Sono quasi le 10 del mattino, mi scaravento giù dal letto e, vincendo la resistenza di quei due blocchi di marmo che mi sento al posto delle gambe, sbatto una capsula di caffè nella macchinetta, mi accendo una sigaretta e striscio fino al balcone, cercando a fatica di farmi sparire dal volto un sorriso ebete che neanche il freddo, il cielo plumbeo e la pioggia battente riescono a scalfire. Solo una decina di ore fa ero ancora sotto al palco della quarta edizione del Frontiers Rock Festival, ed ora mi ritrovo qui, a meditare su cosa poter scrivere per condividere con tutti voi, che ci siate stati o meno, lo spirito di queste due splendide giornate in cui la Musica e le emozioni hanno regnato sovrane, e tutto il resto, una volta tanto, è potuto passare in secondo piano. Musica ed emozioni, ecco. Perché al Frontiers la musica, quella suonata, è solo una parte dell’equazione. Il resto lo fa la gente. La partecipazione. Il ritrovare vecchi amici. Conoscerne di nuovi. Condividere una birra (o anche più d’una). Ringraziare un’artista per tutto quello che ti ha trasmesso negli anni. Prendere e prendersi in giro. Lasciare che le vibrazioni ti invadano il cuore e la mente, cancellando, anche se solo per poche ore, il logorio della vita moderna. Ecco, nel prezzo del biglietto c’è tutto questo (tranne il Cynar). Il resto è solo cronaca. E di cronaca, ai tempi del Web, ne avrete già letto e ne leggerete tanta, ragion per cui spero mi perdonerete se queste poche (?) righe che seguiranno non vogliono raccontarvi tutto il festival minuto per minuto.
L’egemonia scandinava
Scandinavia, terra di ghiacci, laghi, mobili prefabbricati e gruppi rock. Di questi ultimi, a volte verrebbe da dire, pure troppi. Dei 14 artisti in cartellone, più della metà arriva da quelle parti e sarebbe quasi lecito parlare di egemonia nordica. Nessun problema per il sottoscritto, ho sempre mostrato sincera ammirazione per come la scena locale abbia partorito stelle di prima grandezza un po’ in tute le sottocorrenti del panorama hard rock/heavy metal, ma quando l’offerta abbonda, spesso oltre ai cigni si palesano anche i brutti anatroccoli. Per esempio i PALACE, che per quanto mi siano piaciuti su disco, tanto mi hanno deluso sul palco. L’esordio on stage ne ha evidentemente esacerbato i limiti sia di esperienza che di repertorio, abilmente limati in studio ma severamente esposti in sede live. Un vero peccato, speriamo possano maturare ed avere la possibilità di stupirci positivamente in futuro.
L’altro anatroccolo, gli ADRENALINE RUSH, proprio brutto-brutto non è, vista la grazia e le grazie della sua front-woman Tave Wanning, un tipino che non passa certo inosservata. Cosa che non possiamo dire della band nel suo complesso, che pur mostrando qualche progresso sia su disco che sul palco (sono alla seconda partecipazione al FRF), rimane per il sottoscritto un’incognita musicale. Di sicuro c’è che una volta in scena Tave e compagni hanno fatto alzare drasticamente la temperatura (e forse anche qualcosa d’altro) del pubblico, seppur per le ragioni più sbagliate (o forse per quelle più giuste???).
Nel laghetto scandinavo del Frontiers ci sono anche anatroccoli tutt’altro che brutti, ma non ancora cresciuti a sufficienza per spiegare le ali e mostrarsi in tutta la loro maestosità cignesca. I CRUZH, per esempio, pur non facendo gridare al miracolo, promettono bene. Per l’occasione hanno deciso di portarsi dietro – affidandogli addirittura il ruolo di front-man – il buon Philip Lindstrand, una vecchia conoscenza del festival che avevamo avuto modo di apprezzare lo scorso hanno in seno ai Find Me di Robbie Lablanc. I loro pezzi di facile presa probabilmente non faranno la storia del song-writing, ma si vede che si divertono a suonarli, ed anche il pubblico tutto sommato mostra un buon apprezzamento, considerata la posizione nel bill che li vede aprire la seconda giornata di festival.
