Ringraziando il cielo (e gli organizzatori) l’aftermath del Frontiers Rock Festival cade in un giorno festivo, utile per recuperare le forze – l’età avanza – e per focalizzare gli eventi del fantastico week-end appena trascorso. Fantastico perchè, checchè se ne dica, per un costo decisamente inferiore a quelli di una data di Springsteen (believe me!) ho ottenuto a) di vedere 14 bands che difficilmente avrei visto altrimenti b) passare un week-end (pure lungo!) con amici e conoscenti che altrettanto difficilmente avrei visto tutti insieme c) incontrare tanti musicisti a cui far firmare un disco, con cui fare una foto o semplicemente chiacchierare per qualche minuto del più e del per – non sono un grandissimo esperto di questo genere di manifestazioni, ma mi pare di poter dire che al Frontiers le barriere tra artisti e fan cadono molto più velocemente che da altre parti. Disquisire delle spiagge sarde con Robbie LaBlanc non ha prezzo.
Chiaro che nel corso delle due giornate (ma anche tre, se contiamo il venerdì sera speso da portoghese al bar del Devero ad ascoltare, da dietro un paravento, un Kip Winger acustico mentre ti fai fare una foto con Paul Laine) ci sono stati luci ed ombre, ma credetemi che anche le ombre diventano ben accette quando hai la possibilità di presenziare all’evento. Non ci fosse questo Festival, saremmo tutti li a smadonnare perchè certi artisti col cavolo che si farebbero vedere qui in Italia.
Venendo al Festival vero e proprìo, la prima giornata parte con i No Hot Ashes, week-end warriors nord-irlandesi di cui ricordavo alcuni demo risalenti alla fine degli anni ’80. Musicalmente non sono cambiati molto, fisicamente invece… diciamo che il trascorrere del tempo non è stato particolarmente clemente, e che il look (o assenza di esso) può essere migliorabile. In ogni caso la mezz’oretta riservatagli fornisce un buon aperitivo per ciò che seguirà, quando salgono sul palco 5 ragazzini finlandesi la cui età complessiva probabilmente non supera quella di Vinnie Appice.
Gli Shiraz Lane, timidissimi la sera prima, sul palco si trasformano in novelli emuli degli Skid Row e terremotano il Live Club con una performance tiratissima e a tratti anche divertente. Personalmente faccio un pò fatica a reggere le tonalità all’elio del cantante, e pur dimostrando di saperci fare trovo che ai giovani virgulti nordici manchino ancora spunti compositivi di rilievo. Magari li misuriamo quando saranno un pò più grandicelli, in tutti i sensi.
Con i Find Me finalmente l’AOR arriva a Trezzo. LaBlanc canta da paura, Flores maltratta per bene le pelli e i brani dell’ultimo disco dal vivo si apprezzano parecchio. Primo vero highlight della giornata, e per come hanno suonato, col senno di poi mi vien da dire che un posizionamento più alto nel bill non avrebbe fatto gridare allo scandalo. Comunque, spentesi le note dei Find Me è di nuovo ora di far largo alla gioventù, questa volta britannica con The Treatment, freschi di nuovo disco, carini da vedersi e piacevoli a sentirsi, con il loro hard rock dall’ottimo tiro e facile presa.
Niente per cui scrivere a casa, ma sicuramente gradevoli e spensierati, ma soprattutto utili per ammazzare il tempo in attesa dei Drive, She Said, per il sottoscritto uno dei motivi per cui venire al FRF. Ascoltai Mangold con i suoi Touch per la prima volta sulla compilation live che commemorava il primo Monsters Of Rock inglese, e direi una bugia se negassi che la mia infatuazione per il versante melodico dell’hard rock sia nata con l’ascolto di quel disco.
Purtroppo le premesse non erano delle migliori, vista la prova vocale di Al Fritsch durante lo show-case acustico della sera prima, ma al cuor non si comanda e comunque vedere Mangold sul palco era un’esperianza che mi mancava. Peccato che adesso non mi manchi più… duole dirlo, ma se scrivessi queste righe con la testa e non con il cuore, dovrei scomodare il termine “imbarazzante”. Inutile Denander, schiacciato dall’altro chitarrista, Fritsch anche peggio della sera prima, Mangold abbastanza scazzato e con i foglietti volanti con gli accordi sulla tastiera, in pratica un mezzo disastro, inclusa la presenza on-stage di Fiona (dio come l’adoro… sfido chiunque ami questo genere a non ammettere di avere avuto una cotta per lei negli anni’80!). Tralasciamo invece i commenti sull’altra presenza femminile sul palco, che rasenterebbero livelli da bar dello sport, e limitiamoci a dire che è stata, per così dire, coreografica.
