old review: 1 2 3 4

Etichetta:
Polydor Records
Anno:
1976
Sito Web www.doorag.f9.co.uk

 

DOCTORS OF MADNESS
“Late Night Movies, All Night Brainstorms”

I Doctor of Madness, a dispetto del nome, non solo non curavano la pazzia, ma semmai ne erano parte integrante e “parto legittimo”, totalmente fuori da ogni schema e difficilmente inquadrabili con i soliti stereotipi, sfuggendo ad ogni cliché presente, passato e futuro! Attivi sin dalla prima metà dei 70’s, il cantante, compositore e mente del gruppo Richard “Kid” Strange (un ceffo stralunato dai capelli tinti di blu), il bassista Stoner (con un make-up alla Frankenstein), il batterista Pete Di Lemma ed il chitarrista/violinista Urban Blitz (già, violinista, con tanto di studi classici alle spalle!), dopo aver ben rodato gli ingranaggi, decisero di entrare in studio verso la fine del 1975 per incidere questo loro disco d’esordio.

Il risultato fu quantomeno spiazzante, non certo per la (alta) qualità della musica proposta, ma proprio per la particolarità del loro sound che, come accennavo in precedenza, grazie ad una combinazione di fattori ed in primis l’uso del violino elettrico, li rendeva assolutamente unici. Se i primi due brani “Waiting” e “Please Don’t Shoot The Pianist”, così come il penultimo “B-Movie Bedtime” mostrano parecchi punti di contatto con il Glam Rock ed una carica trasgressivo/eversiva indubbiamente proto-punk, che dire di “Afterglow”, “Mitzi’s Cure”, “I Think We’re Alone”, “The Noises Of Evening”, “Billy Watch Out” e “Mainlines”? I ritmi spesso rallentano, le atmosfere si fanno crepuscolari, a tratti oscure ed alienanti, creando un clima di angoscia e solitudine, con il violino elettrico a dare un incredibile, oltre che inusuale ed inaspettato, apporto all’eclettico sound della band.

I testi partoriti dalla fervida mente di Kid Strange trattano di nevrosi e decadenza urbana, corruzione e depravazione, disagio ed insofferenza per ogni forma di controllo istituzionale, rifacendosi tanto alla tradizione di cantautori come Bob Dylan, Leonard Cohen e David Bowie, quanto al lirismo “tossico” di William Burroughs. All’indomani dell’uscita del disco, i ragazzi cominciarono un’attività live che dimostrò loro quanto fossero considerati “outcast”, se però da un lato suscitarono reazioni spesso ostili in un pubblico abituato a sound ben più canonici, dall’altro si accorsero di avere conquistato uno zoccolo duro di fan che li seguiva con entusiasmo durante i tour di supporto a Be-Bop DeLuxe ed Heavy Metal Kids.

Erano eclettici, versatili, unici, non a torto considerati una sorta di “missing link” tra il Prog-rock ed il Punk, indicati come fonte d’ispirazione dalle band più disparate, dai Cabaret Voltaire a Julian Cope, dai Simple Minds ai Def Leppard, ammirati anche da gruppi punk del calibro di Damned e The Adverts (Kid Strange collaborò con TV Smith alla stesura del brano “Back from the Dead”). Per ironia della sorte, tutto questo non mise al riparo il gruppo dall’esplosione iconoclasta del movimento Punk, che tutto cercò di spazzar via con veemenza e spesso ci riuscì, anche con band che in fondo avevano contribuito alla sua nascita. Dopo aver inciso il secondo album “Figments of Emancipation” nel 1976, ed il terzo “Sons of Survival” nel 1978, i D.o.M gettarono quindi la spugna. Di recente il loro catalogo è stato ristampato in CD dalla Ozit records, per cui quanti di voi non sono strettamente vincolati al “purismo” rock’n’roll provino a recuperarli, potrebbe rivelarsi una piacevole (ri)scoperta.
Gaetano Fezza

Etichetta:
London Records
Anno:
1975
Sito Web canadianbands.com

 

SWEENEY TODD
“Sweeney Todd”

Credo che la stragrande maggioranza dei rockers, anche negli angoli più sperduti del pianeta, sappia di cosa tratta il recente film di Tim Burton “Sweeney Todd”, non fosse altro che per la presenza di Johnny Depp, autentica icona per chi il rock’n’roll lo ama, lo vive e lo “respira” quotidianamente (davvero qualcuno non conosce i suoi trascorsi da musicista, in particolare l’ultimo periodo nei grandissimi RockCity Angels?). Sono pronto a scommettere però che in pochi sanno che Sweeney Todd negli anni 70 era anche il nome di una Glam Rock band canadese che per bravura, carisma ed attitudine non era davvero seconda a nessuno.

