Credevo che, tutto sommato, fosse quasi impossibile scovare ancora qualcosa che mi entusiasmasse come un tempo. Non dopo decenni passati a tracciare metodicamente, ed in più direzioni, il Glam/Glitter e derivati, dalle origini ad oggi…
Certo non pensavo che ci sarebbe mai stata l’occasione di parlare organicamente, e con cognizione di causa, di questa band in particolare. La cosa è talmente clamorosa da battere ai punti anche la (ri)scoperta dei losangelini Shady Lady, che tra l’altro mi vide direttamente coinvolto, ormai quasi 20 anni fa.
Certo all’epoca, nonostante il web, non era facile come ora ottenere certe informazioni. Però a volte la tenacia ed il metodo vengono premiati, ed io se mi ci metto divento un Bastardo Metodico come i Kilrathi.
Mi bastò poco più di una citazione, un trafiletto del libro “We Got The Neutron Bomb – The Untold Story of L.A. Punk”, del 2001, per scatenare l’istinto del segugio (per inciso, non pensate ai cani, ma a Rachel Grey–Summers degli X-Men, ed al mood “Search and Destroy”) e di lì a poco riuscii a scovare il cantante e leader, Stefen Shady. Nell’esclusiva ed estensiva intervista che concesse alla nostra webzine (fummo i primi in assoluto, sia chiaro!) dichiarò subito di essere in possesso del master di un album mai pubblicato, rimasto nel cassetto dai primi 70’s per questioni legali con l’etichetta, che fecero naufragare il progetto.
Ricordo ancora la scarica di adrenalina che mi provocò l’ascolto del CD-r che trovai inaspettatamente in posta, masterizzato di suo pugno, con 4/5 splendidi brani che divorai quasi incredulo. Da lì a passare il contatto all’amico Pierpaolo DeIulis della nostrana Rave Up Records, che concretizzò il tutto occupandosi della prima stampa ufficiale dell’album “Raving Mad“, il passo fu breve ed il resto, come si suol dire, è storia.
In questo caso invece la sorpresa è stata pressoché totale. Si sapeva, nel circuito degli appassionati, che delle famigerate Harlots of 42nd Street, oltre all’unico singolo inciso ufficialmente nel 1974, circolavano una Live-Tape semi-clandestina ed un rarissimo 7” acetato, scoperto e divulgato solo nel 2013 dal blogger di fama internazionale Robin Wills, ex-Barracudas e grande collezionista e cultore del genere. Purtroppo l’infima qualità del nastro e probabilmente anche complicate questioni legali, impedirono nei primi anni 2000, periodo di rinnovato interesse per il Glam delle origini, alimentato anche dall’ottimo film “Velvet Goldmine”, che qualcuno li pubblicasse ufficialmente.
Ma che questi ragazzacci avessero inciso addirittura un master completo, sembrava qualcosa di più vicino al sogno erotico definitivo del Glam Nerd, piuttosto che una possibilità concreta.
E invece, taaac! Nel 2021 i tizi della Sundazed Records, etichetta specializzata in ristampe di qualità, hanno dichiarato ufficialmente di averlo recuperato dagli archivi Newyorkesi della Bell Records, cui era stato a suo tempo spedito dalla band, solo per vedersi rimbalzare col solito “grazie ma non fate per noi e blah, blah, blah…”. Non solo, l’avrebbero pure stampato in vinile rosa e con un packaging da sturbo!
Non fatico ad immaginare la reazione che molti hanno avuto quando hanno letto la notizia: io sono letteralmente sobbalzato sulla sedia, ed ho cominciato a seguire avidamente la pagina Facebook dell’etichetta, fino al fatidico giorno in cui si è aperto il pre-order.
Credo sia doveroso, a questo punto, fare un piccolo passo indietro ad uso e consumo di chi non ne avesse mai sentito parlare.
Siamo nella New York dei primi anni 70, dove gradualmente prende vita un sottobosco di glitter band, influenzate tanto da Lou Reed ed i Velvet Underground quanto dalla nascente scena della perfida Albione ed in primis da David Bowie, a sua volta affascinato da Andy Wharol ed il suo entourage, che usa come base operativa il famoso club Max’s Kansas City.
