|
|
|
DOCTORS OF MADNESS
“Late Night Movies, All Night Brainstorms” |
I Doctor of Madness,
a dispetto del nome, non solo non curavano la pazzia,
ma semmai ne erano parte integrante e “parto legittimo”,
totalmente fuori da ogni schema e difficilmente inquadrabili
con i soliti stereotipi, sfuggendo ad ogni cliché
presente, passato e futuro! Attivi sin dalla prima metà
dei 70’s, il cantante, compositore e mente del
gruppo Richard “Kid” Strange (un ceffo stralunato
dai capelli tinti di blu), il bassista Stoner (con un
make-up alla Frankenstein), il batterista Pete Di Lemma
ed il chitarrista/violinista Urban Blitz (già,
violinista, con tanto di studi classici alle spalle!),
dopo aver ben rodato gli ingranaggi, decisero di entrare
in studio verso la fine del 1975 per incidere questo
loro disco d’esordio.
Il risultato fu quantomeno
spiazzante, non certo per la (alta) qualità della
musica proposta, ma proprio per la particolarità
del loro sound che, come accennavo in precedenza, grazie
ad una combinazione di fattori ed in primis l’uso
del violino elettrico, li rendeva assolutamente unici.
Se i primi due brani “Waiting” e “Please
Don’t Shoot The Pianist”, così come
il penultimo “B-Movie Bedtime” mostrano
parecchi punti di contatto con il Glam Rock ed una carica
trasgressivo/eversiva indubbiamente proto-punk, che
dire di “Afterglow”, “Mitzi’s
Cure”, “I Think We’re Alone”,
“The Noises Of Evening”, “Billy Watch
Out” e “Mainlines”? I ritmi spesso
rallentano, le atmosfere si fanno crepuscolari, a tratti
oscure ed alienanti, creando un clima di angoscia e
solitudine, con il violino elettrico a dare un incredibile,
oltre che inusuale ed inaspettato, apporto all’eclettico
sound della band.
I testi partoriti dalla
fervida mente di Kid Strange trattano di nevrosi e decadenza
urbana, corruzione e depravazione, disagio ed insofferenza
per ogni forma di controllo istituzionale, rifacendosi
tanto alla tradizione di cantautori come Bob
Dylan, Leonard Cohen e
David Bowie, quanto al lirismo “tossico”
di William Burroughs. All’indomani
dell’uscita del disco, i ragazzi cominciarono
un’attività live che dimostrò loro
quanto fossero considerati “outcast”, se
però da un lato suscitarono reazioni spesso ostili
in un pubblico abituato a sound ben più canonici,
dall’altro si accorsero di avere conquistato uno
zoccolo duro di fan che li seguiva con entusiasmo durante
i tour di supporto a Be-Bop DeLuxe ed
Heavy Metal Kids.
Erano eclettici, versatili,
unici, non a torto considerati una sorta di “missing
link” tra il Prog-rock ed il Punk, indicati come
fonte d’ispirazione dalle band più disparate,
dai Cabaret Voltaire a Julian
Cope, dai Simple Minds ai
Def Leppard, ammirati anche da gruppi
punk del calibro di Damned e The
Adverts (Kid Strange collaborò con TV
Smith alla stesura del brano “Back from the Dead”).
Per ironia della sorte, tutto questo non mise al riparo
il gruppo dall’esplosione iconoclasta del movimento
Punk, che tutto cercò di spazzar via con veemenza
e spesso ci riuscì, anche con band che in fondo
avevano contribuito alla sua nascita. Dopo aver inciso
il secondo album “Figments of Emancipation”
nel 1976, ed il terzo “Sons of Survival”
nel 1978, i D.o.M gettarono quindi la spugna. Di recente
il loro catalogo è stato ristampato in CD dalla
Ozit records, per cui quanti di voi non sono strettamente
vincolati al “purismo” rock’n’roll
provino a recuperarli, potrebbe rivelarsi una piacevole
(ri)scoperta.
Gaetano Fezza
|
|
|
|
|
|
|
SWEENEY TODD
“Sweeney Todd” |
Credo che la stragrande
maggioranza dei rockers, anche negli angoli più
sperduti del pianeta, sappia di cosa tratta il recente
film di Tim Burton “Sweeney Todd”,
non fosse altro che per la presenza di Johnny
Depp, autentica icona per chi il rock’n’roll
lo ama, lo vive e lo “respira” quotidianamente
(davvero qualcuno non conosce i suoi trascorsi da musicista,
in particolare l’ultimo periodo nei grandissimi
RockCity Angels?). Sono pronto a scommettere però
che in pochi sanno che Sweeney Todd negli anni 70 era
anche il nome di una Glam Rock band canadese che per
bravura, carisma ed attitudine non era davvero seconda
a nessuno.
