loaded
hanno volume e un discreto tiro, ma a mio avviso
non hanno un gran gusto nella stesura dei pezzi.
La band si muove su sonorità punk (vecchio
amore di Duff), ma è filtrata da modernismi
che ne snaturano un po’ il significato originale.
L’impressione che si ha è che la band
sia un’alternativa per il loro capo di intervallare
i suoi impegni con bands di ben altro calibro.
Il pubblico, dal canto suo, non partecipa un granchè:
vuoi per i pezzi sconosciuti a quasi tutti, vuoi
perché è preso in contropiede da un
sound caciarone, alla fine il MazdaPalace sembra
“La fiera dell’immobile” più
che un concerto….e poco conta se i pezzi finali
dei Neurotic, e soprattutto dei Guns, intervengono
a salvare un’esibizione traballante, non per
il frontman ma per l’impatto generale della
band. Ah, ultima cosa: Duff è diventato come
il Ragionier Filini….ha sfoggiato un paio
di occhiali retrò spessi come fondi di bottiglia….
Consideriamo la serata come una di quelle storte
nelle quali è talvolta incappato nella sua
rispettabile carriera. Dai, Duff, ti perdono….quantomeno
va sottolineato di come atleticamente e umanamente
tu sia un uomo pienamente recuperato. E non è
poco, visto il tuo passato da esplosione dell’etilometro…
Tornano, dopo lunga
assenza, gli Extreme. Eccezion
fatta per il nome da locale per scambisti, la band
di estremo ha ben poco: rock intelligente e pulitino
per una band tutta in ghingheri.
Il tandem di testa Cherone-Bettencourt dimostra
di saperci fare, e alle loro spalle il trio ritmico
è affiatato e si dimostra capace e di spessore.
Non è il mio genere favorito, troppo precisi
e fighetti per i miei gusti, ma va detto che tecnicamente
sono una band di valore assoluto, che con esperienza
mescola il vecchio e il nuovo. La loro esibizione
spazia su e giù nell’arco dei loro
albums, e la perla che tutti aspettavano da anni
(il pezzo “More than words”) non delude
nessuno, mentre sotto il palco una selva di cellulari
accompagna romanticamente la loro esibizione.
Atleticamente siamo su alti livelli, Gary Cherone
è un frontman che ha voce da vendere, e non
perde un colpo; il pubblico dal canto suo non lesina
applausi e si spella le mani a più riprese
Personalmente ritengo che si siano persi un po’
troppo spesso lungo assoli chilometrici, che tendono
a stemperare un po’ la tensione positiva del
concerto, ma per il resto è una band in piena
forma nonostante la carta d’identità
inizi a farsi sentire.
Ebbene sì:
Dio esiste. E’ passato per Milano in una piovosa
serata di tarda estate, e ad accompagnarlo c’erano
quattro brutti ceffi vestiti come sicari in un balordo
carnevale.
E Dio, con parruccone biondo e bardature nere e
fuxia, ha impugnato il microfono e ancora una volta
ha dato dimostrazione di cosa significhi fare rock
alla maniera dei vecchi.
I Twisted
Sister… dopo essermeli gustati al
Gods qualche anno fa, ero pure partito due mesi
dopo con destinazione Londra (senza biglietto…)
e me li ero bevuti in Terra d’Albione con
un tagliando miracolosamente recuperato da un bagarino
d’origine napoletana mosso a compassione,
e da allora li aspettavo a casa nostra con un’ansia
tenuta a bada solo a colpi di Tavor…
Finalmente tornati
nel regno di spaghetti-pizza-mandolino nelle vesti
di headliner, Dee Snider e soci snocciolano una
grandinata di inni al rock più puro e oltranzista
con rara grandeur: si celebra il 25° anniversario
dell’uscita dell’album “You can’t
stop Rock’n’Roll” e il quintetto
statunitense non si risparmia di certo. I loro hit
ci sono praticamente tutti: da “Stay Hungry”
a “We’re not gonna take it”, dalla
ritmata “I am, I’m me” alla pluridecorata
“I wanna rock”, passando per momenti
più melodici come “The price”
(dedicata dal buon vecchio Dee alla moglie Susan)
a momenti scenografici e indiavolati come “Burn
in hell”, dove il parruccatissimo frontman
fa le veci di un novello Belzebù e si prende
l’ovazione (l’ennesima) della folla,
chiudendo con la terremotate “SMF”,
amatissima dai fans e cantata all’unisono
dalla platea.
La band segue il
proprio leader con una botta sonora degna di un
treno merci in corsa, e fa la sua parte per intrattenere
il pubblico: il pasciuto Jay Jay French ed il mite
“Fingers” Ojeda fanno da contraltare
al dinamitardo e tarchiatissimo AJ Pero e al minaccioso
Mark Mendoza (del quale si segnala una preoccupante
somiglianza con Martins…), che oltre a suonare/prendere
a pugni il proprio basso ci diletta anche con il
piegamento di due aste del microfono, con buona
pace del service…
Il pubblico gradisce
appieno l’esibizione, e dalla prima all’ultima
fila si capisce chiaramente che non ci si aspettava
altro che un ritorno in Italia di questi incredibili
personaggi: gente che ha preso a calci la clessidra
del tempo e che, nonostante la propria età
(siamo intorno ai 55 anni….), dimostra cosa
sia l’adrenalina pura al servizio del rock’n’roll.
