Un tributo, una recensione, una televendita su Mr. Lemmy Kilmister.
Duemila e quindici di merda.
Ma sí dai, magari ci hai rimediato un limone duro in disco o magari hai tirato a Campari – pardon campare – come ha fatto il sottoscritto – e poi arriva una notizia alle tre/quattro di notte. Hai presente, no?
Il rock’n’roll del resto é fatto cosí, ti comunica agli orari piú insoliti, mentre sei lí, blu, come la luce che emana lo schermo, coi postumi del solito Natale che: – Non faccio un cazzo – e poi ti svegli nel peggiore bar di Caracas, con un ritratto di Maradona tatuato sulla fronte e un braccio in meno; cose cosí, routine domestica, insomma.
Io, quell’alba del ventotto dicembre, a mio modo, stavo staccando la spina.
Rientravo da Caracas, diciamo. Poi irrompe la notizia. Lo fa nel modo piú asettico possibile: attraverso i social networks. Lemmy ha tirato le cuoia.
Sí, quel I don’t want to live forever/But apparentely I am non é piú valido.
Al test del doping lo hanno trovato positivo pure quello. É stato tolto dagli scaffali.
Lemmy é il nostro idolo di sempre e con sempre intendo dire da quando ci prendevano per il culo alle medie e lui era proprio Quel Tizio che ti diceva: – Hey ragazzo, sei sulla strada giusta! – e tu ci credevi, ovvio che ci credevi e te ne fottevi quando le cumpe di truzzi venivano a rompere le balle.
La magia dei tredici anni, croce e delizia.
Come ti diverti quando passa in fretta il tempo. O forse era il contrario.
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E sí insomma, il tizio che in un certo qual modo, con i suoi motti epocali, ti ha fatto perdere la testa per il rock’n’roll, ha incontrato Caronte, spianato il dito medio verso quei gruppi giovanili mid-tempo (manco avessero i crampi alle mani) ed é tornato al piacere del whisky e Coca, magari in compagnia di Lennon ed Harrison, suoi idoli di sempre, con un grasso disco di Little Richard a bastonare le casse del locale.
Se non si era ancora capito, dal tono della mia sortita notturna, parlare di Motörhead oggi é essenziale.
Ogni tributo – seppure piccolo ed insignificante – é altamente d’obbligo.
Come ho letto su un quotidiano: – Lemmy gambled and won – but kids, don’t try this at home – quindi non c’é rimpianto né amarezza perché un pezzo come Motörhead ci aveva giá chiarito gli intenti fin dagli albori e “Killed by Death” ci aveva giá spoilerato trent’anni fá sui risvolti del finale e sí, é tutto vero, you know I’m born to lose and gambling’s for fools.
Imboccare l’autostrada per l’inferno fa sembrare il grande raccordo anulare come fosse un parco giochi per bimbi ed é come perdersi nello spazio che quando cadi non si sa mai se é una reale caduta o – con un po’ di culo – un’ascesa.
Lemmy ha vissuto cinquant’anni di rock’n’roll al fulmicotone, cambiando la testa di ormai quattro generazioni di giovani rockers in cerca di quel cheap thrill che ti dice: – Sei qui e sei vivo – e ogni parola su di lui risulterebbe leziosa ed estremamente inopportuna.
I Motörhead li abbiamo vissuti in lungo ed in largo – dalla spilla, alla toppa, dalla cassettina al concerto – e Chi (o Cosa) fosse Lemmy lo sappiamo giá tutti.
Se non bastava il fatto che li abbiamo visti dal vivo circa dieci volte, c’é pure la biografia “White Line Fever” (edita nel 2002 da Baldini Castoldi Dalai) e il documentario “Lemmy” diretto da Greg Olliver a dissipare ogni dubbio su quando sto asserendo.
Tornando a noi, qui e ora nelle ore piú piccole delle notte, rendiamo tributo nell’unico modo possibile rimasto e probabilmente piú idoneo: suonare la sua musica ad alto volume.