Ben più cresciutelli e navigati i finnici ONE DESIRE di Jimmy Westerlund (Negative, Sturm Und Drang) e Andrè Linman, di cui ho apprezzato abbastanza il debut album e protagonisti di un buon concerto in cui la band ha esposto la propria visione musicale fatta di rock melodico con derivazioni pop, immalinconito da un quasi impercettibile anelito emo. Esecuzione tecnicamente impeccabile, ma per il sottoscritto il tutto è risultato dannatamente algido. Meno cervello e più cuore per il prossimo disco, grazie.
I CRAZY LIXX… perché piacciono a tutti e a me no? Ok, sto esagerando. Non è che mi facciano schifo, anzi. Hanno degli ottimi pezzi, sono belli, sono bravi, hanno presenza scenica e live sono una comunque una gran bella botta. Non ho ancora finito di assimilare il disco nuovo, ma mi pare che la tendenza alla melodia sia sempre più accentuata, anche se permane quella vena sleaze che forse è il vero motivo per cui la scintilla tra me e loro non è ancora scoccata. Alla fine li trovo un po’ ne carne ne pesce, preferirei si focalizzassero di più in un senso o nell’altro. Comunque, a giudicare dalla reazione del pubblico deve essere un problema tutto mio. Sono contento per loro, che hanno riscosso un bel successo, tanto da risultare tra le band più apprezzate della manifestazione.
Quando gli anatroccoli crescono, diventano… gli ECLIPSE. Scherzi a parte, la band di Erik Martensson non è più una promessa ma una splendida realtà già da tempo. Veterani del Frontiers (sono alla terza partecipazione su quattro edizioni), i 4 svedesi si guardano e ascoltano sempre molto, molto volentieri. La recente uscita di “Monumentum” ne ha consolidato reputazione e celebrità: non c’è nulla da dire, il disco è proprio bello, e dal vivo spaccano. Martensson e compagni si sbattono sul palco come diavoletti di Tasmania, trascinando il pubblico come pochi sanno fare. La qualità della proposta musicale, la naturale carica di simpatia e un’innegabile propensione all’interazione con il pubblico sono tali che gii perdoniamo anche l’uso un po’ invasivo delle basi, inevitabili per riprodurre in sede live la complessa trama sonora dei loro brani. Da segnalare l’ospitata-cameo del nostro Michele Luppi che affianca Martensson per una fantastica “Jaded”, a suggello di una performance da ricordare tra le più pregnanti dell’intero festival.
Terminata la sfilata dei giovani virgulti, la storia del melodic rock scandinavo si palesa sul palco prima con KEE MARCELLO, come sempre un grandissimo alla chitarra, e poi con i TNT, chiamati addirittura a chiudere questa quarta edizione del festival. L’ex-Europe non ha bisogno di presentazioni, gli basta lasciar “parlare” la chitarra e se posso permettermi una critica, sarebbe meglio che solo su quella si concentrasse. Vocalmente infatti non ci siamo proprio, auspicherei il reclutamento di un cantante che riesca a rendere maggior giustizia a quelle canzoni. Comunque, tra pezzi suoi, un richiamo agli Easy Action e gli inevitabili pezzi degli Europe, lo show scorre via liscio, anche se a onor del vero di “The Final Countdown” ne avrei fatto volentieri a meno.
I TNT festeggiano il 30° compleanno di “Tell No Tales” con l’ennesimo rientro in formazione di Tony Harnell, reduce da un brevissimo e poco fortunato sodalizio con gli Skid Row. A loro l’onore e l’onere di chiudere il quarto Frontiers, e gli sarebbe pure andata bene se la sfiga non ci avesse messo la zampina imponendo loro di salire sul palco dopo che questo fosse stato letteralmente demolito pochi minuti prima da Tracii Guns e Phil Lewis. Ma di questo parleremo più avanti. I TNT pescano a piene mani sia da “Intuition” che da “Tell No Tales”. Harnell cita dal palco la loro unica precedente calata italica, facendo scendere una lacrima al sottoscritto che nel lontano 1987, al Prego di Via Besanzanica, era presente e quella serata se la ricorda come fosse ieri (inclusa la presenza in veste di supporter dei mitici Havoc). Protagonista assoluto un LeTekro manco a dirlo superlativo, con un Harnell sempre bravo ma non ineccepibile, con quegli acuti buttati li un pò cinofallicamente. Per spezzare una lancia nei loro confronti, bisogna ammettere che non sarebbe stato facile per nessuno salire sul palco dopo “quegli” L.A. GUNS.