Jim McCulloch (gt) John
Booth (dr) Budd Marr (bs) e Dan Gaudin (keys), trovarono
nel giovane Nick Gilder, nato in Gran Bretagna e da
poco trasferitosi a Vancouver, il cantante ideale per
completare la formazione che incise questo disco d’esordio
che merita senz’ombra di dubbio di entrare in
un ipotetica top-list di album 70’s Glam Rock.
Gli ingredienti per sfondare c’erano tutti, dal
look alla perizia tecnica, passando per la voce di Nick,
dolce ed impertinente, suadente ed efebica al punto
da confondersi con una voce femminile, pressoché
perfetta per il genere proposto. Basta un solo ascolto
del brano d’apertura “Roxy Roller”
per restare incantati dal loro sound, connubio perfetto
tra rock’n’roll e sensualità, energia
e melodia, non a caso diventerà il loro hit per
eccellenza conquistando il nr.1 nelle charts canadesi
e verrà ripreso un paio d’anni dopo da
Suzi Quatro, che ne farà un
suo cavallo di battaglia.
L’intero album
segue le stesse coordinate, non una nota fuori posto,
non un brano sottotono, i ragazzi dosano alla perfezione
rock’n’roll e melodia, grinta e dolcezza,
creando un groove perfetto per la calda voce di Nick,
anche grazie al prezioso apporto delle keyboards, molto
ben inserite nei brani, non preponderanti, non invadenti
ma assolutamente complementari ai classici strumenti
“rock”, con buona pace dei tanti detrattori.
E’ veramente un piacere ascoltare un album di
questa caratura, dove ogni singolo brano è un
potenziale hit, da quelli strutturati nei più
classici stilemi rock’n’roll come “Short
Distance, Long Journey”, “Rock’n’Roll
Story”, “Daydreams”, “Rue De
Chance”, a quelli più d’atmosfera
come “Juicy Loose” e “See What We’re
Doing Now”, passando per la suite strumentale
“The Kilt”, bellissima cavalcata rock con
innesti di tastiera che si rifanno alla tradizione scozzese.
Come spesso succede nella
vita reale, ed ancor più spesso in ambiente musicale,
nonostante le grandi potenzialità le aspettative
della band non si concretizzarono, e dopo l’abbandono
di Nick Gilder (che se ne andò per avviare una
carriera solista di tutto rispetto) venne reclutato
un giovanissimo Bryan Adams (allora
sedicenne) con cui incisero nel 1977 il secondo album
“If Wishes Were Horses”, ma questa è
un’altra storia, che prima o poi vi racconteremo…
nel frattempo fate il possibile per recuperare una copia
di questo gioiellino.
Gaetano Fezza
|
|
|
|
|
|
|
TEARS
“Tears” |
La Svezia è terra
fertile e generosa nei confronti del rock’n’roll,
con una lunga tradizione che affonda le radici nei lontani
anni ‘60 e porta dritta ai giorni nostri, tanto
che oggi la si può considerare un fulcro vitale
della scena internazionale, grazie soprattutto al movimento
ormai consolidato conosciuto come “Scan-Rock”.
In questo meraviglioso paese non poteva certo passare
inosservato un fenomeno di portata mondiale tale da
infiammare animi ed ormoni di un’intera generazione
quale fu il Glam Rock, negli anni ’70 si affacciarono
quindi sulla scena alcune band il cui eco è giunto
fino a noi grazie al magico mondo di internet, dove
può trovare una piccola ribalta anche chi altrimenti
sarebbe destinato a rimanere patrimonio di pochi “eletti”.
Le cronache, tralasciando
i famosissimi Abba (c’è
chi considera Glam quantomeno i loro primi singoli,
io propendo più per il Pop…) ci tramandano
una manciata di nomi “minori” quali Magnus
Uggla, Blue Swede, Harpo,
e questi Tears che, in virtù dell’alta
qualità della musica proposta e per l’aver
inciso nei 70’s tre album oltre ad alcuni singoli,
meritano un discorso più approfondito. Da quanto
si evince dal loro sito, purtroppo disponibile solo
in Svedese, il primo nucleo della band si forma nel
1968, dapprima come cover band di Beatles,
Rolling Stones, Small Faces
ed altri gruppi della 60’s British invasion,
in seguito arriva la sterzata verso il nascente Glam
Rock, che comincia ad impazzare anche fuori dai confini
inglesi, grazie ad artisti come T.Rex,
D. Bowie, Slade e Sweet.
In particolare questi
ultimi risultano essere l’autentica musa ispiratrice
degli svedesi e la line-up che incide quest’esordio
discografico, formata da Lars "Fubbe" Furberg
(vc), Matti Vuorinen (bs), Eddie "Eddan" Eriksson
(gtr) e Hasse Fogelberg (dr), si presenta con abbigliamento,
trucco ed approccio stilistico in linea con quanto proposto
dalla mitica band d’oltremanica. I brani, semplici
ma ben strutturati, innestano cori bubblegum e ritornelli
catchy su un robusto telaio rock’n’roll,
ispirato ed energico. E’ arduo rimanere indifferenti
ai ritmi di “The Ballot Band”, “Stranger
In Town”, “Ooh Lah”, “Duke Of
Friday”, “Ollie”, “Anywhere,
Anytime, Anyone” e “We All Like Music, Don’t
We”, che sembrano concepiti per scatenare l’audience
in una danza frenetica, scaletta perfetta per una notte
in discoteca quando ancora questi locali si chiamavano
Boobs, Ooh Poo Pah Doo o Rodney’s English Disco,
e non conoscevano infestazioni virali da disco-music
ed “ammazza-neuroni” vari generati in seguito.
