Come il soprannome stesso di Motor City lascia facilmente intendere, Detroit è sempre stata una città con una spiccata vocazione industriale incentrata sul settore automobilistico.
Nei decenni successivi al secondo conflitto mondiale, queste collaudate caratteristiche da distretto industriale esercitarono forti spinte centrifughe su tutto il territorio nazionale attirando un esercito di emigranti in cerca di lavoro, soprattutto dal sud degli Stati Uniti: John Lee Hooker stesso, considerato uno dei padri fondatori del blues, nel 1943, si trasferì da Cincinnati a Detroit attratto dalle possibilità di un facile impiego in una delle tante fabbriche automobilistiche.
Posizionata al confine con il Canada francese e penalizzata da un rigido clima invernale, per tutti gli anni ‘70 questa città del Michigan, fu costretta ad affrontare un periodo di profondi stravolgimenti economico/sociali.
Gli effetti globali delle 2 crisi petrolifere del 1973 e del 1979; il ridimensionamento dell’industria automobilistica locale, in gran parte causato dall’importazione di utilitarie giapponesi a basso costo ed il crescente fenomeno (inverso a quello dei decenni precedenti) del deflusso demografico fiaccarono il livello di benessere degli abitanti locali, molti dei quali si ritrovarono, inaspettatamente, a dover fare i conti con un futuro incerto.
A farne le spese furono soprattutto le aspettative di crescita delle generazioni più giovani.
Una volta archiviate le superiori, i ragazzi del posto si trovavano spesso costretti a dover scegliere tra due opzioni per il loro immediato futuro: continuare gli studi iscrivendosi al college, oppure iniziare a lavorare nelle catene di montaggio di una General Motors non più premiante e remunerativa come lo era stata in passato.
Per sua fortuna, la generazione nata agli inizi degli anni ’60 aveva un jolly da giocarsi: la possibilità di seguire ed inseguire, nella speranza di entrare a farne parte, una scena musicale cittadina da sempre vivace e che proprio in quel periodo si stava facendo interprete di questo diffuso sentimento di disagio giovanile.
Tra la fine degli anni ’60 e gli inizi dei ’70, diversi musicisti disillusi dal sogno americano irrompono nella scena rock locale contribuendo ad indirizzare le aspirazioni di una moltitudine di ragazzi verso un futuro meno ‘inquadrato’ ed il più possibile lontano dalla estraniante routine quotidiana scandita dai turni di lavoro in fabbrica.
Iggy Pop & The Stooges, MC5, Suzi Quatro, Ted Nugent & The Amboy Dukes, Grand Funk Railroad, Alice Cooper: questi sono soltanto alcuni dei nomi più noti di artisti nati e/o cresciuti all’ombra di una industria in forte affanno e che proprio in quel periodo iniziavano a scuotere con i loro ritmi selvaggi i fine settimana della Motown, mostrando all’America che Detroit poteva offrire non soltanto il sofisticato soul che la aveva resa celebre negli anni ’60, ma anche una via di fuga forse meno rassicurante, ma altrettanto terapeutica perché si traduceva in uno sfogo quasi catartico di tutte le difficoltà attraversate in quel periodo dalla gioventù di Detroit.
All’alba del nuovo decennio, le nuove forme di rock veicolate da questa nouvelle vague di musicisti si indurirono allineandosi ai sentimenti di disagio dei ragazzi del posto finendo per diventare un comodo esempio da seguire alla portata di chiunque avesse una attitudine giusta e poco altro da perdere; tutto il resto passava in secondo piano, compresa l’iniziale carenza di disponibilità finanziarie, soprattutto se le ‘infrastrutture’ a supporto della ‘scena’ dimostravano di funzionare in maniera efficiente.
E queste ultime a Detroit non erano mai mancate: a cominciare dai canali radio locali che iniziarono ad accorgersi velocemente del cambiamento in atto impegnandosi a diffondere nell’etere i concerti live di molti artisti, a loro volta supportati logisticamente da un circuito di venues capillare e ricettivo.
Se si era attenti e si possedeva una radio bastava poco per sintonizzarsi sulle frequenze 106.7 della WLLZ (la Wheels of Detroit) chiudere gli occhi e varcare con l’aiuto del proprio immaginario la soglia del Token Lounge piuttosto che del celeberrimo Harpo’s, tempio della musica hard n’ heavy e rifugio ideale per chi era alla ricerca di un paio d’ore di divertimento e di buona musica.
E fu né più né meno questo il percorso che fecero 3 amici del posto prima di dare vita ai Seduce, una glam (heavy) metal band che a partire dagli inizi degli anni ’80 sarebbe diventata, nel giro di breve tempo, un punto di riferimento per la scena hard rock della Motown, tanto che persino l’industria cinematografica si accorse di loro.