Quasi dimenticavo, l’egemonia scandinava si manifesta anche laddove l’AOR nostrano riesce finalmente a salire sul palco del FRF. Parlo naturalmente dei LIONVILLE , la splendida creatura di Stefano Lionetti, fronteggiata da Lars Safsund dei Work Of Art. Ero particolarmente curioso di vederli sul palco, e la curiosità è stata ripagata con uno show eccellente, probabilmente tra le cose migliori viste nel corso delle due giornate. Umiltà e professionalità sono il biglietto da visita della band, a cui Safsund conferisce quel respiro internazionale che a volte scarseggia un poco nelle produzioni nostrane. Tanto di cappello, ragazzi, avete guadagnato un fan in più.
L’appuntamento con la Storia
Lo dico senza remore, ho partecipato al festival quasi esclusivamente per poter vedere in azione gli UNRULY CHILD (se non è un “ora o mai più”, poco ci manca), i TYKETTO, i redivivi L.A. GUNS , i REVOLUTION SAINTS e gli STEELHEART perché quando la storia chiama, è vietato mancare all’appello. E che appello!
Partiamo con gli STEELHEART, che pur rappresentando un bel pezzo di storia del genere, nemmeno all’epoca mi avevano fatto gridare al miracolo. A loro viene affidato il ruolo di headliner della prima giornata, il che contribuisce non poco ad alzare le aspettative. Miljenko Matijevic si presenta sul palco con un look ed un atteggiamento che me lo hanno reso subito simpatico come una badilata di letame sulle gengive, ma appena apre bocca non possiamo che levarci il cappello, ha ancora una voce da paura. Detto questo però, complice anche la stanchezza accumulata, non è che lo show mi abbia esattamente esaltato. Il piglio forse troppo cazzuto mi ha un po’ disorientato e alla fine è subentrata la noia. Peccato, probabilmente si tratta solo di (mia) mancanza di feeling.
Mia opinione personale: lo slot da headliner secondo me se lo sarebbero meritato i TYKETTO, altra band che mai avevo avuto modo di vedere dal vivo e di cui aspettavo con impazienza l’esibizione. Danny Vaughn, con cui la sera prima avevo avuto modo di scambiare quattro parole, manifestava per questo concerto una carica emotiva ben percepibile, tanto da presentarsi, non previsto, sul palco del set-acustico riservato ai possessori di biglietto VIP. E una volta sul palco del festival vero e proprio, quella carica è esplosa in tutta la sua potenza. Concerto per quanto mi riguarda epocale, in cui viene riproposto (in retromarcia!) tutto “Don’t Come Easy” ed esibizione maiuscola sia di Danny che del resto della band. Vocalmente impressionante, Vaughn stende tutti sul finale di set inanellando una tripletta (“Burning Down Inside”, “Wings” e “Forever Young”, meravigliose ora come allora) da isteria melodica con cui trascina a cantare tutto il Live Club e strappando la vittoria della giornata per manifesta inferiorità degli avversari.
Che dire invece dei REVOLUTION SAINTS? Vedere su di un unico palco Jack Blades, Doug Aldrich e Deen Castronovo è un’occasione più unica che rara (specie per Castronovo, visti i guai con la giustizia), e quindi via, sotto il palco a godersi questi purosangue che – dall’alto della loro santità musicale – appaiono ai propri fedeli per la prima volta (e speriamo non sia anche l’ultima!). Com’è andata? Faccio un po’ fatica ad essere obiettivo, volevo solo vederli e sentirli. A prescindere. Poi vi racconteranno che tecnicamente parlando il concerto non è stato eccezionale, che ci sono stati inconvenienti tecnici, che mancava l’amalgama, che non è una vera band, che si tratta di un progetto costruito a tavolino. Machissenefrega, io volevo solo vederli, li ho visti, ho goduto come un riccio e, per quanto mi riguarda, avrebbero potuto suonare anche le Pagine Gialle che sarei andato via felice lo stesso. Poi onestamente tutta questa negatività io non l’ho vissuta, i tre mi son sembrati più che felici di essere sul palco assieme, e di poter ricreare dal vivo ciò che avevano partorito in studio. Per questo non smetterò mai di ringraziare Alessandro Del Vecchio, deus ex-machina e direttore artistico del progetto: assolutamente doverosa la sua presenza sul palco insieme ai tre personaggi, un gigante tra i giganti. Per la cronaca, se era abbastanza prevedibile, oltre che auspicabile, il ripescaggio di qualche hit delle varie band d’origine, meno scontata si è rivelata la scelta dei brani da presentare: “Coming Of Age” dei Damn Yankees, “Love Will Set You Free” dei Whitesnake ma soprattutto “Higher Place” dei Journey. Coronarie a severo rischio, e sorriso da orecchio a orecchio con pericolo di paresi.