Jim McCulloch (gt) John Booth (dr) Budd Marr (bs) e Dan Gaudin (keys), trovarono nel giovane Nick Gilder, nato in Gran Bretagna e da poco trasferitosi a Vancouver, il cantante ideale per completare la formazione che incise questo disco d’esordio che merita senz’ombra di dubbio di entrare in un ipotetica top-list di album 70’s Glam Rock. Gli ingredienti per sfondare c’erano tutti, dal look alla perizia tecnica, passando per la voce di Nick, dolce ed impertinente, suadente ed efebica al punto da confondersi con una voce femminile, pressoché perfetta per il genere proposto. Basta un solo ascolto del brano d’apertura “Roxy Roller” per restare incantati dal loro sound, connubio perfetto tra rock’n’roll e sensualità, energia e melodia, non a caso diventerà il loro hit per eccellenza conquistando il nr.1 nelle charts canadesi e verrà ripreso un paio d’anni dopo da Suzi Quatro, che ne farà un suo cavallo di battaglia.

L’intero album segue le stesse coordinate, non una nota fuori posto, non un brano sottotono, i ragazzi dosano alla perfezione rock’n’roll e melodia, grinta e dolcezza, creando un groove perfetto per la calda voce di Nick, anche grazie al prezioso apporto delle keyboards, molto ben inserite nei brani, non preponderanti, non invadenti ma assolutamente complementari ai classici strumenti “rock”, con buona pace dei tanti detrattori. E’ veramente un piacere ascoltare un album di questa caratura, dove ogni singolo brano è un potenziale hit, da quelli strutturati nei più classici stilemi rock’n’roll come “Short Distance, Long Journey”, “Rock’n’Roll Story”, “Daydreams”, “Rue De Chance”, a quelli più d’atmosfera come “Juicy Loose” e “See What We’re Doing Now”, passando per la suite strumentale “The Kilt”, bellissima cavalcata rock con innesti di tastiera che si rifanno alla tradizione scozzese.

Come spesso succede nella vita reale, ed ancor più spesso in ambiente musicale, nonostante le grandi potenzialità le aspettative della band non si concretizzarono, e dopo l’abbandono di Nick Gilder (che se ne andò per avviare una carriera solista di tutto rispetto) venne reclutato un giovanissimo Bryan Adams (allora sedicenne) con cui incisero nel 1977 il secondo album “If Wishes Were Horses”, ma questa è un’altra storia, che prima o poi vi racconteremo… nel frattempo fate il possibile per recuperare una copia di questo gioiellino.
Gaetano Fezza

Etichetta:
Gazell Records
Anno:
1974
Sito Web www.tears-igen

 

TEARS
“Tears”

La Svezia è terra fertile e generosa nei confronti del rock’n’roll, con una lunga tradizione che affonda le radici nei lontani anni ‘60 e porta dritta ai giorni nostri, tanto che oggi la si può considerare un fulcro vitale della scena internazionale, grazie soprattutto al movimento ormai consolidato conosciuto come “Scan-Rock”. In questo meraviglioso paese non poteva certo passare inosservato un fenomeno di portata mondiale tale da infiammare animi ed ormoni di un’intera generazione quale fu il Glam Rock, negli anni ’70 si affacciarono quindi sulla scena alcune band il cui eco è giunto fino a noi grazie al magico mondo di internet, dove può trovare una piccola ribalta anche chi altrimenti sarebbe destinato a rimanere patrimonio di pochi “eletti”.

Le cronache, tralasciando i famosissimi Abba (c’è chi considera Glam quantomeno i loro primi singoli, io propendo più per il Pop…) ci tramandano una manciata di nomi “minori” quali Magnus Uggla, Blue Swede, Harpo, e questi Tears che, in virtù dell’alta qualità della musica proposta e per l’aver inciso nei 70’s tre album oltre ad alcuni singoli, meritano un discorso più approfondito. Da quanto si evince dal loro sito, purtroppo disponibile solo in Svedese, il primo nucleo della band si forma nel 1968, dapprima come cover band di Beatles, Rolling Stones, Small Faces ed altri gruppi della 60’s British invasion, in seguito arriva la sterzata verso il nascente Glam Rock, che comincia ad impazzare anche fuori dai confini inglesi, grazie ad artisti come T.Rex, D. Bowie, Slade e Sweet.