Nel documentario The Decline of Western Civilisation II: The Metal Years, uscito nel 1988 e di cui si è già accennato in occasione della retrospettiva dedicata ai London, la voce fuori campo della regista Penelope Spheeris fa una domanda tutto sommato retorica a David Black, chitarrista dei Seduce, chiedendogli quale fosse, secondo lui, la più grande rock band di Detroit allora in circolazione.
“Noi”! Risponde mentre guida una decappottabile e con una punta di auto compiacimento Black il quale, al di là di ogni possibile sospetto di presunzione, non stava esagerando.
I Seduce rappresentarono infatti uno snodo centrale per l’intera scena musicale underground della famosa Motor City degli anni ’80.
L’audace vena trasformistica di questo trio ed il fedele seguito che riuscì a costruirsi grazie ad un’intensa attività live, anche come supporto a grossi calibri come Accept e Girlschool, diedero speranza ad una nutrita schiera di giovani musicisti locali stimolandoli a tentare se non la via del successo, che affascina molti, ma arride a pochi, almeno quella di un divertimento dai toni anticonformisti adottando il sound ed il lifestyle tipici delle band che proprio in quegli anni stavano iniziando ad affollare la scena glam metal californiana.
Alcuni dei nomi che popoleranno, senza mai spopolare, il circuito dei club di Detroit in seguito all’esempio di Andrews e soci saranno gli Sheer Heart, gli Idollz, i dokkeniani Heaven’s Wish, gli street rocker Sassycat ed i Motor City Rockers, i Madam X, gli Hunky Dory, gli ultra glam Slutt, i Sweet Teaze, gli shock rocker Halloween ed i Swingin’ Thing, solo per citarne alcuni.
Queste band rappresentarono soltanto la punta di un iceberg; sicuramente moltissime altre di cui non è rimasta traccia negli annali rock della Motown avranno calcato i palchi dei club di Detroit e dintorni in quegli esplosivi anni.
I Seduce sono tuttavia rimasti più di altri loro contemporanei nel cuore dei nostalgici dell’hard rock targato Midwest.
Il terzetto prende forma nel lontano 1980 dalle ceneri degli Sparks, dove militavano il bassista e cantante Mark Andrews ed il suo amico, il già citato chitarrista Dave Black.
Soltanto in un secondo momento la band troverà un equilibrio definitivo con l’innesto di Chuck Burns alla batteria.
Questo trio, rimasto numericamente tale, sostenevano i Sparks, per evitare situazioni di stallo nel caso di decisioni che implicassero una votazione maggioritaria, dichiarava di avere radici musicali apparentemente incompatibili che spaziavano dal trashy rhythm n’ blues dei New York Dolls e dal glitter rock da classifica degli Sweet, fino all’heavy metal europeo ed all’hardcore punk dei pionieristici Discharge.
Dalle prime 2 band i Seduce presero spunto soprattutto per il look, i cui audaci contenuti glamour anticiperanno di un paio d’anni la futura e dilagante moda, tutta lustrini e rossetto, adottata in massa da moltissime altre band americane.
Dai Discharge presero in prestito l’irruenza e la compattezza sonore che caratterizzavano il monolitico sound degli inglesi.
L’influenza che avevo spaziava dalla pesantezza del suono e dallo stile che suonavamo fino al look ed all’immagine
ricorda a tal proposito Andrews.
Questo insieme di caratteristiche formali e sostanziali si amalgamarono alla perfezione nel primo lavoro omonimo della band, una convincente autoproduzione datata 1985 (per l’etichetta indipendente Psycho Mania).
Una curiosità riguarda l’artwork ed il logo della copertina, che vede i 3 membri della band fotografati con un paio di Flying V e che sembra essere stato sottratto, dai Seduce stessi, all’autore degli scatti, Edward Przydzial, che per anni ha rivendicato la titolarità dei copyright senza mai ottenere giustizia.
L’album si presenta con una produzione pesante ed arrangiamenti articolati ed evidenzia uno stile ancora lontano dai compromessi commerciali cui scenderanno molte glam metal band negli anni a venire.
Addirittura, la stampa musicale dell’epoca, in maniera un po’ azzardata, ne paragonò l’immediatezza ai primi lavori degli Armored Saint, gruppo heavy metal di Los Angeles.
Insomma, chi ha sempre accusato il Glam Metal di essere stato un sotto-genere musicale basato su puerili canzonette con ambizioni radiofoniche ha in parte ragione, ma prima di fare di tutta l’erba un fascio dovrebbe ascoltare attentamente questo album, ed in generale il glam metal dei primissimi anni ’80, la cui pesantezza, se inserita nel contesto dell’epoca potrebbe costituire una piacevole sorpresa per i neofiti del genere.
