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POISON, CINDERELLA, SLAUGHTER, FASTER PUSSYCAT:

THE HOLLYWEIRD TOUR

(Ovvero, perche’ e’ ora che Bret Michaels appenda la bandana al chiodo...)

Universal Amphitheatre, Los Angeles, California – 8 Giugno 2002

Forse alcuni di voi mi odieranno gia’ da questo titolo, ma vi assicuro che la mia affermazione vuole stavolta essere una critica oggettiva, cercando di risparmiare antipatie personali su cui mi sono dilungata abbastanza durante il Glam Slam. Questa recensione esce soltanto ora perche’ non e’ stato facile per una poisoniana storica come me mettere per iscritto la fine di un mito personale; purtroppo, mai come oggi posso tristemente affermare che le vendite, seppur sempre piu’ ridotte, del carrozzone estivo dei Poison sono dovute piu’ al succulento “all stars” bill che alla band stessa. E quel che piu’ fa rabbia, i numeri ci sarebbero tutti, ma i nostri eroi come certi cigni sono troppo occupati a specchiarsi nelle acque del lago per nuotare verso nuove sponde... Andiamo per ordine.

Ho assistito a tre date di questo tour, ma essendo impegnata a Vegas con l’intervista ai Cinderella e a San Diego con quella a Taime Downe questo e’ lo show che posso raccontarvi meglio.
Lo Universal Amphitheatre si affolla con la “Beautiful People” di Manson, tette e ciglia finte e parrucche, atteggiamenti artefatti e troppi posti vuoti per essere la casa storica del movimento glam statunitense. L’appuntamento fisso dell’estate da ormai quattro stagioni comincia a perdere interesse, questo e’ chiaro, trasformandosi da reunion dell’anno a routine scontata. Anche l’affetto del pubblico ultra’ e’ in declino, parzialmente colpito dalle nuove regole dei Meet&Greet, che impongono la prenotazione per un solo after show e non garantiscono la presenza di Bret Michaels; a meta’ tour i leggendari incontri del Fan Club verranno completamente cancellati.

Cenerentole del bill sono quest’anno i Faster Pussycat, come l’anno scorso gli Enuff’z’Nuff non troppo ligi ai rigidi regolamenti poisoniani, forse per questo relegati all’angolo col cappello a cono in testa. Taime e compagni sono l’unica ventata di nuovo in questo circo stanco, ed e’ un vero peccato che gli venga data solo mezzora, e parliamo della mezzora di apertura di un bill di quattro pezzi, quando l’attenzione te la devi guadagnare coi denti. A questo e’ dovuta, mi spieghera’ Taime piu’ tardi, la scelta tanto criticata degli outfit filonazisti. Niente di politico, ma raggiungono lo scopo: gli occhi sono tutti sul palco appena i ragazzi fanno il loro ingresso. Danny si presenta addirittura con una maschera antigas che tiene su per tutta la durata del primo pezzo. La scelta del brano d’apertura anche e’ a dir poco originale, si tratta di “These boots were made for walking”, una hit degli anni 60 ovviamente rivisitata in chiave Downe, che catalizza subito l’attenzione dei presenti. E ora che tutti pendiamo dalle labbra dell’eclettico vocalist, esplode in tutto il suo party power “Cathouse”, e si aprono le danze. Abbiamo cosi occasione di notare un “Bianca I love you” ben visibile sul retro della t-shirt di Taime; per i meno informati, e’ un tributo alla sua migliore amica, la giovane cantante delle emergenti Betty Blowtorch morta in un incidente d’auto appena prima di Natale, a pochi giorni da uno show di Capodanno al Whisky A GoGo che tutti stavamo aspettando.

“Cathouse” segue la sempre ottima “Slip of the Tongue”: e’ un vero Faster Pussycat gig, niente dei Newlydeads, seppure il tutto abbia un tocco attuale, senza rinnegare le radici. Il pubblico sembra apprezzare, ballando e cantando. La band rispolvera addirittura “Tattoo”, da “Wake me when it’s over”, prima di richiamare gli accendini con la splendida “House of Pain”. E quando siamo tutti anima e corpo con Taime, arrivano le note di “Bathroom wall”... Come posso commentare “Bathroom wall”? C’e’ niente di piu’ glam, niente di piu’ party rock mai registrato nella storia? E’ la canzone che da sola dovrebbe essere l’headliner di questa serata, con tutte le band a rendere omaggio a tanto genio musicale! E invece e’ solo il punto clue della band d’apertura, ci rendiamo conto? Che spreco! Specie considerando quello che ci aspetta dopo... E dopo averci salutato noi con questa perla, Taime saluta Bianca con un’incazzatissima cover di “Shut up and fuck”, al che se foste stati qui vi sareste andati a comprare il cd di Betty Blowtorch (anche perche’ trovarlo fuori dal territorio americano e’ impossibile...).