Ho volutamente lasciato per ultime le due band che per il sottoscritto giustificavano l’essere presente per la quarta volta al Frontiers, e che anche da sole avrebbero giustificato il prezzo del biglietto.
Vedere gli UNRULY CHILD dal vivo era uno di quei desideri che mai mi sarei aspettato di veder realizzato, vi lascio quindi immaginare la trepidazione dell’attesa, soprattutto sapendo che il fulcro del loro live sarebbe stato, per intero, il loro primo, mitico album. E che avrei finalmente visto e sentito cantare Marcie Free (letteralmente) di fronte a me. Tralascio a piè pari il lato tecnico del concerto: credo che la band in tutta la sua carriera abbia suonato dal vivo solo un paio di volte, e per ovvi motivi questo si è sentito. Marcie Free sembrava più emozionata di noi, e questo forse giustifica un poco il nervosismo che l’ha spinta a portarsi sul palco un antiestetico laptop da cui –suppongo – sbirciare i testi. Poi però ha aperto bocca, e per quanto mi riguarda a quel punto tutte le questioni tecniche se ne vanno a farsi benedire e lasciano il posto alla pure emozione. Con “When The Love Is Gone” e la conclusiva “Who Cries Now” sono praticamente svenuto. Nel proseguo della serata mi sorbirò non poca calca per poterla incontrare, fargli firmare una decina di dischi e praticamente prostrarmi ai suoi piedi.
Adoro Phil Lewis. Lo seguo fin dai primissimi anni ’80, e “Sheer Greed” dei Girl è per me uno dei più grandi album di quel periodo. Adoro ancora di più gli L.A.GUNS, i loro primi tre dischi spazzano via tutto lo sleaze rock losangeleno degli ‘80s. Una manciata di lavori buoni, ma non eclatanti, l’interesse che è un po’ scemato, i dissidi interni, le due fazioni, le solite menate. Poi l’annuncio del ricongiungimento, Tracii Guns rientra in formazione e la notizia della partecipazione al Frontiers. Cusiosità a mille, ed un malcelato terrore che si tratti della solita reunion di adorabili vecchietti alla ricerca dell’arrotondamento delle entrate. Poi sono saliti sul palco e nel breve giro di poche note si è scatenato l’inferno… L’intenzione è chiara: non mostrare pietà alcuna. Affilati come rasoi, pesanti come un macigno, viziosi come la maitresse di un buodoir parigino ed ancora pregni di quella carica sleaze che tanto ci aveva esaltato a fine anni ’80, i Guns hanno letteralmente asfaltato il Live Club, spettinando tutto e tutti. Phil Lewis ed il suo completo pitonato si dimenano come ossessi su di un palco incendiato dal furore chitarristico di un Tracii Guns (sempre sia lodato!) in stato di grazia. Una scaletta che è contemporaneamente il greatest hits di una band finalmente rinata, e manuale pratico di rock stradaiolo. “No Mercy”, “Electric Gipsy”, “Killing Machine”, le lacrime su “Over The Edge” (ricordate la colonna sonora di “Point Break”), la nuovissima “Speed” che fa salire l’attesa per il nuovo disco, il gran finale con “Ballad Of Jayne” e il tiro micidiale di “Rip & Tear”. Della serie… Axl who? Per il sottoscritto, Lewis e Guns scendono dal palco da vincitori assoluti della manifestazione, con largo margine di distacco su tutti gli altri, fatta forse eccezione dei TYKETTO, anche loro mostruosi pur su coordinate differenti. E, a questo punto, non resta che aspettare il prossimo anno per l’edizione numero cinque di quello che è diventato un appuntamento fisso per gli amanti di queste sonorità.
Max Murgia