Agli inizi degli anni ’80, il glam metal americano si presentava infatti con un sound solido e granitico sul mercato underground ed aveva ancora poco a che vedere con quel genere da grande distribuzione sdoganato dai vari Poison, Pretty Boy Floyd o Warrant e spalleggiato dalle major che trionferà a partire dalla seconda metà degli anni ’80 in poi.
Si trattava, molto semplicemente e come si evince dalla stessa denominazione terminologica, di un heavy metal con innegabili aperture melodiche suonato da musicisti che ricorrevano abbondantemente all’uso di make up e a costumi di scena colorati per attirare l’attenzione del pubblico e dei media.
A testimonianza di questo approccio aggressivo basti ascoltare il brano iniziale che inaugura l’esordio dei Seduce: l’esplosiva “Viper’s bite“, veloce e frenetica come il traffico della Motor City nelle ore di punta; o ancora il riff dal gusto groovy (stile Stooges) che taglia le accelerazioni ritmiche della successiva “Love to hate“.
La muscolare “Streets” sfoggia un piglio quasi power, mentre “Face to face” si sorregge su una base ritmica sincopata che fa perdere l’orientamento all’ascoltatore.
“Headbangers” irrompe con tempi incalzanti e serrati, studiati appositamente, come si evince dal titolo stesso, per far scuotere la testa ai kids.
Gli unici brani che sfoggiano una punta di make up sono “Chopping Block” e “Streets” dove si avvertono in lontananza gli echi degli sfrenati baccanali che da qualche anno stavano infiammando le notti del Sunset Strip californiano.
In conclusione, l’album è un quantomai uniforme e solido monolite di cemento armato scalfito solo in parte dalla potente voce oltranzista di Mark Andrews.
L’esordio dei Seduce ottenne riscontri positivi e le qualità di questo power trio armato di chitarre elettriche e rossetti balzarono ben presto all’attenzione della IRS, l’etichetta discografica di Miles Copeland, fratello del più famoso Stewart, batterista dei Police.
Copeland, già proprietario della famosa Illegal Records in Inghilterra, aveva una scuderia di artisti numericamente ridotta negli Stati Uniti, ma che poteva vantare nomi del calibro dei REM ed era alla ricerca di band con un sound diverso per poter diversificare, americanizzandolo, il proprio roster.
Fu proprio il ristretto numero di artisti rappresentati dalla IRS a convincere i Seduce a firmare il contratto, nella speranza che i responsabili dell’etichetta convogliassero le loro attenzioni promozionali sul progetto di questi audaci giovanotti di Detroit.
Ecco come Chuck Burns ricorda il percorso che portò la band ad accettare le avances della IRS, salvo poi pentirsene a cose fatte.
Stavano cercando di esplorare nuovi territori. Accettammo il contratto perché avevano una panchina corta e questo poteva significare che avessero soldi da investire in nuovi progetti. Abbiamo pensato: – beh, se riusciamo a diventare una delle poche Metal bands per questa etichetta che ha un bel po’ di grana, allora faremo sicuramente il colpaccio- . Salvo poi registrare un album e scoprire che l’intera politica distributiva della IRS era indirizzata alle radio dei college. Alla fine, quindi, firmammo il contratto e registrammo un album di cui loro non sapevano che farsene
Fu sulla base di questo errore di valutazione che si arrivò, nel maggio 1988, alla seconda prova in studio, anticipata dalla partecipazione della band alla compilation locale WLLZ – Motor City Rocks III con il brano “Headbangers“, assieme ad altri nomi di punta della scena hard rock di Detroit come gli Scarlet, gli Strut ed i shock rocker Halloween.
https://www.youtube.com/watch?v=PmXv7egUeqo
Il nuovo lavoro, intitolato Too Much ain’t Enough e registrato nei moderni Granny’s House studios di Reno, in Nevada, fu prodotto direttamente da Keen Waagner, manager dei Seduce ed ufficiosamente considerato il quarto membro della band.
Questo album segna un ridimensionamento dell’immagine e dello stile dei Seduce che si sbarazzano, per l’occasione, sia del make up che dello spirito sbrigativo e metallico degli esordi per spostarsi su versanti decisamente più moderati ed in linea con le richieste del mercato che, nel frattempo, avevano annacquato lo stile musicale privo di compromessi che aveva contraddistinto molte glam band di inizi anni ‘80.
La produzione è più disciplinata e la struttura dei brani appare meno macchinosa del precedente esordio.