Abilmente intercalate
tra questi brani, fanno capolino alcune ballad dolci
e malinconiche: “I Will Follow”, “My
Canary” e “Oobie Doobie La La Song”;
quasi a voler stemperare la frenesia e dare un attimo
di respiro a chi, tra un brano “stomp” ed
un boogie, accompagnati dall’immancabile “handclapping”,
ritrovatosi a corto di energie si lascia cullare dolcemente
tra luci soffuse dal tenero abbraccio dell’amata
pulzella… Qualcuno inventi la macchina del tempo,
per cortesia… Come accennavo in precedenza, i
Tears non si fermarono a questo raccomandatissimo disco
d’esordio, ma ne pubblicarono altri due.
Purtroppo al momento non so dirvi nulla del terzo, ma
per quanto riguarda il secondo ed altrettanto valido
“Rocky-T”, due sono le cose da annotare:
il look è più sobrio, meno appariscente,
ed il suono è più curato e robusto, di
chiara matrice Hard Rock, indice di una maturità
cercata e sapientemente trovata, un po’ il loro
“Desolation Boulevard”, esattamente come
la title-track è la loro “Fox On The Run”.
Che si preferisca il lato bubblegum Glam o quello più
maturo, una cosa è certa: sono assolutamente
da riscoprire.
Gaetano Fezza
|
|
|
|
|
Etichetta: |
Skeller Records |
Anno: |
1990 |
Reperibilità
Italia: |
|
Rep.
Estero: |
|
Prezzo
Indicativo: |
10€ |
Sito Web |
www.myspace.com |
|
|
UNCLE SAM
“Letters from London” |
Tre anni dopo il clamoroso
esordio “Heaven or Hollywood”,
i quattro rockers di Rochester tornano in pista con
l’attesissimo seguito “Letters from
London”, titolo maturato durante la breve
ma intensa tournee inglese del 1989. Da segnalare alcuni
cambiamenti di formazione: Jeff Mann sostituisce il
batterista G.Avery Brisk che lascia la band al rientro
in patria, ed il nuovo bassista Bill Purol sostituisce
Dave Gentner, che passa senza problemi dietro al microfono,
sostituendo il defezionario lead singer Scott Cessna.
Niente di grave, sia
in virtù del fatto che la vera mente della band
sembra essere il chitarrista Larry Miller, sia perché
Dave, forte di una timbrica straordinariamente simile
a quella del predecessore, se la cava egregiamente e
non lo fa certo rimpiangere. Le coordinate sonore non
si discostano di molto dal lavoro precedente, ed anche
se non è impresa facile ripetersi a certi livelli,
i nostri non deludono affatto le aspettative. I nuovi
brani sembrano un pelino più puliti e ricercati,
frutto di una naturale quanto inevitabile evoluzione
dovuta all’esperienza maturata, ma non perdono
certo in aggressività, velocità d’esecuzione
e potenza. Un micidiale rock’n’roll riffing
domina l’intero album e spinge verso paragoni
di assoluta eccellenza, impossibile non pensare ad
Alice Cooper, MC5, Iggy
e N.Y.Dolls, ma non si tratta certo
di scopiazzature più o meno ispirate, la band
ha personalità da vendere ed il disco suona esageratamente,
maledettamente “Uncle Sam”!
Forse, come fece notare
all’epoca parte della critica, manca il pezzo
“trainante”, che si erga palesemente sugli
altri come fu per “Heaven or Hollywood”,
brano d’enorme spessore assurto ad inno ed autentico
“trademark”, ma se di “livellamento”
si può parlare ci tengo a sottolineare che è
verso l’alto, con una qualità media dei
brani di livello pari o addirittura superiore al disco
d’esordio. Impossibile restare indifferenti alla
carica erotico/oltraggiosa di brani come “Red
Shirt” o “Crystal” (“…..you’re
just like crystal baby, I see right through you…
and don’t you know your legs are like little sticks
of dynamite…”!!), ma mi è davvero
difficile indicare delle preferenze, dovrei semplicemente
trascrivere l’intera track-list ed amen! Assolutamente
da avere e conservare gelosamente a fianco di “Heaven
or Hollywood” e da ascoltare fino alla nausea
(che, guarda caso, non è mai arrivata!). Passeranno
altri tre anni prima dell’uscita di “Fourteen
Women, Fifteen Days”, lavoro leggermente sottotono
nonostante (o proprio per?) la produzione del famoso
“burattinaio” Kim Fowley, rimarrà
il terzo e conclusivo capitolo di una rock’n’roll
saga indimenticabile, purtroppo conclusasi prematuramente.