Potevo vincere facile e pescare quella bomba ad orologeria di “Overkill” o tentare di convincervi di quanto sia invece bello il famigerato disco flop “Another Perfect Day“; il catalogo dei Motörhead non manca certo di elementi dei quali valga la pena parlare.
Peró no, “Overkill” siete capaci di metterlo su per conto vostro, nella situazione piú congeniale, é non servono le mie parole ad impreziosire un diamante.
“Another Perfect Day“?
Se siete come noi, sicuro non lo avete mai schifato.
Prima, fantasticando sul trapasso di Lemmy ho citato, non a caso, Little Richard.
Che il Piccolo Riccardo fosse un suo idolo, beh, di questo ce ne ha parlato in piú occasioni.
Da questa passione per il rock’n’roll tradizionale americano nascono appunto gli HeadCat, che giá nel 2000 avevano pubblicato un disco come Lemmy, Slim Jim & Danny B. dal titolo omonimo, poi un lustro piú tardi sono riapparsi con il monicker attuale – sulla linea di HeadGirl – con un nuovo dischetto di classici dei cinquanta, “Fool’s Paradise“, edito dai buongustai di No Balls Records.
Non mi si fraintenda, non sto qui a tirare merda gratis su quel disco, anzi, c’é da dire tuttavia che ci sono almeno una mezza dozzina di band provenienti dai piú angusti undergrounds che hanno fatto meglio.
“Fool’s Paradise” è soprattutto un disco di covers, poche balle, e cosí come l’esecuzione é divina e consiglio a tutti di trascorrerci una serata in compagnia, come risvolto della medaglia ci si ritrova a fare i conti con un disco fin troppo pacato per gli standards caciaroni di Lemmy, riproiettandocelo in una balera intasata di tardoni sudati e pelosi. Uomini e donne, nessuna distinzione. Che Lemmy é sempre e comunque fautore del disagio.
Cinque anni dopo, nel 2011, hanno infine dato alle stampe l’album del quale mi appresto a parlarvi.
Il disco in questione é “Walk The Walk… Talk To Talk“, pubblicato dalla Niji Entertainment Records dei coniugi Dio.
L’album, registrato senza trucco né parrucco, é soprattutto un esercizio di stile – su questo non ci piove – ma a differenza dei suoi predecessori é ispirato e qui si parla dell’ispirazione di tre fuori classe della scena come Lemmy Kilmister, Slim Jim e Danny B. Harvey e a questo punto credo non servano dati extra.
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La registrazione é finalmente quella giusta. C’é quell’elettricitá nell’aria che ti prende per il bavero e ti sbatte fuori dal saloon.
Le covers presenti, tutte suonate a livelli stellari, sono state pescate da polverosi scaffali infestati di vinili, si va infatti da un pezzo minore di Chuck Berry come “Let It Rock” al B-side di “Can’t Buy Me Love, You Can’t Do That” dei Beatles, passando ancora una volta per quel dritto di Johnny Kidd e i suoi pirati (giá tributato ai tempi delle HeadGirl) e il blues di Robert Johnson e Larry Williams, giá passato per le attenzioni degli Scarafaggi di Liverpool.
La selezione é dunque ghiotta e la band picchia duro, regalandoci pure due inediti assolutamente all’altezza, l’opener “The American Beat” e “The Eagle Flies On Friday”.
Se il suo cameo su Hardware non é bastato a farvi mangiare la foglia, eccovi un altro indizio.
Lemmy non é morto, lo sono venuti a prendere i suoi e lo hanno riportato a casa. Tra le stelle.
Come del resto ha detto lui mentre veniva insignito alla Rock and Roll Hall of Fame: – Le gente non vuole vedere sul palco il proprio vicino di casa. Loro vogliono vedere un essere da un altro pianeta -.
Buon ritorno a casa Lemmy!
Ora bando alle ciance, che é sempre un po’ piú tardi di quello che sembra, e lasciamo parlare la musica che lei tutto sommato ha sempre ragione.
O quasi.
Mass Veneri
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