La band più trasgressiva e rappresentativa della scena, nonché la più seguita e chiacchierata, è senza dubbio quella delle N.Y. Dolls, che attira l’attenzione fin dalle primissime esibizioni in locali storici come il Mercer Arts Center, diventando in qualche modo l’esempio da seguire per una moltitudine di ragazzi. Onestamente, prima di leggere la biografia allegata al disco, ero uno dei tanti convinti che tra gli epigoni ci fossero anche le Harlots of 42nd Street, che proprio a detta di David Johansen, carismatico singer delle Bambole, diventeranno la sua band preferita, oltreché i loro primi e più credibili “competitor”.
Le cose non stanno esattamente così, anzi, l’essere additati da qualcuno come l’ennesima band di “cloni” fa vorticosamente girare le palle al cantante Gene Harlot (tutti i componenti della band si danno lo stesso “cognome” fittizio, ricorda qualcosa?), e vale davvero la pena di spulciare per bene le 28 pagine del ricchissimo magazine allegato, rigorosamente in bianco/nero ed in formato A4 sulla falsariga di The Harlotry Times, newsletter che i ragazzi della band crearono per tenere aggiornata la nutrita fan-base, di oltre 1000 iscritti.
Vi lascio il piacere di scoprirne il contenuto, supportato da molte immagini e riproduzioni di flyer ed articoli d’epoca, limitandomi a sottolineare che veder citati, con tanto di aneddoti, i nomi di alcune band della scena (una per tutte, gli Sniper di Jeff Starship, aka Jeffrey Ross Hyman, il futuro Joey Ramone) ma anche di scene “altre” come i Bostoniani Reddy Teddy, i miei feticci Hollywood Brats, i misconosciuti losangelini Clap (dei quali in tempi non sospetti sottovalutai il valore “storico”, ed ora il loro unico LP originale costa miliardi) o gli stessi Shady Lady, è davvero un guilty pleasure per i cultori del genere.
Purtroppo il sostanziale flop di vendite delle N.Y. Dolls, che pur essendo sotto contratto con la Mercury Records non sfondano, non invoglia certo i discografici ad investire nel genere. A rimetterci a cascata, oltre alle nostre zoccolette, sarà tutta una generazione di promettenti glitter-band della Grande Mela, che avrebbero meritato almeno una chance (alzi la mano chi non farebbe carte false per vedere su vinile almeno i Teenage Lust!).
Il manager racimola quindi un misero contratto con la piccola Sunburst Records, etichetta sui generis con base in Ohio ed in aria di “Lavanderia” per certa gente poco raccomandabile (non è strano come sembra per i tempi, anzi…), che ovviamente non investirà una cippa sulla band. I ragazzi avranno solo l’opportunità di registrare il famoso singolo, con i brani “Cool Dude & Foxy Lady“ e “Spray Paint Bandit“, che verrà stampato in versione “demo” (senza copertina), destinato a diventare una quotatissima reliquia per collezionisti.
Poco o nulla si sa invece del 7” acetato, che contiene “Polyethylena Purebreed“ e “Shake My Blues“, se non che parrebbe essere stato inciso in precedenza. Metterli in saccoccia significa sganciare parecchio, ammesso che li troviate entrambi, ma per il secondo temo valga l’incipit Dantesco “Lasciate ogni speranza…”. La biografia non chiarisce nemmeno come e quando siano stati incisi gli altri sei brani che vanno a completare l’album, né chi e come li inviò alla Bell Records, ma sono dettagli di cui possiamo tranquillamente fare a meno.
Capirete ora, forse, perché un’amante di questo periodo, quantunque ultra cinquantenne, possa essere sobbalzato su una sedia come un ragazzino. In effetti ci ho messo un po’ a metabolizzare la cosa: per la prima volta in assoluto stavo per mettere sul piatto nientemeno che un ALBUM intero delle Harlots. Nell’A.D. 2022, diamine! Roba che qualche anno prima avrebbe causato più di qualche turbamento ormonale non solo a me, ma anche a parecchie persone di mia conoscenza. In effetti, non giurerei che non sia accaduto. Comunque, non lo saprete mai…
Devo confessare che nutrivo un certo timore, all’inizio… E se non fossero stati all’altezza della “fama” e dell’aspettativa? Certo i quattro brani dei singoli parlavano chiaro… Stesi su una solida base rock n’roll di matrice bluesy, ben strutturata, mostravano chiaramente le capacità e gli intenti della band. I ragazzi ci sapevano fare con gli strumenti e le cronache dell’epoca imputavano a Gene una personalità esuberante, che dominava il palco con naturalezza, determinazione e sfrontatezza, in grado di distinguerlo da altri frontmen.