Qualche anno dopo ritroviamo
Dave Gentner nei The Veins, autori
ad oggi di un paio di buoni CD, ma per quanto il cantante
sostenga che siano la “naturale evoluzione”
degli Uncle Sam e risentire la sua voce mi procuri un
brivido lungo la schiena, manca “qualcosa”
…chissà, forse è solo nostalgia…
o forse dovrebbero andarsene un po’ ad Hollywood
e poi a Londra anche loro…
Gaetano Fezza
|
|
|
|
|
Etichetta: |
Skeller Records |
Anno: |
1987 |
Reperibilità
Italia: |
|
Rep.
Estero: |
|
Prezzo
Indicativo: |
20€ |
Sito Web |
www.myspace.com |
|
|
UNCLE SAM
“Heaven Or Hollywood” |
Ricordo come fosse ieri
la prima volta che sentii parlare degli Uncle Sam: fu
leggendo la recensione dell’opera prima “Heaven
Or Hollywood”, opportunamente corredata dalla
riproduzione a colori della cover, com’era in
uso sull’amata/odiata H/M, una delle prime riviste
ad occuparsi di Hard & Heavy in Italia, pionieristica
ed approssimativa ma con un fascino tutto suo ed a suo
modo essenziale in anni in cui il termine “Internet”
poteva al massimo far pensare ad un qualche fallo sotto
rete a bitch-volley…
Altri tempi si, ed altre
band, più passa il tempo e più me ne convinco,
sarà l’anagrafe, sarà l’indigestione
di dischi (eh si, altro rimpianto di quei tempi, il
“sacro” vinile…) che feci all’epoca,
ma ben poche band mi hanno in seguito esaltato come
gli Uncle Sam. E due parole per la Cover le vogliamo
spendere? Bella, sensuale ed indubbiamente d’effetto,
tanto che si parlò quasi più di quella
foto che del disco in se, non che fosse un male, l’importante
era parlarne e spingere la gente ad incuriosirsi, in
tempi in cui reperire dischi d’importazione auto-prodotti
o stampati su piccole indie come la Skeller Rec. era
spesso un’impresa. Fin dal primo ascolto, facilitato
dalla ristampa inglese su Razor Rec. (tanto per intenderci
quella con la cover rifatta, dove un'altra modella posa
indossando il perizoma, “puritani” e bigotti
del caXo…), era chiaro di trovarsi al cospetto
di un lavoro forse un pochino acerbo, grezzo e nevrotico,
intriso d’inquietudine post-adolescenziale, ma
proprio per questo fresco ed “elettrico”
come pochi, con tutto il carisma necessario per emergere
dalla marea di street-works che di li a poco sarebbero
spuntati con frequenza allarmante.
Bastava un solo ascolto
per innamorarsi di quella manciata di brani lisergici
e tossici come “Alice D” e “Under
Sedation”, crudi e disperati come “Live
For The Day” e “Don’t You Ever”,
nervosi e maledetti come “Don’t Be Shy”
e “The Candyman”, ed il gran finale con
la meravigliosa title-track “Heaven Or Hollywood”,
apoteosi onirica e lancinante di un disco che è
esplosiva miscela di street-rock’n’roll,
garage, punk ed un pizzico di psichedelia. Questa ”street
gang” sembrava uscita da un vicolo buio e puzzolente
di Rochester (N.Y.), incarnando alla perfezione “l’altra
faccia della medaglia”, quella lontana dalle “Luci
della Ribalta” allora puntate inesorabilmente
sull’assolata L.A., dove la decadenza urbana era
spesso ridotta a semplice “posa”, filtrata
e costruita ad hoc da uno star-system impietoso e falso.
Gli Uncle Sam fecero da contraltare sia dal punto di
vista estetico, laddove il glamour lustrini e paillettes
cedeva completamente il passo al look “brutto,
sporco e cattivo”, che da quello prettamente musicale,
con melodie ridotte all’essenziale su scariche
adrenaliniche di pura dinamite rock’n’roll,
cantando di degrado urbano, di droga e vite vissute
(e spesso bruciate) alla giornata, urlando il loro disagio
giovanile a squarciagola con la veemenza di chi è
costretto a vivere “borderline” senza accettarlo
passivamente…
Un piccolo ed attualissimo
capolavoro che non deve assolutamente mancare in una
discografia Rock’n’Roll degna di questo
nome, magari procuratevi la ristampa in CD, contiene
un paio di bonus tracks anche se (ahimè) vi dovrete
accontentare della modella in perizoma...
Gaetano Fezza
|
|
|
|
|
Etichetta: |
Pull Music |
Anno: |
1995 |
Reperibilità
Italia: |
|
Rep.