Il comune buon senso ci dice che in un concerto di quattro atti capitanato dai fuochi d’artificio dei Poison l’energia dovrebbe andare in crescendo, invece dopo mezzora (solo) di party dei Faster Pussycat ci infiliamo tutti jeans e maglietta, prendiamo la chitarra, ci sediamo sul nostro sgabello e strimpelliamo pacatamente 45 minuti con i Winger. Voglio dire, sarebbe anche carino come concerto, magari di supporto al piu’ recente Bon Jovi, o agli Scorpions, ma qui che c’entra? Look e musica sono totalmente fuori tema con il resto della serata, e l’effetto e’ un po’ quello dei Thunder all’ultimo Monsters of Rock, tutti ne approfittano per ubriacarsi al bar. Nulla da vedere, un buon sottofondo per gustarsi un paio di birre.

Si apre alle 7 (Spyke, sorry, qui non e’ “Time for the party”) con “Blind Revolution Mad”, look come ho detto semplice, classico, jeans e maglietta e taglio alla Bon Jovi di Ally McBeal (sigh); poi c’e’ “Madeleine” e la ballad “Miles Away”. Un riff decisamente classico introduce “Rainbow in the Rose”, seguito dall’immancabile assolo di chitarra che ci porta a “You’re the saint, I’m the sinner”. E’ tempo di presentare la band e i Winger lo fanno in pieno stile ’80, tutti in riga al centro del palco. Poi dal primo album la power ballad “Headed for a Heartbreak”, e sulle note di “Can’t get enuff” noto che l’Anfiteatro si e’ abbastanza riempito. In tempo per la classica “17”, che Kip introduce dicendo che forse e’ un po’ troppo vecchio ora per questa canzone. E’ senz’altro il momento migliore dell’esibizione dei Winger, col pubblico che canta in coro e finalmente sembra cominciare a sentirsi coinvolto. Peccato sia l’ultima...

E con la band di nuovo in riga prodiga di inchini e ringraziamenti, ci prepariamo a vedere quello che molti di noi considerano l’atto principale dell’Hollyweird, se non altro perche’ non capita spesso di vederli live: il palco dell’Universal Amphitheatre si prepara ad accogliere i Cinderella. Ora ci siamo davvero tutti. Comunque, i seggiolini vuoti sono ancora troppi.
In un’esplosione di luci bianche come il logo alle loro spalle, Tom Kiefer e compagni fanno il loro ingresso sul palco. Si inizia con “Save me”e il pubblico si lascia subito conquistare dall’energia che finalmente invade l’aria. Ora e’ veramente rock’n’roll! Premessa: e’ vero, e’ pressoche’ lo stesso set di due anni fa, ma almeno non ce lo propinano una volta l’anno, e poi non e’ colpa loro perche’ stanno ancora combattendo legalmente per il nuovo album che e’ bell’e pronto. Quindi, gloria ai Cinderella e godiamoci questa rispolverata di hits storiche che chissa’ quando ci ricapitera’ di ascoltare live.

E andiamo con “Push push”, yeah, balliamo, battiamo le mani, perdiamoci nella labbra indimenticabili di Mr Kiefer che tanto ci hanno fatto sognare nella nostra eta’ piu’ bella; “Hot & Bothered” si insinua felina nel sangue, e si spegne nel soffio del vento che introduce “Night Songs”. Tom indossa ora il suo cappello a tuba e ha la vecchia chitarra a due manici, ecco il suo assolo, fuoco alle sue spalle and we are “Falling apart at the seams”, hooo ha... Chitarra acustica: “Heartbreak station”, che altro? Brividi sulla schiena, sulle braccia, nelle vene e dritti al cuore. Sfoglio il libro dei ricordi, le tante pagine di ultimi treni e nuovi inizi di cui questo gioiello e’ stato la colonna sonora. Certe canzoni sono immortali, certe canzoni sono cosi vive che ti stupisci possano essere registrate su un pezzo di metallo e suonate con un piccolo attrezzo elettronico e un paio di batterie. Come la prossima, cosi bella che Jeff lascia la batteria e scende a cantare con Tom, “I’m coming home”, uno di quelle perle di perfezione in cui la musica trasmette il messaggio ancor piu’ delle parole stesse, con tutto il calore e la ritrovata serenita’ del ritorno al luogo che chiamiamo casa.