In particolare questi ultimi risultano essere l’autentica musa ispiratrice degli svedesi e la line-up che incide quest’esordio discografico, formata da Lars "Fubbe" Furberg (vc), Matti Vuorinen (bs), Eddie "Eddan" Eriksson (gtr) e Hasse Fogelberg (dr), si presenta con abbigliamento, trucco ed approccio stilistico in linea con quanto proposto dalla mitica band d’oltremanica. I brani, semplici ma ben strutturati, innestano cori bubblegum e ritornelli catchy su un robusto telaio rock’n’roll, ispirato ed energico. E’ arduo rimanere indifferenti ai ritmi di “The Ballot Band”, “Stranger In Town”, “Ooh Lah”, “Duke Of Friday”, “Ollie”, “Anywhere, Anytime, Anyone” e “We All Like Music, Don’t We”, che sembrano concepiti per scatenare l’audience in una danza frenetica, scaletta perfetta per una notte in discoteca quando ancora questi locali si chiamavano Boobs, Ooh Poo Pah Doo o Rodney’s English Disco, e non conoscevano infestazioni virali da disco-music ed “ammazza-neuroni” vari generati in seguito.

Abilmente intercalate tra questi brani, fanno capolino alcune ballad dolci e malinconiche: “I Will Follow”, “My Canary” e “Oobie Doobie La La Song”; quasi a voler stemperare la frenesia e dare un attimo di respiro a chi, tra un brano “stomp” ed un boogie, accompagnati dall’immancabile “handclapping”, ritrovatosi a corto di energie si lascia cullare dolcemente tra luci soffuse dal tenero abbraccio dell’amata pulzella… Qualcuno inventi la macchina del tempo, per cortesia… Come accennavo in precedenza, i Tears non si fermarono a questo raccomandatissimo disco d’esordio, ma ne pubblicarono altri due.
Purtroppo al momento non so dirvi nulla del terzo, ma per quanto riguarda il secondo ed altrettanto valido “Rocky-T”, due sono le cose da annotare: il look è più sobrio, meno appariscente, ed il suono è più curato e robusto, di chiara matrice Hard Rock, indice di una maturità cercata e sapientemente trovata, un po’ il loro “Desolation Boulevard”, esattamente come la title-track è la loro “Fox On The Run”. Che si preferisca il lato bubblegum Glam o quello più maturo, una cosa è certa: sono assolutamente da riscoprire.
Gaetano Fezza

Etichetta:
Skeller Records
Anno:
1990
Reperibilità Italia:
Rep. Estero:
Prezzo Indicativo:
10€
Sito Web www.myspace.com

 

UNCLE SAM
“Letters from London”

Tre anni dopo il clamoroso esordio “Heaven or Hollywood”, i quattro rockers di Rochester tornano in pista con l’attesissimo seguito “Letters from London”, titolo maturato durante la breve ma intensa tournee inglese del 1989. Da segnalare alcuni cambiamenti di formazione: Jeff Mann sostituisce il batterista G.Avery Brisk che lascia la band al rientro in patria, ed il nuovo bassista Bill Purol sostituisce Dave Gentner, che passa senza problemi dietro al microfono, sostituendo il defezionario lead singer Scott Cessna.

Niente di grave, sia in virtù del fatto che la vera mente della band sembra essere il chitarrista Larry Miller, sia perché Dave, forte di una timbrica straordinariamente simile a quella del predecessore, se la cava egregiamente e non lo fa certo rimpiangere. Le coordinate sonore non si discostano di molto dal lavoro precedente, ed anche se non è impresa facile ripetersi a certi livelli, i nostri non deludono affatto le aspettative. I nuovi brani sembrano un pelino più puliti e ricercati, frutto di una naturale quanto inevitabile evoluzione dovuta all’esperienza maturata, ma non perdono certo in aggressività, velocità d’esecuzione e potenza. Un micidiale rock’n’roll riffing domina l’intero album e spinge verso paragoni di assoluta eccellenza, impossibile non pensare ad Alice Cooper, MC5, Iggy e N.Y.Dolls, ma non si tratta certo di scopiazzature più o meno ispirate, la band ha personalità da vendere ed il disco suona esageratamente, maledettamente “Uncle Sam”!

Forse, come fece notare all’epoca parte della critica, manca il pezzo “trainante”, che si erga palesemente sugli altri come fu per “Heaven or Hollywood”, brano d’enorme spessore assurto ad inno ed autentico “trademark”, ma se di “livellamento” si può parlare ci tengo a sottolineare che è verso l’alto, con una qualità media dei brani di livello pari o addirittura superiore al disco d’esordio. Impossibile restare indifferenti alla carica erotico/oltraggiosa di brani come “Red Shirt” o “Crystal” (“…..you’re just like crystal baby, I see right through you… and don’t you know your legs are like little sticks of dynamite…”!!), ma mi è davvero difficile indicare delle preferenze, dovrei semplicemente trascrivere l’intera track-list ed amen! Assolutamente da avere e conservare gelosamente a fianco di “Heaven or Hollywood” e da ascoltare fino alla nausea (che, guarda caso, non è mai arrivata!). Passeranno altri tre anni prima dell’uscita di “Fourteen Women, Fifteen Days”, lavoro leggermente sottotono nonostante (o proprio per?) la produzione del famoso “burattinaio” Kim Fowley, rimarrà il terzo e conclusivo capitolo di una rock’n’roll saga indimenticabile, purtroppo conclusasi prematuramente.