Estero: |
|
Prezzo
Indicativo: |
20€ |
Sito Web |
scomunica.com |
|
|
SCOMUNICA
“Scomunica” |
Ricordo ancora che,
molti anni fa, rimasi sbalordito a vedere dal vivo questa
band...tra acuti allucinanti, riff al fulmicotone e
colpi di batteria dirompenti, gli SCOMUNICA, facevano
così ingresso nel mio cuore, lasciandomi senza
fiato.
Portatori della bandiera dell'Hard Rock del Tricolore
nazionale, divennero in brevissimo tempo un'icona del
genere. Come già detto nella recensione del disco
nuovo, gli Scomunica, effettuarono un vero e proprio
cambiamento tra le file del popolo notturno e rock n
roll del Nord dell'Italia. Fautori di uno splendido
hard rock cantato in italiano, furono sottoposti all'attenzione
di diverse etichette ma non riuscirono mai ad avere
la giusta fortuna. Moreno DelSignore, fondatore e singer
della band, proseguì anche senza i suoi stretti
collaboratori, di cui voglio ricordarne i nomi: Graziano
Demurtas e Alberto Bollati (che molti di Voi riconoscono
come WINE SPIRIT).
Il loro primo full lenght
spiazzava per l'energia e la melodia insita in ogni
brano. Moreno, che qui incarna un Sebastian
Bach italiano, porta, brano dopo brano, l'ascoltatore
in un turbine di emozioni, partendo proprio dal primo
brano "Scomunica", proseguendo nel metal melodico
di "Diverso" sino a giungere alle Zeppeliniane
"Prima che sia il nuovo giorno" e "La
più antica magia". La prima ballata del
disco è incentrata sulle note di "Noi possiamo
scegliere" che, se cantata in inglese, sarebbe
stata sicuramente una hit single dei tempi d'oro. Il
melodic rock di "Mille volte no" lascia spazio
alla ennesima traccia dal sapore Zeppelin
intitolata "Sacrifice". Con "Ero"
lo stomaco si chiude... brano emozionante di piano e
voce che è siglato anche da un testo sopra le
righe e che, divenne ed è rimasto, uno dei miei
personali cavalli di battaglia.
"Faccia da indiana"
ripercorre il sound hard rock settantiano mentre nella
penultima traccia intitolata "Con il sole in tasca",
un suono da carrilion, in compagnia della voce di Moreno,
introducono ad uno dei brani più riusciti degli
utlimi anni; simili ai Litfiba di "Eroi
del vento" e ad alcune song dei Queen,
gli Scomunica chiudono in bellezza con questo pezzo
e con l'ultimo brano strumentale intitolato "Insieme,
ciao baby" che, con la sua malinconia, fa sognare
avvolti in una bandiera di malinconici ricordi.
Sorretti, purtroppo, da una produzione italiana non
capace di intendere e relazionarsi con le produzioni
estere in ambito hard rock, l'album risente pesantemente
di poca attenzione ai suoni di maggior impatto, come
chitarra e batteria ma, nel contesto, direi che l'album
è un ottimo episodio di hard rock italiano. Da
avere nella propria collezione.
Marco Paracchini
|
|
|
|
|
Etichetta: |
Sonic Past Music |
Anno: |
Ristampa 2003 |
Reperibilità
Italia: |
|
Rep.
Estero: |
|
Prezzo
Indicativo: |
12$ |
Sito Web |
sonicpastmusic |
|
|
SHARK FRENZY
“Vol. 2: Citizen Invisible” |
Gradevole chicca per
tutti i fanatici dei Bon Jovi, con
questo lavoro che vede un giovane e Richie Sambora
alla fine degli anni 70 insieme a musicisti della scena
locale come Bruce Foster e formò
questi Shark Frenzy.
Mi sembra fuori luogo dilungarmi su presentazioni a
Richie Sambora e dico qualcosa sull'allora diciannovenne
Bruce Foster, che hai più questo nome non dirà
nulla, ma che in realtà ha collaborato con diversi
nomi celebri, suonando ad esempio le tastiere nei Kiss,
firmando song come "Look Out For # 1" per
la soundtrack di Staying Alive o "Trail
of Broken Hearts" di Cher e scrivendo
con Richie un paio di pezzi su "Stranger In
this Town".
"Vol. 2: Citizen
Invisible" come avrete capito è il
secondo volume dei 2 presenti sul mercato, 12 pezzi
più una bonus track ("Golden Slumbers/The
End" dei Beatles) che hanno ben
poco a che vedere con l'arena rock a cui i Bon
Jovi ci hanno abituato, quindi scordatevi corettoni
di scuola Desmond Child e fate qualche
passo indietro verso le sonorità di fine anni
'70, un rock melodico tinteggiato di blues con lunghi
soli che per certi versi può ricordare il Meat
Loaf d'annata.