Il sound è viscerale e diretto, ma non crudo e sferragliante come quello delle dirette rivali, né pedestre e sdolcinato come quello di tante glitter band d’oltremanica. Li avvicina piuttosto al coevo Alice Cooper Group, ispirandosi anche a tre band inglesi in particolare, citate espressamente nella bio: i Cockney Rebels, i crepuscolari (e spettacolari NdA) Doctors of Madness ed i Mott The Hoople più hard, non tralasciando influenze primarie riconducibili a Rolling Stones, CCR, Animals ed altre band che hanno contribuito alla loro formazione. Il mix si rivela perfetto per i testi, che Gene ama definire gutter-glam o street-rock, improntati alla reale vita di strada di New York, con tutte le sue contraddizioni e le zone d’ombra, ed ispirati dal songbook di Lou Reed piuttosto che da malcelati pruriti adolescenziali, folli corse in auto o rivalse contro l’establishment.
“Cool Dude & Foxy Lady“ gioca sullo scambio di genere e l’ambiguità tipica di certo glam, con il frontman che si diverte a ribaltare i ruoli dei protagonisti semplicemente scambiando i pronomi maschile/femminile nel ritornello, il tutto veicolato da un intrigante sound tra rock n’roll, doo-woop e 60’s, quasi a parodiare il Brill Building pop, tanto in voga in quegli anni. “Spray Paint Bandit“ è più dinamica e rollante, cornice perfetta per il testo incentrato sulla cultura dei graffiti-writer urbani, a loro modo ribelli ed outcast come veri Rocker.
“Polyethylena Purebreed” è forse il brano più Dolly-Style, ma le Harlots suonano un pochino meno grezze e un tantino più melodiche, mentre “Shake My Blues” ha un appeal molto British, glitter e stompy, il sound sposta l’asse sul boogie ed il ritornello colpisce decisamente nel segno.
E gli altri sei brani? Tranquilli, sono assolutamente all’altezza, tranne forse il conclusivo “Mother Nature“, un po’ troppo “freakkettone” e proggy, per i miei Revlonati gusti (ma comunque valido, eh). Per compensarlo mi è più che sufficiente l’iniziale “S&M (I Can’t Live Without You)“, autentica celebrazione del Sado-Maso, inscenata da Gene con tutti gli attrezzi del caso (che da zoccole già eran conci). Diventerà un autentico trademark e li porterà a diventare una sorta di house-band per la Eulenspiegel Society, la prima organizzazione BDSM fondata negli Stati Uniti nel 1971, con serate fisse e gremite da una coloratissima e variegata crew, condivise con i compagni di merende Teenage Lust (Uffah!)
La title-track “Refuse To Be Misused“ è un altro brano che ne definisce la personalità, in qualche modo lo ascolti e pensi: “ok, sono loro…”. Con un tappeto di tastiere a tessere la trama ed una diffusa malinconia di fondo, ti fa pensare ad una serata finita male, quando ti vedi costretto a rifugiarti nella tua zona di comfort, col trucco che cola, magari a causa di un copioso pianto liberatorio.
“Dead End” è molto “newyorkese”, pensate agli Streak di “Bang Bang Bullet“ o ai Brats di Rick Rivets e sarete nei paraggi, mentre “Double-Bubble Bustin’ Baby“ è un blues solo apparentemente innocuo, in realtà risulta piuttosto lascivo e puttanesco, oltre che probabilmente molto scorretto per testi e tematiche. Del resto nei 70’s ci piaceva così.
L’ultimo dei brani inediti, “And I Know“, pende decisamente sul versante Rolling Stones, senza particolari appigli che lo contraddistinguano dalla produzione contemporanea di Jagger e soci o da epigoni come i concittadini Five Dollar Shoes o i già citati Clap, ma risulta estremamente gradevole e convincente.
Pota… Non credo resti molto altro da aggiungere, se non che pare un’opportunità unica di portarsi a casa un piccolo gioiellino e rendere finalmente giustizia ad una band che, oggettivamente, non poteva restare poco più di una nota a margine nella grandiosa storia del rock n’roll. Ah, si… esiste anche la versione in CD, se siete così pelandroni da farvi scivolare un LP in vinile rosa con rivista DeLuxe, dotato ovviamente di codice per il download.
That’s All, Folks!
Sundazed Records 2022