Qualche anno dopo ritroviamo Dave Gentner nei The Veins, autori ad oggi di un paio di buoni CD, ma per quanto il cantante sostenga che siano la “naturale evoluzione” degli Uncle Sam e risentire la sua voce mi procuri un brivido lungo la schiena, manca “qualcosa” …chissà, forse è solo nostalgia… o forse dovrebbero andarsene un po’ ad Hollywood e poi a Londra anche loro…
Gaetano Fezza

Etichetta:
Skeller Records
Anno:
1987
Reperibilità Italia:
Rep. Estero:
Prezzo Indicativo:
20€
Sito Web www.myspace.com

 

UNCLE SAM
“Heaven Or Hollywood”

Ricordo come fosse ieri la prima volta che sentii parlare degli Uncle Sam: fu leggendo la recensione dell’opera prima “Heaven Or Hollywood”, opportunamente corredata dalla riproduzione a colori della cover, com’era in uso sull’amata/odiata H/M, una delle prime riviste ad occuparsi di Hard & Heavy in Italia, pionieristica ed approssimativa ma con un fascino tutto suo ed a suo modo essenziale in anni in cui il termine “Internet” poteva al massimo far pensare ad un qualche fallo sotto rete a bitch-volley…

Altri tempi si, ed altre band, più passa il tempo e più me ne convinco, sarà l’anagrafe, sarà l’indigestione di dischi (eh si, altro rimpianto di quei tempi, il “sacro” vinile…) che feci all’epoca, ma ben poche band mi hanno in seguito esaltato come gli Uncle Sam. E due parole per la Cover le vogliamo spendere? Bella, sensuale ed indubbiamente d’effetto, tanto che si parlò quasi più di quella foto che del disco in se, non che fosse un male, l’importante era parlarne e spingere la gente ad incuriosirsi, in tempi in cui reperire dischi d’importazione auto-prodotti o stampati su piccole indie come la Skeller Rec. era spesso un’impresa. Fin dal primo ascolto, facilitato dalla ristampa inglese su Razor Rec. (tanto per intenderci quella con la cover rifatta, dove un'altra modella posa indossando il perizoma, “puritani” e bigotti del caXo…), era chiaro di trovarsi al cospetto di un lavoro forse un pochino acerbo, grezzo e nevrotico, intriso d’inquietudine post-adolescenziale, ma proprio per questo fresco ed “elettrico” come pochi, con tutto il carisma necessario per emergere dalla marea di street-works che di li a poco sarebbero spuntati con frequenza allarmante.

Bastava un solo ascolto per innamorarsi di quella manciata di brani lisergici e tossici come “Alice D” e “Under Sedation”, crudi e disperati come “Live For The Day” e “Don’t You Ever”, nervosi e maledetti come “Don’t Be Shy” e “The Candyman”, ed il gran finale con la meravigliosa title-track “Heaven Or Hollywood”, apoteosi onirica e lancinante di un disco che è esplosiva miscela di street-rock’n’roll, garage, punk ed un pizzico di psichedelia. Questa ”street gang” sembrava uscita da un vicolo buio e puzzolente di Rochester (N.Y.), incarnando alla perfezione “l’altra faccia della medaglia”, quella lontana dalle “Luci della Ribalta” allora puntate inesorabilmente sull’assolata L.A., dove la decadenza urbana era spesso ridotta a semplice “posa”, filtrata e costruita ad hoc da uno star-system impietoso e falso. Gli Uncle Sam fecero da contraltare sia dal punto di vista estetico, laddove il glamour lustrini e paillettes cedeva completamente il passo al look “brutto, sporco e cattivo”, che da quello prettamente musicale, con melodie ridotte all’essenziale su scariche adrenaliniche di pura dinamite rock’n’roll, cantando di degrado urbano, di droga e vite vissute (e spesso bruciate) alla giornata, urlando il loro disagio giovanile a squarciagola con la veemenza di chi è costretto a vivere “borderline” senza accettarlo passivamente…