Alla voce troviamo quasi
sempre Foster, ma c'è spazio anche per Sambora
che si impossessa del microfono in "A Good Life",
nella bluesy "I Need Your Love" e nella conclusiva
cover dei Beatles registrata nella
reunion del 2004.
Sambora formò poi nel 1980 i Message
con appunto Foster, Fasano (Prophet)
e il bassista Alec John Such (che il
chitarrista ritroverà anche con la band di "New
Jersey") e iniziarono a girare i club dell'East
Coast aprendo anche per Joe Cocker,
il resto è storia...
Moreno Lissoni
|
|
|
|
|
Etichetta: |
Self produced |
Anno: |
1992 |
Reperibilità
Italia: |
|
Rep.
Estero: |
|
Prezzo
Indicativo: |
30$ |
Sito Web |
www.cdbaby.com |
|
|
QUOTA
“Stick To Your Guns ” |
Dopo la recente mega
nevicata i paragoni con quella del 1985 si sono sprecati
e così via di ricordi a pensare che in quell'occasione
la mia generezione si ritrovava a stare a casa da scuola
e a giocare a palle di neve. La coincedenza vuole che
proprio in questi giorni mi sia arrivato un CD risalente
al 1992, che a livello di sonorità ci rimanda
proprio a metà degli anni 80, quell'hair metal
(o chiamatelo come volete) che imbottiva gli scaffali
dei negozi e le copertine delle riviste dell'epoca con
rocker lungo criniti e dai grotteschi look.
Di questa schiera di
band fanno parte anche i canadesi Quota, power trio
formato dal chitarrista e cantante Richard Moreton,
dal batterista D.C. Cudmore e dal bassista Grant Anderson
fautori di un album di tutto rispetto dove gli
Icon di "Right Between the Eyes"
incontrano i Whitesnake di "1987".
L'album fila via liscio e pur non essendo una pietra
miliare di questo filone musicale, potrà accontentare
i nostalgici del genere che apprezzeranno senza affanni
brani come l'opener "Stick to Your Guns" o
la radiofonica "Making Love" che sembrano
essere nate da qualche session insieme a Dan
Wexler.
La power ballad "Missing
You" e "Midnight Rider" sono altri 2
punti di forza di questo album, che vede solo la conclusiva
lenta "Maranda Rose" come unico neo di un
pregevole disco di hard rock made in 80's!
Moreno Lissoni
|
|
|
|
|
Etichetta: |
Dragster Music |
Anno: |
1990 |
Reperibilità
Italia: |
|
Rep.
Estero: |
|
Prezzo
Indicativo: |
80$ |
Sito Web |
starfuckerstar.com |
|
|
STAR STAR
“Go Go Girls In Love” |
Che cosa sono capaci
di fare le ragazze innamorate? Follie e danni a loro
stesse, oppure vivono felici e senza pensieri? A tutto
questo e a molto altro danno risposta a modo loro gli
Star Star in questo loro primo lavoro, uscito dal profondo
degli anni Ottanta e da cui traspaiono ben evidenti
alcune delle caratteristiche che accompagneranno fedelmente
il gruppo nella sua carriera. Ad una registrazione volutamente
approssimativa, anche se non ai livelli di un demo black
metal della prima ora, con chitarre che a volte arrivano
quasi a rasentare volutamente la stonatura, si accompagna
il miscuglio tra sonorità e tematiche tipiche
del rock e del punk, in modo quasi meccanico.
È proprio questo
miscuglio a caratterizzare maggiormente e a rendere
tipici i dischi degli Star Star. Si può quasi
seguire un andamento ritmico, una canzone più
vicina al rock ne segue una tipicamente punk, e così
via per tutto il disco. Fanno eccezione alcuni elementi
di rottura, tra cui “Drop her”, caratterizzato
da un riff portante molto lento, dal ritmo lento ed
a tratti quasi ossessivo, e “Laura’s on
the roll”, che ha un lungo finale strumentale
in cui spuntano anche in minima parte le tastiere. I
temi trattati in realtà sconfinano da quello
proposto nel titolo, ruotano attorno a storielline semplici,
incentrate su oggetti e situazioni del quotidiano (“My
stereo and I”), aventi come protagonisti, come
si vedrà anche in seguito, personaggi dall’esistenza
non proprio cristallina (il brano in stile punk veloce
dal titolo “Whore whore” è più
che indicativo), ma con uno spirito di fondo abbastanza
spensierato e propenso allo scherzo.
Evidentemente, in questo
gli Star Star risentivano dell’atmosfera generale
del decennio in cui venne pubblicato questo disco. Johnnie
Holliday, capo della band da allora fino ai giorni nostri,
dà una buona prova delle sue capacità
vocali e compositive, forte anche di buoni musicisti,
che pur avvalendosi dei propri strumenti in modo essenziale
(basta guardare il drum kit di Chris Madl per rendersene
conto) ne traggono le idee giuste per produrre un buon
disco. Resta però da aggiungere una nota di rammarico
per il fatto che il disco sia fuori stampa e quindi
estremamente difficile da reperire.