Dee Snider in particolar modo gode ancora di un’atletismo
che buona parte dei suoi colleghi ben più
giovani possono soltanto sognare, e un fisico ancora
pronto e reattivo. Ciò che però non
stupisce più nessuno è la sua abilità
di frontman: pochi sono quelli che possono tenere
nel proprio pugno tutta la folla con una simpatia
e una comunicatività come quella di questo
istrione biondo. Far cantare in diretta da migliaia
di persone “Happy birthday” per la moglie
è roba da pazzi….Il rapporto di questa
band con il proprio pubblico riassume, in un certo
senso, il significato del rock: quello di unire
persone molto distanti tra loro, nel senso più
ampio del termine. A tratti, ho avuto l’impressione
che il pubblico non fosse solo fatto di ascoltatori,
ma si trattasse proprio di un’armata, di una
curva da stadio, tanta era la compattezza e la convinzione
verso l’infallibilità musicale della
band.
Un plauso enorme
a Snider e soci, che han fatto esattamente ciò
che ci si aspettava. Ci han regalato rock, decibel,
sudore e passione. Esco dal palazzetto con i balordoni
e un sorriso da Joker sulle labbra, ed è
una delle sensazioni più belle del mondo.
Speriamo di rivederti presto vecchio Dee…
e soprattutto speriamo che la tua signora ti sopporti
ancora a lungo!!! Ma ve lo immaginate ad averlo
come papà uno così???? FaustoBaldo
NEW YORK DOLLS 24
Luglio 2008 - Stezzano (BG)
Syl Sylvain è
un monumento al cattivo gusto. Non lo dico io, l'ha
detto – e a ragione - David Johansen. Qualcuno
suggeriva Luca Sardella... Bé, il sopravvissuto
chitarrista dei New York Dolls assomiglia più
che altro ad Alvaro Vitali e fa ridere almeno quanto
Pierino quando lancia in aria il plettro e –
zero – non riesce a prenderlo neanche una
volta. Syl Sylvain è eccessivo, un monumento
al cattivo gusto appunto, e noi lo adoriamo perché
dismessi i vestiti da donna si diverte ancora, e
tanto, indossando la coppola, un paio di pantaloni
viola agghiaccianti, un fazzoletto sfrangiato al
collo vagamente abbinato agli stivali scamosciati
e un polsino imbarazzante, con un gatto nero che
lui – Sylvain - indica in continuazione dicendo
“sono io, sono io”.
Il concerto di giovedì
scorso, a Stezzano in provincia di Bergamo, aveva
un non so che di bizzarro, naive. Sembrava di stare
alla festa della birra, con il tendone e la cover
band di Vasco pronta a salire sul palco. E invece,
sul palco, sono saliti i New York Dolls. Ecco, li
avevo visti all'Estragon di Bologna un paio di anni
fa e lì, nonostante l'atmosfera da grande
e atteso come-back, non mi avevano tirato scemo.
Alla festa della birra di Stezzano, che poi è
il Druso Under the Sky Festival – e ricordiamolo:
a tre centimetri dalla batteria c'era l'autostrada,
a due centimetri dai camerini il bingo più
grande della Lombardia (e probabilmente del mondo)
e a un centimetro dal tutto, appoggiato alle transenne,
c'ero io – sono stati strepitosi.
Perché i New
York Dolls nel XXI secolo, a quasi quarant'anni
dal primo omonimo album e da quell'altra bomba che
è “Too Much Too Soon”, rimangono
una band della madonna. Sono partiti leggermente
sottotono con “Babylon”, “Puss
'n' Boots” e “We're All In Luv”
(dettagliatissimo eh? Ho la scaletta attaccata al
muro alla mia destra) e dopo è stato il delirio,
dalla scontatissima cover di Janis Joplin
al tributo al compianto BoDiddley.
E a questo punto, su “Pills”, vale la
pena ricordare il nostro Syl Sylvain che mima il
pompino, con la bocca a culo di gallina e un agile
movimento del polso.
Voto al pubblico
sette e mezzo (maturo, salvo i punk di turno obbligati
a pogare), otto a quelli che hanno lanciato un regalo
a Steve Conte che, durante il tour in Italia, sulla
sua pagina di MySpace si gasava dicendo a tutti
che avrebbe trascorso giornate da sogno nella sua
motherland. Mr. Conte riesce ad abbinare cravatta,
coccarda puntata al gilet e chitarra: tanto di cappello,
anzi – fan di Syl Sylvain come siamo –
tanto di coppola.
Per chi non c'era,
altre canzoni suonate in ordine sparso: “Fishnets
& Cigarettes”, “Dance Like A Monkey”,
“Trash” e “Jet Boy”. Per
quanto mi riguarda, l'apoteosi del rock and roll
si è raggiunta con “Human Being”
che mi ha provocato torcicollo e dolori vari per
almeno i due giorni successivi al concerto.
David Johansen -
abbigliato come una mamma che acquista vestiti yé-yé
dai cinesi al mercato e quindi jeans attillati a
vita bassa, cintura borchiata-brillantinata, maglietta
scollata turchese altrettanto brillantinata e stivaletti
bianchi alla Adriano Celentano - ha ben pensato
di cambiare t-shirt prima dei bis. Alla domanda
di Syl Sylvain “ma perché ti sei cambiato?”
la risposta è stata un immenso “non
lo so”. Seguono “Personality Crisis”
e “Tommy”, ciao-arrivederci-buona notte
Milano, che poi è Stezzano provincia di Bergamo.
Signore e signori,
questo è puro spirito rock and roll, mica
cazzi. Dispiace un po' trascurare il batterista
– credo si chiami Brian Delaney – ma
gli manca quel non so che per farcelo piacere. Ovviamente,
non mi sono dimenticato di Sami Yaffa che, perdindirindina
(Hanoi Rocks-JetBoy-Demolition23-eaggiungetecipurequellochevolete),
ha uno stile che lascia senza parole. Saranno i
mocassini viola, sarà quell'aspetto zingaro,
che sarà – sarà quel che sarà.
Que sera, sera, whatever will be will be. Miguel Basetta