Un piccolo ed attualissimo capolavoro che non deve assolutamente mancare in una discografia Rock’n’Roll degna di questo nome, magari procuratevi la ristampa in CD, contiene un paio di bonus tracks anche se (ahimè) vi dovrete accontentare della modella in perizoma...
Gaetano Fezza

Etichetta:
Pull Music
Anno:
1995
Reperibilità Italia:
Rep. Estero:
Prezzo Indicativo:
20€
Sito Web scomunica.com

 

SCOMUNICA
“Scomunica”

Ricordo ancora che, molti anni fa, rimasi sbalordito a vedere dal vivo questa band...tra acuti allucinanti, riff al fulmicotone e colpi di batteria dirompenti, gli SCOMUNICA, facevano così ingresso nel mio cuore, lasciandomi senza fiato.
Portatori della bandiera dell'Hard Rock del Tricolore nazionale, divennero in brevissimo tempo un'icona del genere. Come già detto nella recensione del disco nuovo, gli Scomunica, effettuarono un vero e proprio cambiamento tra le file del popolo notturno e rock n roll del Nord dell'Italia. Fautori di uno splendido hard rock cantato in italiano, furono sottoposti all'attenzione di diverse etichette ma non riuscirono mai ad avere la giusta fortuna. Moreno DelSignore, fondatore e singer della band, proseguì anche senza i suoi stretti collaboratori, di cui voglio ricordarne i nomi: Graziano Demurtas e Alberto Bollati (che molti di Voi riconoscono come WINE SPIRIT).

Il loro primo full lenght spiazzava per l'energia e la melodia insita in ogni brano. Moreno, che qui incarna un Sebastian Bach italiano, porta, brano dopo brano, l'ascoltatore in un turbine di emozioni, partendo proprio dal primo brano "Scomunica", proseguendo nel metal melodico di "Diverso" sino a giungere alle Zeppeliniane "Prima che sia il nuovo giorno" e "La più antica magia". La prima ballata del disco è incentrata sulle note di "Noi possiamo scegliere" che, se cantata in inglese, sarebbe stata sicuramente una hit single dei tempi d'oro. Il melodic rock di "Mille volte no" lascia spazio alla ennesima traccia dal sapore Zeppelin intitolata "Sacrifice". Con "Ero" lo stomaco si chiude... brano emozionante di piano e voce che è siglato anche da un testo sopra le righe e che, divenne ed è rimasto, uno dei miei personali cavalli di battaglia.

"Faccia da indiana" ripercorre il sound hard rock settantiano mentre nella penultima traccia intitolata "Con il sole in tasca", un suono da carrilion, in compagnia della voce di Moreno, introducono ad uno dei brani più riusciti degli utlimi anni; simili ai Litfiba di "Eroi del vento" e ad alcune song dei Queen, gli Scomunica chiudono in bellezza con questo pezzo e con l'ultimo brano strumentale intitolato "Insieme, ciao baby" che, con la sua malinconia, fa sognare avvolti in una bandiera di malinconici ricordi.
Sorretti, purtroppo, da una produzione italiana non capace di intendere e relazionarsi con le produzioni estere in ambito hard rock, l'album risente pesantemente di poca attenzione ai suoni di maggior impatto, come chitarra e batteria ma, nel contesto, direi che l'album è un ottimo episodio di hard rock italiano. Da avere nella propria collezione.
Marco Paracchini

Etichetta:
Sonic Past Music
Anno:
Ristampa 2003
Reperibilità Italia:
Rep. Estero:
Prezzo Indicativo:
12$
Sito Web sonicpastmusic

 

SHARK FRENZY
“Vol. 2: Citizen Invisible”

Gradevole chicca per tutti i fanatici dei Bon Jovi, con questo lavoro che vede un giovane e Richie Sambora alla fine degli anni 70 insieme a musicisti della scena locale come Bruce Foster e formò questi Shark Frenzy.
Mi sembra fuori luogo dilungarmi su presentazioni a Richie Sambora e dico qualcosa sull'allora diciannovenne Bruce Foster, che hai più questo nome non dirà nulla, ma che in realtà ha collaborato con diversi nomi celebri, suonando ad esempio le tastiere nei Kiss, firmando song come "Look Out For # 1" per la soundtrack di Staying Alive o "Trail of Broken Hearts" di Cher e scrivendo con Richie un paio di pezzi su "Stranger In this Town".

"Vol. 2: Citizen Invisible" come avrete capito è il secondo volume dei 2 presenti sul mercato, 12 pezzi più una bonus track ("Golden Slumbers/The End" dei Beatles) che hanno ben poco a che vedere con l'arena rock a cui i Bon Jovi ci hanno abituato, quindi scordatevi corettoni di scuola Desmond Child e fate qualche passo indietro verso le sonorità di fine anni '70, un rock melodico tinteggiato di blues con lunghi soli che per certi versi può ricordare il Meat Loaf d'annata.