E’ giunta l’ora della mia preferita, tutti ne abbiamo bisogno, we all need a Little Shelter, Just a Little Helper to get us by... e alla fine del primo ritornello un esplosione trasforma il bianco del logo in una pattern a stelle e strisce. Non so quanto mi faccia piacere che il mio Shelter sia stato tradotto in una bandiera americana, visto che ancora “for me it’s rock’n’roll”, come canta la prima strofa, ma conoscendo le idee di Tom e l’atmosfera che regna da questa parte dell’Atlantico non posso stupirmi. E’ ora dell’intensa e drammatica “Nobody’s Fool”, e poi il ritmo si rialza a toni decisi con la major hit “Gipsy Road”. Le danze si chiudono, le luci anche, per riaffiorare delicatamente al suono del piano nel candore della neve, mentre attacca “Don’t know what you’ve got (til it’s gone)”, un monito a goderci il prossimo e ultimo pezzo perche’ quest’ultima ora ci e’ scivolata via tra le mani e la stiamo gia’ rimpiangendo. Il bis e’ “Shake me”, e credo proprio che la scossa questi sempreverdi del rock’n’roll ce l’abbiano data.

Non posso non dedicare due righe in chiusura alla voce di Tom Kiefer, delicata come un fiore raro, ma grazie a Dio e a qualche buon dottore ancora calda, graffiante e sensuale come 16 anni fa. Se il nuovo album vedra’ mai la luce, e’ uno di quelli da comprare a scatola chiusa solo per i suoi gorgheggi, e alla prossima esibizione dei Cinderella vi consiglio di spaccare il salvadanaio e prendervi le ferie, perche’ sono semplicemente unici.
Ed e’ giunta l’ora dei Poison, main act di questa calda serata californiana. L’anno scorso invocavo alla novita’, lamentandomi della ripetitivita’ della set list e delle consumate lines di Bret Michaels. Quest’anno mi sfrego le mani: c’e’ un nuovo album, ma veramente nuovo, a esclusione di “Rockstar” precedentemente disponibile su MP3 e eseguita live, e della cover “Squeezebox” degli Who, peraltro gia’ rifatta dai Roxyblue. Ho comprato “Hollyweird”, in cui onore questo tour e’ stato battezzato, appena uscito nei negozi, e ho fantasticato su come ogni pezzo potesse suonare dal vivo. Ho immaginato il duetto di Bret e CC nella scanzonata “I wanna go home”, i fianchi di Bret muoversi al ritmo di “Devil Woman”, nuove coreografie... Aaahh, dolce sognare!
L’intro e’ il solito, cosi come l’ingresso di Bret sulle note di “Look what the cat dragged in”, ma questo ci va piu’ che bene, altrimenti non sarebbe uno show dei Poison. “Look what the cat” e’ storia, e non potrebbe esserci apertura migliore. Fuochi d’artificio, grida del pubblico delle prime file. E sparano subito “Talk dirty to me”, il piu classico dei bis. Mah. Vabbe’, comunque la party athmosphere non gliela toglie nessuno. “Ride the wind” e’ confermata nella scaletta, e finalmente una canzone nuova, per modo di dire: si tratta della cover “Squeezebox”, decisamente carina live, ma pur sempre una cover. Attendo sempre le nuove creazioni. C’e’ ancora da aspettare. Preceduta dalle solite prefazioni brettiane che potete ascoltare nei due album live parola per parola arriva “I want action”, sempre gradita e festaiola, ma sara’ che ho fatto troppi concerti dei Poison, ormai mi suona esattamente come il cd. Ora dell’assolo di CC, seguito, indovina indovina, da “I hate every bone in your body but mine”, con tutto che il nostro piccolo newyorkese canta tre, dico tre brani nel nuovo album, e “I hate every bone” non e’ certo un classico che non si puo’ escludere.