Detto questo, “Don’t You Know What Love Is” me la sono cantata tutta come se non ci fosse un domani.
Si dice che quanto piove, diluvia… e purtroppo i Treat hanno portato addirittura tempesta. Mai visti live, ero davvero curioso di testarne la consistenza dal vivo. Dal momento che tutti hanno visto e sentito, non mi dilungo sull’uso barbino delle backing-tracks, diciamo solo che mi sono sentito un bel pò preso in giro, quindi no comment, se non per ribadire che è stato un vero peccato, loro non sono male per niente e probabilmente avrebbero potuto reggere la performance anche senza rinforzini. Un’occasione persa. A quel punto meglio Fritsch, che se non la voce almeno ci ha messo la faccia.
Archiviata la pratica Treat, arriva (finalmente) l’attesa prova del palco per i Last In Line, i Dio-Senza-Dio, con Phil Soussan al posto del compianto Jimmy Bain, Erik Norlander che sostituisce Claude Schnell e Andrew Freeman, un folletto dalla voce inversamente proporzionale all’altezza, nell’ingrato ruolo di riempire il vuoto lasciato da uno dei più grandi cantanti (in assoluto) che abbia mai calcato le scene. Cover band? Ma fatemi il piacere… Constatato il buono stato di forma fisica di Vivian Campbell – nonostante la malattia contro cui sta combattendo da tempo – ero curioso della sua prova alla chitarra. Una sola parola: mostruoso! Appice è il solito fabbro che abbiamo imparato ad amare, ma è Freeman che sorprende di più: grandissima voce, grandissimo cuore e una prestazione che pur chiaramente ispirata al caro estinto, non si perde in una sterile imitazione. Se devo far eun parallelo, mi ha ricordato molto – per attitudine e coinvolgimento – Todd LaTorre dei ‘nuovi’ Queensryche. In una scalscaletta DIO-based devastante e che non poteva non far breccia nel pubblico, sono siolo un paio i brani provenienti dall’album di inediti recentemente uscito. Qualcuno si lamenta? Io no di certo…
La seconda giornata si apre con altri week-end warriors albionici in viaggio premio. I Blood Red Saints hanno alle spalle un disco discreto e una gran voglia di fare gli FM, ma tra il dire e il fare ci sono di mezzo uno Steve Overland e un Merv Goldsworthy, che ovviamente loro non hanno e quindi ci ritroviamo con la pallida copia degli originali. Niente di disastroso, per carità, ma in giro c’è di meglio. Diciamo che se un merito lo hanno avuto i BRS è quello di essere stata la compagine più caciarona e pub-oriented. Diciamo che sono stati al FRF 3 quello che i Dalton sono stati per il FRF 1, the life and the death of the party.
Per lo show successivo mi sono preparato fisicamente e spiritualmente, prendendo posizione in anticipo sui tempi: lo ammetto, sono di parte, adoro gli Inglorious, adoro il loro disco d’esordio e non volevo perdermi nemmeno un secondo dello loro show – li avevo già visti aprire per i Winery Dogs e mi avevano conquistato. Oggi hanno suonato anche meglio (!), Nathan James è un frontman istintivo ed ancora in fase formativa, il che lascia più che ben presagire per il futuro. Ottime cose anche dal chitarrista svedese Andreas Eriksson, e dal drummer più peloso del rock. In apertura gli viene consegnato il premio conquistato grazie agli ascoltatori di Planet Rock, e a metà set Jeff Scotto Soto invade il palco trasformandosi in cameriere ed offre a tutta la band un giro di shots. Scaletta pressoche identica a quella portata in tour con i Dogs, con i brani migliori del disco e le cover di “I Surrender” (dovuto tirbuto ai padri spirituali Rainbow) e una “Girl Goodbye” dei Toto da brividi.