Alla voce troviamo quasi sempre Foster, ma c'è spazio anche per Sambora che si impossessa del microfono in "A Good Life", nella bluesy "I Need Your Love" e nella conclusiva cover dei Beatles registrata nella reunion del 2004.
Sambora formò poi nel 1980 i Message con appunto Foster, Fasano (Prophet) e il bassista Alec John Such (che il chitarrista ritroverà anche con la band di "New Jersey") e iniziarono a girare i club dell'East Coast aprendo anche per Joe Cocker, il resto è storia...
Moreno Lissoni

Etichetta:
Self produced
Anno:
1992
Reperibilità Italia:
Rep. Estero:
Prezzo Indicativo:
30$
Sito Web www.cdbaby.com

 

QUOTA
“Stick To Your Guns ”

Dopo la recente mega nevicata i paragoni con quella del 1985 si sono sprecati e così via di ricordi a pensare che in quell'occasione la mia generezione si ritrovava a stare a casa da scuola e a giocare a palle di neve. La coincedenza vuole che proprio in questi giorni mi sia arrivato un CD risalente al 1992, che a livello di sonorità ci rimanda proprio a metà degli anni 80, quell'hair metal (o chiamatelo come volete) che imbottiva gli scaffali dei negozi e le copertine delle riviste dell'epoca con rocker lungo criniti e dai grotteschi look.

Di questa schiera di band fanno parte anche i canadesi Quota, power trio formato dal chitarrista e cantante Richard Moreton, dal batterista D.C. Cudmore e dal bassista Grant Anderson fautori di un album di tutto rispetto dove gli Icon di "Right Between the Eyes" incontrano i Whitesnake di "1987".
L'album fila via liscio e pur non essendo una pietra miliare di questo filone musicale, potrà accontentare i nostalgici del genere che apprezzeranno senza affanni brani come l'opener "Stick to Your Guns" o la radiofonica "Making Love" che sembrano essere nate da qualche session insieme a Dan Wexler.

La power ballad "Missing You" e "Midnight Rider" sono altri 2 punti di forza di questo album, che vede solo la conclusiva lenta "Maranda Rose" come unico neo di un pregevole disco di hard rock made in 80's!
Moreno Lissoni

Etichetta:
Dragster Music
Anno:
1990
Reperibilità Italia:
Rep. Estero:
Prezzo Indicativo:
80$
Sito Web starfuckerstar.com

 

STAR STAR
“Go Go Girls In Love”

Che cosa sono capaci di fare le ragazze innamorate? Follie e danni a loro stesse, oppure vivono felici e senza pensieri? A tutto questo e a molto altro danno risposta a modo loro gli Star Star in questo loro primo lavoro, uscito dal profondo degli anni Ottanta e da cui traspaiono ben evidenti alcune delle caratteristiche che accompagneranno fedelmente il gruppo nella sua carriera. Ad una registrazione volutamente approssimativa, anche se non ai livelli di un demo black metal della prima ora, con chitarre che a volte arrivano quasi a rasentare volutamente la stonatura, si accompagna il miscuglio tra sonorità e tematiche tipiche del rock e del punk, in modo quasi meccanico.

È proprio questo miscuglio a caratterizzare maggiormente e a rendere tipici i dischi degli Star Star. Si può quasi seguire un andamento ritmico, una canzone più vicina al rock ne segue una tipicamente punk, e così via per tutto il disco. Fanno eccezione alcuni elementi di rottura, tra cui “Drop her”, caratterizzato da un riff portante molto lento, dal ritmo lento ed a tratti quasi ossessivo, e “Laura’s on the roll”, che ha un lungo finale strumentale in cui spuntano anche in minima parte le tastiere. I temi trattati in realtà sconfinano da quello proposto nel titolo, ruotano attorno a storielline semplici, incentrate su oggetti e situazioni del quotidiano (“My stereo and I”), aventi come protagonisti, come si vedrà anche in seguito, personaggi dall’esistenza non proprio cristallina (il brano in stile punk veloce dal titolo “Whore whore” è più che indicativo), ma con uno spirito di fondo abbastanza spensierato e propenso allo scherzo.