E finalmente la prima novita’: cambia il commento di Bret a “Something to Believe In”, ora dedicata (non ci arriverete mai!) alle vittime dell’11 settembre, con l’affermazione “Nobody fucks with the USA”. Nello stesso momento, Lennox Lewis metteva al tappeto Tyson e io gridavo “Nobody fucks with the UK”... Avendo visto tre date, posso dirvi che la citazione e’ stata letteralmente la stessa, probabilmente per tutto il tour, e che salvo altri atti terroristici o fine dei Poison ci accompagnera’ ancora il prossimo anno.
Ed e’ festa grande con “Your mama don’t dance” (un’altra cover, per i disinformati), Bret cammina su e giu’ per il palco, CC si rotola, Rikki salta, Bobby suona, noi balliamo sugli spalti. Ed eccola, l’unica vergine di questo tour: “Hollyweird”, non il migliore episodio dell’album, ma la title track va doverosamente suonata, quasi come una tassa da pagare. Dal vivo rende decisamente meglio. Chissa’ come sarebbero state le altre in questa cornice di luci e fuochi d’artificio, con la batteria al titanio di Rikki, le boccacce di CC e i muscolozzi alla Big Jim di Bret. Magari i presenti sarebbero andati a comprarlo, magari ce l’avrebbe fatta alla posizione 98 della classifica del Rolling Stone. Perche’ non ci credono? E se non ci credono loro, chi altro volete ci creda?

E’ l’ora di Rikki e la sua adorata batteria al titanio, vai con l’assolo. A seguire, l’immancabile “Every rose has its thorn”, e poi quello che e’ probabilmente l’apice energetico di questo concerto, “Unskinny bop”. Balliamo con Bret e sorridiamo all’ennesima esplosione delle due fiamme ai lati di Rikki sincronizzate con “and you get hot”, e arriva “Rock’n’roll all nite” (terza cover della serata): e si, c’e’ una novita’, che nessuno sembra comunque apprezzare… L’ormai classico invito a salire tutti sul palco e ballare tra i coriandoli quest’anno non arriva. Le prime file sono tutte li che aspettano, ma quest’anno anche la party atmosphere sembra andata a farsi friggere. Quest’anno sembra veramente un registratore di cassa, una versione stelle e strisce della Festa dell’Unita’ messa insieme per mungere gli ultimi spiccioli dai fedeli rimasti prima che la corrente cambi del tutto.

E il finale, devo proprio dirvelo o vi ricordate il Glam Slam? “Los Angeles, we are not gonna leave you until you have nothin’ but a good fuckin’ time!”. Per quanto mi riguarda allora, qui si dovrebbe andare avanti ancora per un bel po’.
Un concerto carta-carbone, un album nuovo posteggiato sugli scaffali dei negozi ormai senza speranza, perche’ da che mondo e’ mondo un tour e’ la migliore occasione per promuovere e i Poison sembrano averlo dimenticato. Non capisco. Perche’ spender soldi su un album allora? Se qualcuno di voi signori professionisti del music business sa rispondermi qui, aspetto con ansia le vostre email.

Ma voi, amanti del rock’n’roll come me, risparmiatevi lo sforzo di pensarci troppo, perche’ le voci sono che il promoter dei Poison dopo questo tour e’ andato in bancarotta, il tanto atteso ennesimo tour europeo e’ stato non rimandato ma annullato ora e per sempre, e apparentemente non c’e’ da aspettarsi un altro circo estivo. Le cause del fallimento non sono davvero difficili da capire: in aggiunta ai costi di un album inutile, c’e’ la caparbieta’ di una certa persona imparruccata che rifiuta di suonare in clubs, pretendendo arene che costantemente rimangono vuote per oltre meta’. Questo e’ il motivo per cui non avete visto i Poison da questa parte dell’oceano: qui nessuno gli da’ un’arena che non possono riempire.
A meno che Bret inizi finalmente a ragionare e si ridimensioni, a meno che riscenda sulla Terra e ricominci a godersi il rock anziche’ usarlo come espressione della sua personale vanita’, signori, salutate con me la morte di un’icona del glam, uccisa dall’ego smisurato del suo leader. R.I.P.

Cristina Massei

 

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