Tra migliori della giornata, e ottimo apertivo per lo show di Terry Brock, una delle mie voci AOR preferite. Anche qui purtroppo devo parlare di mezza delusione, per una prova vocale diciamo none sattamente superlativa, una backing band ‘made in Italy’ di lusso, ma è chiaro che con poche ore di prove alle spalle si può fare poco. Scaletta senza sorprese (anche perchè preannunciata in largo anticipo dallo stesso Brock su Facebook), la sorpresa maggiore (in negativo) per il sottoscritto è, come dicevo, la voce di Brock. Detto questo, il concerto me lo son goduto lo stesso perchè in ogni caso, Terry Brock è meglio vederlo che non vederlo. Soprattutto per chi, come me, non aveva ancora avuto modo di assistere ad un suo live.
Che Paul Laine fosse in forma straripante lo si era già notato nello show-case acustico del venerdì sera, ma che i Defiants avrebbero vinto a mani bassi l’intero festival questo effettivamente non lo avevo messo in preventivo. Per dirla tutta, le basi c’erano perchè il disco a me è piaciuto davvero parecchio, ma dal vivo i tre cazzaroni nord-americani sono letteralmente esplosi ed hanno conquistato direi un pò tutti con uno show devastante, con un Laine vocalmente superlativo e con una carica di simpatia fuori dal comune, comunque ottimamente sostenuto da Ravel e Marcello, quest ultimo spettacolare alla chitarra. Quel bastardo di Laine ha poi riesumato sia “We Are The Young” che “Dorianna” da Stick It In Your Ear, della serie ‘gli piace vincere facile’, per lo meno con me. Comunque, punto-gioco-set e partita per i Defiants, che all aluce di tutto ciò davvero avrebbero meritato più tempo a disposizione ed una posizione migliore del bill. Lo so del senno di poi etc. etc.
Credo di essere stato tra i pochi veramente curiosi di vedere all’opera Graham Bonnet con la sua band, ma come al solito quandio le aspettative sono alte, la delusione è subito dietro l’angolo. Massimo rispetto per il passato del buon Graham, ma a volte un reality-check non guasterebbe. Un plauso alla voglia di fare musica anche a quell’età, ma bisognerebbe capire quando è arrivato il momento di dire basta. Scaletta scontata ma non per questo da disdegnare, vista la presenza di brani provenienti dal catalogo di un pò tutte le formazioni in cui ha militato, buona anche la backing band, specialmente la moglie bassista e il divino Mark Zonder alla batteria (un pò sconsolante vedere un drummer di quel livello ridotto a fare il compitino), voce non pervenuta.
Next please, ovvero i Trixter, mia personale croce e delizia. Uno di quei gruppi borderline nella mia discografia, hanno sempre fatto pezzi mai troppo belli ne troppo brutti, mediamente molto validi ma privi del colpo di coda, della canzone top, del ritornello killer… Deve essere colpa mia, non ho imparato ad apprezzarli perchè a giudicare dalle reazioni del pubblico, il gruppo tira e non poco. Anche di questo show al FRF non riesco a parlarne male…ma neanche bene, il tutto mi è parso un pò freddino ed impersonale, ma soprattuto privi di quei guizzi che ti fanno amare una band. Poi loro sono bravissimi ed iper-professionali, non c’è che dire. Boh, come dicevo, probabilmente non siamo fatti gli uni per gli altri.
Per il gran finale ci aspetta la reunion in esclusiva per il FRF dei Talisman. Jeff Scott Soto è una sicurezza e difficilmente delude, figuriamoci con il materiale dei Talisman. Formazione ovviamente rimaneggiata con BJ alle tastiere e il bassista degli Evergrey che non ricordo come si chiama, scaletta tutto sommato prevedibile, ma non per questo meno efficace. Certo, Norgren non manca di piantare assoli in ogni pezzo, ma in generale show di altissimo livello con un JSS superlativo, ispirato ed autentico animale da palcoscenico, di quelli che purtroppo si trovano sempre meno in giro. Nella mia testa il buon JSS assomiglia molto – in termini di attitude – a Fish, l’ex cantante dei Marillion: dategli qualcosa da cantare, fossero anche le pagine gialle, e lui vi darà uno show. Lunatico, ipnotico, cazzarone e grande professionista, difficilmente dal vivo mi ha deluso. Tanto meno stasera, quando anche la scontatissima (dal punto di vista della presenza in scaletta) “Purple Rain” in omaggio alla dipartita del principe di Minneapolis ha costituito un momento di pura emozione, lasciandoci andare a casa con le orecchie ed il cuore saturo di canzoni ed emozioni. Ci rivediamo in front row, l’anno prossimo.
Max Murgia