Evidentemente, in questo gli Star Star risentivano dell’atmosfera generale del decennio in cui venne pubblicato questo disco. Johnnie Holliday, capo della band da allora fino ai giorni nostri, dà una buona prova delle sue capacità vocali e compositive, forte anche di buoni musicisti, che pur avvalendosi dei propri strumenti in modo essenziale (basta guardare il drum kit di Chris Madl per rendersene conto) ne traggono le idee giuste per produrre un buon disco. Resta però da aggiungere una nota di rammarico per il fatto che il disco sia fuori stampa e quindi estremamente difficile da reperire.
Anna Minguzzi

Etichetta:
Voss Music
Anno:
1992
Reperibilità Italia:
Rep. Estero:
Prezzo Indicativo:
30 Euro
Sito Web batten.com

 

JENNIFER BATTEN
“Above, below and beyond”

Ha i capelli gonfi e tinti di platino, il rossetto rosso e l’aria severa, una Ibanez dipinta magistralmente raffigurante l’effige della maschera funebre di Tutankamon e un orecchino a forma di chitarra gialla che farebbe invidia a chiunque. Si presenta così Jennifer Batten, una delle pochissime donne emerse nel mondo prettamente maschile dei chitarristi solisti, personaggio eclettico, balzata alla ribalta per essere stata scelta fra tanti da Michael Jackson per il tour mondiale di “Bad”, nel 1989. Era con lui anche nello spettacolo dell'intermezzo del 27° Superbowl, il programma dall'audience più estesa della storia della televisione (un miliardo e mezzo di persone).
Unico difetto di questa musicista (anche pittrice, tra l’altro) è quello di produrre all’incirca un disco solista a decennio, ritardando di anni l’uscita del lavoro successivo, viste probabilmente le svariate collaborazioni con artisti del calibro di Jeff Beck (con cui suona in pianta stabile dal 1998) o Sting.

Above, below and beyond” non può non piacere agli amanti dello shred, per via dei virtuosismi tecnici che caratterizzano lo stile di Jennifer Batten (in particolare è un’esperta del tapping a due mani), ma lo stile immediato, l’originalità delle composizioni e la brevità di buona parte dei pezzi piaceranno anche agli amanti del rock. “Cat figth”, ad esempio, è un pezzo costruito a partire da un riff di una semplicità che rasenta il banale e da una serie di scale ascendenti e discendenti che hanno la velocità come unica nota di merito. Eppure, nonostante questa struttura, il pezzo è uno dei migliori e più originali del disco. Le influenze del rock si sentono bene anche in “Voodoo”, brano abbastanza lento, ma non per questo privo di tecnicismi molto interessanti, e in “Mental graffiti”, ottimamente supportato dalla batteria di Shokti, che qui dà veramente fondo a tutte le sue energie. Allo stesso modo si apprezzano le due cover, “Respect” di Otis Redding, un altro pezzo arrangiato molto semplicemente, dando molto spazio alla voce e ai cori, ma soprattutto “Giant steps”, di John Coltrane, il brano che per primo fece salire Jennifer Batten alla ribalta.

Per quelli che invece affermano che, in un buon brano, non possono mancare virtuosismi sfiancanti, arpeggi e sfoggi di tecnica lunghi minuti e minuti, la velocissima “Ya ain’t nothing like a fast car” e soprattutto “Hairbangers hairspray” sono ciò che serve.
In generale, si può dire che tutto il disco, che fruisce tra l’altro di una produzione molto pulita e che mette ovviamente in luce le sei corde, risenta molto dell’influenza degli anni Ottanta; tuttavia alcuni pezzi, come “Secret lover”, con i suoi intermezzi di cantato rap, o “Wanna be startin’ something”, ricca di suoni elettronici che si mischiano a una chitarra in puro stile rock, non solo sono al passo con i tempi in cui venne registrato il disco, ma anzi precorrono in parte stili diventati di gran moda negli anni successivi. Chi scrive ha poi avuto occasione di vedere una sua esibizione dal vivo, e conferma l’impressione di un’artista come poche, all’apparenza instancabile, tanto precisa e raffinata nella semplicità delle sue composizioni quanto gentile e disponibile fuori dal palco.

Dedicato a tutti coloro che pensano che le donne che bazzicano nell’ambiente del rock debbano essere semplicemente delle presenze decorative, al massimo delle sottospecie di roadie che a fine concerto ti possono, forse, aiutare a mettere via le attrezzature, e che soprattutto non si devono azzardare a prendere in mano uno strumento diverso dalla batteria di pentole della cucina, perché suonare è cosa da uomini.
Anna Minguzzi

Etichetta:
Arista (USA) / BMG (EU) / Thunder Music (JP)
Anno:
1987
Reperibilità Italia:
Rep. Estero:
Prezzo Indicativo:
25 $ (LP)

 

VOW WOW
“V”

Giappone: una terra, una garanzia.
Legato a questa terra per la loro storia, i loro cartoons, i loro videogiochi e le loro autovetture, rimango anche colpito dalla loro longevità discografica, attenta sempre e comunque ai vari fenomeni Hard & Heavy.