Anna Minguzzi
|
|
|
|
|
Etichetta: |
Voss Music |
Anno: |
1992 |
Reperibilità
Italia: |
|
Rep.
Estero: |
|
Prezzo
Indicativo: |
30 Euro |
Sito Web |
batten.com |
|
|
JENNIFER BATTEN
“Above, below and beyond” |
Ha i capelli gonfi e
tinti di platino, il rossetto rosso e l’aria severa,
una Ibanez dipinta magistralmente raffigurante l’effige
della maschera funebre di Tutankamon e un orecchino
a forma di chitarra gialla che farebbe invidia a chiunque.
Si presenta così Jennifer Batten, una delle pochissime
donne emerse nel mondo prettamente maschile dei chitarristi
solisti, personaggio eclettico, balzata alla ribalta
per essere stata scelta fra tanti da Michael
Jackson per il tour mondiale di “Bad”,
nel 1989. Era con lui anche nello spettacolo dell'intermezzo
del 27° Superbowl, il programma dall'audience più
estesa della storia della televisione (un miliardo e
mezzo di persone).
Unico difetto di questa musicista (anche pittrice, tra
l’altro) è quello di produrre all’incirca
un disco solista a decennio, ritardando di anni l’uscita
del lavoro successivo, viste probabilmente le svariate
collaborazioni con artisti del calibro di Jeff
Beck (con cui suona in pianta stabile dal 1998)
o Sting.
“Above, below
and beyond” non può non piacere agli
amanti dello shred, per via dei virtuosismi tecnici
che caratterizzano lo stile di Jennifer Batten (in particolare
è un’esperta del tapping a due mani), ma
lo stile immediato, l’originalità delle
composizioni e la brevità di buona parte dei
pezzi piaceranno anche agli amanti del rock. “Cat
figth”, ad esempio, è un pezzo costruito
a partire da un riff di una semplicità che rasenta
il banale e da una serie di scale ascendenti e discendenti
che hanno la velocità come unica nota di merito.
Eppure, nonostante questa struttura, il pezzo è
uno dei migliori e più originali del disco. Le
influenze del rock si sentono bene anche in “Voodoo”,
brano abbastanza lento, ma non per questo privo di tecnicismi
molto interessanti, e in “Mental graffiti”,
ottimamente supportato dalla batteria di Shokti, che
qui dà veramente fondo a tutte le sue energie.
Allo stesso modo si apprezzano le due cover, “Respect”
di Otis Redding, un altro pezzo arrangiato
molto semplicemente, dando molto spazio alla voce e
ai cori, ma soprattutto “Giant steps”, di
John Coltrane, il brano che per primo
fece salire Jennifer Batten alla ribalta.
Per quelli che invece
affermano che, in un buon brano, non possono mancare
virtuosismi sfiancanti, arpeggi e sfoggi di tecnica
lunghi minuti e minuti, la velocissima “Ya ain’t
nothing like a fast car” e soprattutto “Hairbangers
hairspray” sono ciò che serve.
In generale, si può dire che tutto il disco,
che fruisce tra l’altro di una produzione molto
pulita e che mette ovviamente in luce le sei corde,
risenta molto dell’influenza degli anni Ottanta;
tuttavia alcuni pezzi, come “Secret lover”,
con i suoi intermezzi di cantato rap, o “Wanna
be startin’ something”, ricca di suoni elettronici
che si mischiano a una chitarra in puro stile rock,
non solo sono al passo con i tempi in cui venne registrato
il disco, ma anzi precorrono in parte stili diventati
di gran moda negli anni successivi. Chi scrive ha poi
avuto occasione di vedere una sua esibizione dal vivo,
e conferma l’impressione di un’artista come
poche, all’apparenza instancabile, tanto precisa
e raffinata nella semplicità delle sue composizioni
quanto gentile e disponibile fuori dal palco.
Dedicato a tutti coloro
che pensano che le donne che bazzicano nell’ambiente
del rock debbano essere semplicemente delle presenze
decorative, al massimo delle sottospecie di roadie che
a fine concerto ti possono, forse, aiutare a mettere
via le attrezzature, e che soprattutto non si devono
azzardare a prendere in mano uno strumento diverso dalla
batteria di pentole della cucina, perché suonare
è cosa da uomini.
Anna Minguzzi
|
|
|
|
|
Etichetta: |
Arista (USA) / BMG (EU)
/ Thunder Music (JP) |
Anno: |
1987 |
Reperibilità
Italia: |
|
Rep.
Estero: |
|
Prezzo
Indicativo: |
25 $ (LP) |
|
|
VOW WOW
“V” |
Giappone: una terra,
una garanzia.
Legato a questa terra per la loro storia, i loro cartoons,
i loro videogiochi e le loro autovetture, rimango anche
colpito dalla loro longevità discografica, attenta
sempre e comunque ai vari fenomeni Hard & Heavy.