In “Any time or place”, primo singolo estratto dall’album, fanno capolino dei cori melodici cui fanno da contraltare le detonazioni ritmiche della successiva “Watchin'”. “No use” si apre con un intro di chitarra acustica impensabile solo 3 anni prima, mentre “Empty arms” si sorregge su di un riff demoniaco stile Black Sabbath.
Da segnalare la cover di “Slider” di Marc Bolan brillantemente reinterpretata in chiave metallica.
Too Much ain’t enough è un album i cui contenuti si potrebbero definire ondivaghi: lo stile della band oscilla, senza mai affondare veramente il colpo in una direzione piuttosto che nell’altra, tra timide ambizioni commerciali ed un insistente retrogusto metal old school che in quegli anni poteva suonare démodé per molti giovani americani che sembravano essere orientati verso prodotti di più facile lettura.
L’album, penalizzato da questa insicurezza stilistica e tutt’altro che inferiore a lavori di artisti più noti, fu apprezzato dalla critica, ma ignorato dal pubblico: la prima ne promosse i contenuti che lo portavano a distinguersi nel mare di proposte tra loro similari che inflazionavano la scena hard rock di quegli anni.
Il grande pubblico avrebbe anche potuto apprezzare la sterzata dei Seduce verso lidi più commestibili, ma l’album non ricevette adeguato supporto dalla IRS, fatta eccezione per un breve tour di supporto alla Vinnie Vincent Invasion e per qualche data assieme ad Iggy Pop.
La IRS forse si pentì un po’ troppo presto di questo esperimento stilisticamente azzardato e non in linea con le precedenti proposte della casa discografica.
L’etichetta di Copeland aveva sperato di sfondare negli USA mettendo sotto contratto i Seduce, ma forse avrebbe dovuto puntare su una band con caratteristiche diverse e che avesse un approccio ed un sound meno europei.
Da segnalare, sempre nel 1988, la partecipazione dei Seduce al documentario The Decline of Western Civilization: the Metal years, in cui il trio dimostra le sue capacità con l’inedito “Colleen” e con “Crash Landing”.
Questo cameo si rivelò tuttavia un buco nell’acqua e non alzò quel polverone mediatico che la band si aspettava deludendone le aspettative in termini di acquisizione di maggiore visibilità a livello nazionale.
Avevano grosse aspettative, ma alla fine la band si sciolse un paio di anni più tardi. In quel periodo tutti volevano un cantante dal look appariscente tipo Vince Neil, così da fare presa sul canale MTV. Essere un trio privo di un frontman facilmente identificabile ci ha fottuti
Questa è la (forse troppo) semplicistica chiave di lettura con cui Black giustifica il flop dei Seduce che nel 1989 furono scaricati dalla IRS.
Il periodo di vacatio legis che ne derivò, aggravato dalla dipendenza di Black dall’eroina, iniziò a provocare tensioni interne.
All’indomani del licenziamento da parte della IRS, Chuck Burns abbandonò la band e venne rimpiazzato da Mike Alonso (ex Katmandu).
Con questa nuova formazione i Seduce proseguirono la loro attività ancora per un po’ di tempo, tentando anche la sterile carta dell’inserimento di un nuovo cantante, Angelo Ganos (ex Gangway e Paris) per poi sciogliersi definitivamente nel 1991, poco prima di entrare in studio per le registrazioni del nuovo album.
Gli anni successivi vedranno i tre musicisti impegnati in diversi progetti musicali: il più attivo è stato sicuramente Chuck Burns che ha militato nei rock n’ rollers Skeemin’ Nogoods, nei famosi Negative Approach ed addirittura come cantante/chitarrista negli Speedball prima e negli Shaky Jakes dopo assieme a David Black.
Quest’ultimo suonerà la chitarra nei Crud, una sorta di Rammstein ancora più eclettici.
Da sottolineare la recente opera di recupero della Prudential Music (una etichetta di Detroit) che ha ristampato i 2 album dei Seduce su dei vinili colorati, facendo la felicità dei collezionisti che non sono mai riusciti ad assicurarsi le stampe originali.
Detroit, città dal carattere complicato e con un lifestyle meno flamboyant della assolata Los Angeles, fu la rampa di lancio per i Seduce, ma alla lunga si rivelò anche una prigione. La scelta della band di non trasferirsi in California ne limitò sicuramente i margini di crescita da un punto di vista musicale e quindi le possibilità di riuscita.
Ciò non impedí tuttavia ai 3 musicisti di registrare un paio di buoni album di glam metal con cui i Seduce scrissero qualche pagina della storia di questo sotto genere quando ancora di storia non si poteva veramente parlare.
Franco Brovelli