Se il giovane pubblico lettore di SLAM! crede che sia solo una terra per far bivaccare i gruppi statunitensi ed europei che ormai han due lire in tasca, si sbaglia di grosso. L’isola del Sol Levante ha dato, a modo suo, un contributo fondamentale per l’hard rock mondiale. I VOW WOW e i LOUDNESS ne sono le punte di diamante ma ci sono dozzine di bands che farebbero impallidire un sacco di bands che pretendono di ritenersi ancora “star”.

I VW sono tosti, brillanti, energici, solari, esaltanti e chi più ne ha più ne metta. Hanno sfornato sei dischi ufficiali più una raccolta e un live (questi due reperibili solo in giappone/ndr).
Questo disco, il quarto della loro carriera ma inspiegabilmente chiamato “V”, è una bomba a orologeria. Per quanto io lo ascolti ormai da più di 15 anni, ogni volta che sento brani come “Somewhere in the night” o “The girl in red” o ancor di più “Same time” non posso fare a meno di cambiare umore, facendo smorfie di compiacimento e pensando sempre a una frase del tipo “’sti cazzi… che roba!”. Ebbene, che la frase stupida citata possa essere un riferimento sostanziale di questa review perché di grande album si tratta! L’esaltante Hard Rock pesante e pomposo rendono questo disco una medicina di inesauribile efficacia. I suoi suoni, puliti e mixati a regola d’arte, i testi, curati e rielaborati da un team americano, la voce, alta, suadente e potente come poche sanno essere, danno il giusto appeal ad un genere ormai scomparso.

Kyoji Yamamoto, chitarrista, firma quasi tutte le composizioni, dando spazio anche a Rei Atsumi (tastiere) e lasciando al resto della band il giusto spazio affinché possano dimostrare la loro bravura: Toshiro Niimi (bt) e Neil Murray (bs). Genki Gitomi è il vocalist di eccezionale virilità.
La produzione, affidata ad un nome storico, John Wetton (ASIA), rende ancor più plausibile la bellissima e potente produzione (il disco fu registrato in Spagna/ndr) di questo combo nipponico che mai, come in questo disco, ha reso la storia dell’hard rock nipponico, unico nel suo genere.
100 e lode, pienamente meritato!
Marco Paracchini

Etichetta:
CBS
Anno:
1990
Reperibilità Italia:
Rep. Estero:
Prezzo Indicativo:
20 Euro (LP)

 

SATROX
“Heaven Sent”

Nel marasma più totale dei dischi di “serie b” del vastissimo panorama hard rock, compaiono anche questi svizzeri chiamati SATROX. La loro carriera inizia e finisce nel giro di un paio di anni e del relativo rilascio alla massa di due Lp. Il primo è proprio questo “Heaven Sent” che cerca di conquistare i cuori dei più accaniti fans del class metal americano.

Sconosciuti ai più ma elemento significativo per tutti gli accaniti collezionisti di vecchi Lp, questi rockettari elvetici sono arrivati prima dei più famosi Gotthard e degli Shakra eppure il loro piccolo successo non è mai stato ricordato.
Più ricercati nei paesi asiatici, i S. ci lasciano questi due fantastici dischi di Heavy Rock de luxe con riffoni veloci, pesanti, amalgamati sempre da tappeti di tastiere egregie. La voce di Werner Schweizer è acuta, tagliente e molto più incline all’heavy epico simil-LOUDNESS.

Il 45giri prosegue senza mai annoiare pur presentando cliché abbastanza scontati. Tra quanto fatto anche dai WHITE WOLF e da AXEL RUDI PELL, le nove tracce si fanno ascoltare portando attimi di pura esaltazione come nell’apripista “More than a feeling” (no, non la cover… ndr) o nella malinconica “Living a dream”.
La cavalcante “Heaven” ricorda il DIO degli album degli esordi sebbene i testi e la voce sarebbero più riconducibili ai cristiani STRYPER. La bellissima “Together forever”, power ballad e penultima traccia del disco, ci fa capire quanto siano lontani un certo tipo di emozioni a cui siamo legati inverosimilmente. Singolo dell’album, ricalca molto da vicino quanto fatto dagli EUROPE sebbene io riesca a trovarci spunti più originali (per l’epoca… ndr).
Nell’ attesa di ritrovarcelo ristampato su compact disc da qualche etichetta minore, se vi capitasse di trovarlo in qualche fiera del disco, io non me lo lascerei scappare!
Marco Paracchini

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