Se il giovane pubblico
lettore di SLAM! crede che sia solo una terra per far
bivaccare i gruppi statunitensi ed europei che ormai
han due lire in tasca, si sbaglia di grosso. L’isola
del Sol Levante ha dato, a modo suo, un contributo fondamentale
per l’hard rock mondiale. I VOW WOW e i LOUDNESS
ne sono le punte di diamante ma ci sono dozzine di bands
che farebbero impallidire un sacco di bands che pretendono
di ritenersi ancora “star”.
I VW sono tosti, brillanti,
energici, solari, esaltanti e chi più ne ha più
ne metta. Hanno sfornato sei dischi ufficiali più
una raccolta e un live (questi due reperibili solo in
giappone/ndr).
Questo disco, il quarto della loro carriera ma inspiegabilmente
chiamato “V”, è una bomba a orologeria.
Per quanto io lo ascolti ormai da più di 15 anni,
ogni volta che sento brani come “Somewhere in
the night” o “The girl in red” o ancor
di più “Same time” non posso fare
a meno di cambiare umore, facendo smorfie di compiacimento
e pensando sempre a una frase del tipo “’sti
cazzi… che roba!”. Ebbene, che la frase
stupida citata possa essere un riferimento sostanziale
di questa review perché di grande album si tratta!
L’esaltante Hard Rock pesante e pomposo rendono
questo disco una medicina di inesauribile efficacia.
I suoi suoni, puliti e mixati a regola d’arte,
i testi, curati e rielaborati da un team americano,
la voce, alta, suadente e potente come poche sanno essere,
danno il giusto appeal ad un genere ormai scomparso.
Kyoji Yamamoto, chitarrista,
firma quasi tutte le composizioni, dando spazio anche
a Rei Atsumi (tastiere) e lasciando al resto della band
il giusto spazio affinché possano dimostrare
la loro bravura: Toshiro Niimi (bt) e Neil Murray (bs).
Genki Gitomi è il vocalist di eccezionale virilità.
La produzione, affidata ad un nome storico, John Wetton
(ASIA), rende ancor più plausibile
la bellissima e potente produzione (il disco fu registrato
in Spagna/ndr) di questo combo nipponico che mai, come
in questo disco, ha reso la storia dell’hard rock
nipponico, unico nel suo genere.
100 e lode, pienamente meritato!
Marco Paracchini |
|
|
|
|
Etichetta: |
CBS |
Anno: |
1990 |
Reperibilità
Italia: |
|
Rep.
Estero: |
|
Prezzo
Indicativo: |
20 Euro (LP) |
|
|
SATROX
“Heaven Sent” |
Nel marasma più
totale dei dischi di “serie b” del vastissimo
panorama hard rock, compaiono anche questi svizzeri
chiamati SATROX. La loro carriera inizia e finisce nel
giro di un paio di anni e del relativo rilascio alla
massa di due Lp. Il primo è proprio questo “Heaven
Sent” che cerca di conquistare i cuori dei più
accaniti fans del class metal americano.
Sconosciuti ai più
ma elemento significativo per tutti gli accaniti collezionisti
di vecchi Lp, questi rockettari elvetici sono arrivati
prima dei più famosi Gotthard e degli Shakra
eppure il loro piccolo successo non è mai stato
ricordato.
Più ricercati nei paesi asiatici, i S. ci lasciano
questi due fantastici dischi di Heavy Rock de luxe con
riffoni veloci, pesanti, amalgamati sempre da tappeti
di tastiere egregie. La voce di Werner Schweizer è
acuta, tagliente e molto più incline all’heavy
epico simil-LOUDNESS.
Il 45giri prosegue senza
mai annoiare pur presentando cliché abbastanza
scontati. Tra quanto fatto anche dai WHITE WOLF
e da AXEL RUDI PELL, le nove tracce
si fanno ascoltare portando attimi di pura esaltazione
come nell’apripista “More than a feeling”
(no, non la cover… ndr) o nella malinconica “Living
a dream”.
La cavalcante “Heaven” ricorda il DIO
degli album degli esordi sebbene i testi e
la voce sarebbero più riconducibili ai cristiani
STRYPER. La bellissima “Together
forever”, power ballad e penultima traccia del
disco, ci fa capire quanto siano lontani un certo tipo
di emozioni a cui siamo legati inverosimilmente. Singolo
dell’album, ricalca molto da vicino quanto fatto
dagli EUROPE sebbene io riesca a trovarci
spunti più originali (per l’epoca…
ndr).
Nell’ attesa di ritrovarcelo ristampato su compact
disc da qualche etichetta minore, se vi capitasse di
trovarlo in qualche fiera del disco, io non me lo lascerei
scappare!
Marco Paracchini
|
|
|
|
|
|
----
by Slam! Production® 2001/2008 ----
|
|